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Autore: Darlene_    09/03/2020    0 recensioni
Ancora inconsapevoli di avere un destino comune, Josh e Chris sono due adolescenti qualunque, uniti non solo dal rapporto fraterno, ma anche dalla malattia del maggiore.
Una raccolta di storie che ci permette di dare uno sguardo alla vita degli Atwood prima che varchino la soglia di Greenhills.
La storia è un prequel di: "Viaggio a Greenhills" leggibile senza aver letto la long (che non è stata abbandonata, è ancora in corso!)
Forte presenza di hurt/comfort
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le avventure dei fratelli Atwood'
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Storia scritta per
l’Advent Calendar
gruppo hurt/comfort
 
Prompt 170:
arrivo del dottore
 

Genere: originale


 
La scoperta
 
 
 
“Sto bene!” Ribatté per l’ennesima volta Josh, tentando di fuggire dallo sguardo apprensivo del padre. John scosse la testa, visibilmente scoraggiato. Era stato chiamato dalla scuola del figlio dopo un suo svenimento e aveva deciso di portarlo in ospedale per degli accertamenti, ma quel sedicenne cocciuto stava facendo di tutto per fargli perdere le staffe. Si strofinò i palmi delle mani callose sui jeans sbiaditi su cui erano ancora presenti macchie di calce, quindi li passò sul viso, cercando di cancellare le tracce della sua preoccupazione.
“Ormai siamo qui, Joshua, e non ce ne andremo fino a che non sarà un medico a dirmi che stai effettivamente bene, chiaro?” Il suo tono era deciso, un’espressione burbera dipinta sul viso. Il ragazzo non si ricordava nemmeno quando lo aveva visto ridere l’ultima volta. Una ruga profonda segnava la fronte abbronzata e gli occhi stanchi erano cerchiati dalle occhiaie. Josh annuì, nemmeno lui aveva davvero voglia di discutere.
“Bene.” Affermò l’uomo, alzandosi dalla seggiola di plastica blu. Prese il portafoglio dalla tasca dei pantaloni e lo soppesò nella mano. “Ho bisogno di un caffè, vuoi qualcosa?” Gli domandò addolcendosi. Il figlio scosse la testa: avrebbe solo voluto tornare a casa. “Torno tra poco, faccio entrare tuo fratello, così non resti solo.”
L’adolescente sbuffò. “Non ho bisogno di qualcuno che mi controlli.”
John accennò ad un sorriso e gli arruffò i capelli, come non faceva da quando era solo un bambino, ma non appena si rese conto del gesto ritrasse la mano, imbarazzato, ed uscì a passo di marcia.
 
