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Autore: Diana LaFenice    10/03/2020    0 recensioni
Al tempo in cui il Medioevo si scambia di posto col Rinascimento, Agostino è soltanto un bambino quando la sua vita cambia per sempre e, con la sua famiglia, si trasferisce a Sirmione per sfuggire alle malelingue sul suo aspetto: a causa di un forte shock parte dei suoi capelli sono diventati bianchi.
Il suo peregrinare finirà quando lo zio lo accoglierà presso di sè a Castel Toblino, ove troverà impiego come giardiniere. Il suo intento, infatti, è quello di ricreare il Giardino dell'Eden proprio lì, nel parco del castello. Ma non sarà facile.
L'amore per i fiori e la natura, che condividerà con molte persone, intrighi, superstizioni, maledizioni, una creatura misteriosa la cui voce angelica che risuona nelle notti della bella stagione, e pericoli di varia natura, fanno da cornice alla vita del giovane giardiniere, all'incredibile storia che vivrà e a una leggenda quasi dimenticata il cui unico ricordo è ormai la spilla su cui aleggia: quella di un giovane amore sbocciato sulle sponde di un lago minacciato dai pericoli del suo tempo e l'espiazione di un cavaliere.
Questa è la Leggenda delle Stelle d'Acqua.
Genere: Romantico, Sovrannaturale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Violenza
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Capitolo 14: Madamigella Arya

 

Erano passate solo poche ore dal secondo incontro con la sirena che già non vedeva l’ora che giungesse la notte. Anche prima aveva sperato che giungesse per poterne udire il canto, ma adesso che aveva visto la proprietaria di quella voce, il solo canto non gli bastava più. Inoltre temeva che adesso lei non si sarebbe più fatta vedere per la troppa paura. In effetti, ammise, anche lui si sarebbe spaventato se fosse stato al suo posto. Forse avrebbe dovuto cercare di raccontarle qualcosa per convincerla delle sue buone intenzioni. Ma cosa? Un fabliaux di bassa lega e di dubbia origine? I fabliaux erano storielle popolari di origine orientale - o almeno così si vociferava - che trattavano di sessualità (soprattutto adulteri), inganni, disavventure di villani con qualche eccezione di aristocratici. La leggenda dell’unicorno? A quella possibilità scosse il capo. Bella questa! Gliel’aveva insegnata il suo maestro come metodo per rimorchiare le ingenue fanciulle. Come se non fosse chiaro il parallelismo tra cavallo con il corno con gli organi genitali maschili e il gioco della seduzione. E certo, funzionava, ma con una creatura che già di per sé era leggendaria, era come parlare di sgombri con un luccio. Ammesso e non concesso che i pesci parlassero.
E così si ritrovò a fare prove di dialoghi di fronte al suo riflesso alla finestra. E che scartava appena arrivava a punti a dir poco inverosimili nella loro assurdità.  
Si ritrovò persino a pensare che forse non gli avrebbe fatto tanto male ripassare qualche poesia che il suo maestro cercava di inculcargli. E meglio ancora, forse avrebbe dovuto presentarsi a lei con un dono. Ma che cosa si dona a una sirena che vive sul fondo di un lago? Gli domandò una vocetta fastidiosa dentro la sua testa. Bella domanda. Di certo non poteva donarle un libro: lo avrebbero frustrato. Degli abiti? Ancora peggio. Non sapeva perché, ma più che piccole cose, sentiva di volerle donare un castello intero. Perché, poi, non se lo seppe affatto spiegare.
Alla fine decise di portarle soltanto un pettine e un po’di cibo. Almeno uno dei due l’avrebbe accettato sicuramente. Al pensiero di poterla rivedere, il giovane sentì il cuore accelerare. Ma si impose di darsi una calmata. Altrimenti con tutta l’agitazione che si portava dietro, avrebbe finito per farla scoprire.

Quando arrivò l’ora X si appostò dove l’aveva vista l’ultima volta. Ma la voce di lei gli giunse dalla riva opposta del lago. Maledizione, aveva sbagliato un’altra volta. Restò seduto sulla riva del lago ad ascoltarla, sconsolato. Alla fine si guardò le mani che tenevano ancora il fagotto di cibo e se lo mangiò lui.