“Come stai?” Domandò Chris facendo capolino nella stanzetta. Josh, perso ad osservare fuori dalla finestra, si voltò, fulminandolo con lo sguardo. “Prova a chiedermelo di nuovo e ti butto giù dalla finestra e no, non sto scherzando.” Il minore non si fece scoraggiare e si sistemò sul letto accanto al fratello. Si sedette sul bordo, le gambe grassocce che penzolavano nel vuoto. Restarono per un po’ in silenzio, non sapendo bene cosa si dovesse dire in una situazione del genere.
“Papà ha detto che sei svenuto nella palestra, è vero?” Chris non riuscì a trattenere la sua curiosità: aveva solo undici anni e non comprendeva che quella situazione avrebbe potuto essere molto grave, per lui si trattava semplicemente di un diversivo dalla quotidianità.
Josh puntò le iridi di smeraldo verso il soffitto, portando le mani dietro alla nuca. “Papà non ti ha detto che dovresti farti i fatti tuoi? E poi perché non sei a scuola?”
Chris fece spallucce, non aveva nessuna intenzione di raccontare delle rane che aveva liberato nel laboratorio di biologia, in fondo, a lui, continuava a sembrare un’idea brillante.
“Joshua Ryan Atwood?” Domandò un signore un po’ attempato bussando allo stipite della porta.
Il ragazzo di raddrizzò, appoggiando la schiena contro la testiera del letto. Chris scese dal materasso, mettendosi in un angolo, in soggezione. Il medico sorrise ai due fratelli, ma il minore rabbrividì nel vedere il suo camice bianco e lo stetoscopio che penzolava intorno al collo.
“Sono il dottor Jeffrey e tu devi essere Joshua Ryan, giusto?”
“Mi chiami Josh, nessuno usa mai il mio nome completo.” Per un attimo si chiese cosa stesse blaterando; cosa importava a quello come lo chiamavano gli altri? Si schiarì la voce e disse: “Mio padre ha voluto portarmi qui, ma io sto bene, davvero. Mi dia il permesso di uscire, sono a posto.” Il medico sorrise, consultando la cartella clinica. “A quanto c’è scritto qui sei svenuto durante lo svolgimento dell’attività fisica…”
Non lo lasciò nemmeno finire di parlare. “Sì, ma non è nulla, solo un calo di zuccheri, non avevo mangiato nulla per colazione.”
“Non è vero, papà ci ha preparato i pancakes, ricordi?” Intervenne Chris, che si beccò un’occhiataccia dal maggiore.
Jeffrey non si scompose per la menzogna: molto spesso i suoi giovani pazienti omettevano o modificavano la verità per timore di scoprire qualcosa di preoccupante.
“Probabilmente hai ragione tu, anzi, quasi sicuramente, ma è meglio accertarsene, non credi? Tranquillo, se è tutto a posto sarai a casa per pranzo.” Sorrise affabilmente. “Ti è mai successo prima un episodio simile?”
Josh scosse la testa.
“Bene.” Scarabocchiò qualcosa nella sua grafia incomprensibile. “Adesso ti visito, sarà veloce, non preoccuparti.”
“Infatti non lo sono.” Rispose bruscamente il paziente.
Il dottore gli puntò una luce negli occhi ed annottò sulla scheda clinica.
Poco per volta Chris uscì dal suo angolino per avvicinarsi al letto. Quando fu abbastanza vicino allungò una mano e strinse con forza quella di Josh: era il suo modo per dirgli che era lì, con lui, e che non lo avrebbe abbandonato.
“Potresti sollevare la maglietta?”
Il ragazzo ubbidì. Jeffrey posò lo stetoscopio sulla pelle candida del torace, teneva una mano sulla spalla del paziente, in quella che avrebbe dovuto rappresentare una stretta rassicurante. Josh strinse la mano del fratello: aveva paura, non poteva negarlo: non della visita in sé, sapeva che non avrebbe provato dolore, ma temeva che il medico gli diagnosticasse qualche malattia grave. Lo stetoscopio scorreva sulla pelle, mentre la faccia del dottor Jeffrey diveniva sempre più seria. Lo invitò a stendersi, auscultò ancora per qualche istante il cuore, quindi ripose lo strumento e scrisse la sua relazione sulla scheda clinica.
“Ti capita mai di faticare a respirare?”
“No.”
“Dolori al petto?”
Il ragazzo scrollò le spalle. “Non lo so, forse qualche volta.”
Jeffrey annuì. “Ti senti mai stanco, spossato?”
Il maggiore guardò Chris, avrebbe voluto risparmiargli quello stress, l’ansia di attendere un responso che avrebbe potuto essere anche negativo, ma il bambino non pareva particolarmente turbato (o almeno era ciò che voleva far intendere, in realtà era davvero preoccupato). 
“Nelle ultime settimane mi è successo, ma è un periodo difficile, sono molto sotto pressione per la fine del semestre…” Nemmeno Josh credeva nelle sue stesse parole.
Il dottore annuì. “Ho prescritto un elettrocardiogramma e un’ecografia, così potremo avere una diagnosi certa. Preferisco che tu stia qui per qualche giorno, almeno per il tempo degli accertamenti, nel frattempo non sottoporti a sforzi e riposati.” Ripose la penna nella tasca del camice facendo scattare la molla. “Vorrei parlare con i tuoi genitori, puoi dir loro di raggiungermi nell’ala est?”
“Mio padre.” Poi si sentì come in dovere di dare spiegazioni sull’assenza della madre: “C’è solo lui qui.”
Il medico annuì, non gli importava particolarmente a chi avrebbe dovuto fornire maggiori informazioni, dopo tanti anni di carriera si era abituato. Era già sulla porta quando la voce di Josh lo fermò.
“Crede, beh, è grave?” Domandò, gli occhi supplichevoli. Jeffrey accennò ad un sorriso e intorno al naso si formarono due rughe d’espressione. Pensò che forse, in fondo, non era poi così preparato a dare cattive notizie- Si avvicinò al paziente, scrutandolo con attenzione: era solo un ragazzo, ma pareva già così adulto!
“Dovrei comunicarlo prima ai tuoi genitori, ma tu sei già un giovanotto, perciò ti tratterò da adulto.” Si fissarono per qualche istante, forse entrambi alla ricerca di una via di fuga da quella situazione. “Presumo si tratti di una valvulopatia cardiaca.” Posò una mano sulla spalla di Josh, anche se sapeva che avrebbe dovuto mantenere un certo distacco, ma quel ragazzo gli ricordava suo figlio e provava un moto di simpatia per lui. “Tranquillo, di solito non è grave, si può risolvere con un intervento, ma prima dobbiamo capire se è congenita oppure no. Se non è presente dalla nascita dovrebbe svilupparsi nell’età adulta, nel tuo caso sarebbe precoce, ma non si può ancora escludere nulla.”
Josh abbassò gli occhi sul lenzuolo bianco, mentre Chris cercava di comprendere il significato di quei paroloni.
“Mi spiace, ma non preoccuparti, non fino a che non avremo certezze.” Salutò i fratelli e continuò il suo giro di visite. Il più piccolo salì sul letto ed abbracciò il maggiore, affondando il viso nella sua maglietta. Josh lo cinse con entrambe le braccia, cercando di reprimere le lacrime. Gli carezzò distrattamente i capelli castani, pensando all’ipotetico intervento.
“Jo?”
Lui tirò su con il naso. “Dimmi.”
Chris sollevò leggermente la testa e chiese: “Non ne andrai via anche tu, vero? Non puoi andare dalla mamma, io ho bisogno di te.”
Il sedicenne lo strinse maggiormente a sé e gli sussurrò: “Non ti lascerò solo, te lo prometto.”
 





Ho pensato molto se pubblicare o meno questa raccolta, ma amo troppo i fratelli Atwood e sentivo il desiderio di condividere con voi le loro tragedie. Spero che questi mocciosetti vi piacciano :) 
A presto!
 
  
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