 Quella mattina faceva un caldo talmente spietato che Agostino faticò a concentrarsi sul lavoro. Un po’ per colpa della sua mente: infatti, senza che lui lo volesse, continuava a ripensare alla sirena lacustre. Migliaia di domande e pensieri incoerenti affollavano la sua mente aggrovigliandosi tra loro. «Sei sicuro di star bene?» Continuava a dirgli preoccupata, lei.
«Sto benissimo».
«Sei sicuro? È tutto il tempo che sei distratto e hai la testa altrove».
«Sto benissimo, ho detto».
Era seduto al tavolo in giardino e stava dando gli ultimi ritocchi al progetto in compagnia di Stella e di Lucenzio quando la porta si spalancò e il marchesino fece la sua comparsa.
I tre alzarono gli occhi dai progetti, attirati dal rumore, e lo stesso fecero gli altri lavoratori mentre il marchesino col proprio seguito si guardava attorno. Il giovanotto, capelli scuri legati con un laccetto, indossava una camicia leggera e delle calza braga con una braghetta, una borsa portata sull’inguine a coprire il pube. Agostino non ne comprese il motivo finché non si accorse del maestro di spada. Solo allora strabuzzò gli occhi: «Ha intenzione di allenarsi qui?»
«A quanto pare.» Mormorò Stella stupita quanto lui.
«Tu non lo sapevi?» Gli domandò il giardiniere.
Lei scosse il capo.
«Pensavo che ti dicesse tutto». Lei si limitò a scuotere nuovamente la testa. Ultimamente era diventata piuttosto guardinga e laconica. Ma che le prendeva?
Dalla porta uscirono anche i suoi amichetti che si lamentarono dell’assenza di sedie e si accomodarono in terra. Il giovane nipote di Etienne ci mise un po’per riconoscerli senza gli abiti sfarzosi. Intanto degli schiavi reggevano un parasole per schermarli dal forte sole di giugno e un altro faceva loro vento con un grosso ventaglio. I due parlavano fitto fitto a proposito forse del loco e poi si rivolsero al compare per dirgli: «Oh, poi si fa quel torneo di cui parlavamo».
«Certo; potete anche accomodarvi adesso, se desiderate.» Li sfidò il giovane con un sorriso. Anche se dava le spalle al quindicenne, si sentiva dal tono di voce che sorrideva.
Lei sbuffò: «Ora non mi dice proprio tutto e non è che abbia intenzione di dirmi quello che fa proprio sempre sempre».
«Non dovrebbe stare qui, potrebbe essere pericoloso.» fece il giovane, cambiando discorso mentre i suoi occhi si posavano sul giovane che cominciava alcuni esercizi di riscaldamento. «Dovremmo dirglielo.» Disse poi, nella speranza che i due comprendessero appieno le sue parole ed eseguissero. Ma nessuno dei due si mosse. Così il poverino fu costretto a fare tutto da solo. E ovviamente, non cavò un ragno dal buco. Il giovane marchesino, infatti, si pose la spada in spalla e lo guardò con fare interessato mentre il quindicenne spiegava. A volte annuiva persino alle sue parole. Ma poi, una volta finito di parlare, il giovane arrogante gli rise in faccia e gli fecero eco i suoi compari.
«Se vi diamo così fastidio, mastro, perché non ve ne andate voi?»
«Forse non avete capito, ma qui noi dobbiamo lavorarci».
«Anche noi. Ma disgraziatamente stanno ridipingendo la sala dove di solito il mio maestro e io ci alleniamo, perciò, come vedete...» Lasciò cadere la frase in sospeso. Il giovane dovette fare leva su tutta la propria tranquillità per cercare di non aggredirlo sul posto. Alla fine si costrinse a inchinarsi e a dire: «D’accordo, messere».
Così si allontanò sperando che il giovane nobile non desse troppo fastidio e non si mettesse nei guai. Ci mancava solo che somigliasse anche soltanto un po’alla sorella. Al pensiero di essere messo nei guai a causa di quel diciassettenne borioso - che cominciava ad allenarsi per davvero col proprio maestro, il quale alternava consigli a movimenti ed esercizi - si sentì male. Agostino cercò di concentrarsi sul lavoro e mandò i due collaboratori più fidati a fare delle commissioni. Lui invece restò lì a supervisionare i lavori e ad aggiustare il progetto: c’era un’area del giardino che proprio non voleva farsi lavorare in nessun modo. L’aveva ribattezzata Lo Zoccolo Duro e lui non riusciva a vederci il progetto finito, vedeva solo gli ultimi rovi e le erbacce che gli avevano dichiarato guerra. Il peggio era che nessuno voleva lavorarci. Fu distratto dal clangore delle spade e dal verso del ragazzo che si allenava. Sempre troppo vicino per i suoi gusti. A proposito di lavori rallentati per quanto ne aveva ancora? Erano appena passati cinque minuti e già si pentiva di non essere riuscito a farsi valere sul marchesino. Di questo passo non solo avrebbe rallentato i lavori, ma li avrebbe addirittura danneggiati e fermati. «Occhio alle aiuole!» Esclamò allarmato quando i vandali furono troppo vicini alle medesime. «No! Lì ho appena piantato le begonie, fermi! Uscite subito da lì! Uscite!» A malapena Lucenzio e Stella ce la fecero a trattenerlo quando impugnò il rastrello con tutta l’intenzione di sbatterglielo sulla testa. E poi, dulcis in fundo, il marrano e il suo maestro di spada si spostarono esattamente dove era il tavolo dei progetti.
Il povero giardiniere non ce la faceva più. Dovette persino ordinare ai lavoranti di fermarsi, altrimenti Dio solo sapeva cosa sarebbe successo. E non avrebbero davvero dato fastidio più di tanto, se poi non solo non si fossero allargati fino al tavolo e oltre, ma se avessero usato le spade con meno rabbia. Era la prima volta che delle armi cozzavano a pochi passi da lui e il rumore delle lame taglienti che cozzavano l’una sull’altra era inquietante, peggio di due coltelli sfregati insieme. E non si era mai accorto prima che mandavano scintille ogni volta che si scontravano. Invece di restarne completamente affascinato, una parte di sé ebbe paura. 
Solo a ripensarci rabbrividiva.
Due paia di gambe fasciate da calzabraghe azzurre macchiate di terra comparvero nella sua visuale «Ehi, che combini?» Gli chiese la voce di Andrea. In quell’anno era cambiato, aveva accorciato i capelli, che ora gli coprivano le orecchie e portava la barba più corta. Ma la pancetta da birra si intravedeva lo stesso da sotto la camicia.
Agostino era seduto sul pontile con i fogli del progetto sulle gambe incrociate. Però guardava il lago e, inevitabilmente, gli arrivò alle narici una zaffata dell’aroma dei piedi del conoscente.
«Niente».
«Stai guardando i progetti?»
«Sì».
«Sul pontile? Ma non hai paura di cadere in acqua e mandare a puttane il tuo lavoro?» Rilevò l’altro, stupito. In effetti sarebbe bastata anche solo una folata per far diventare quei fogli cibo per pesci.
Il ragazzo arrossì di brutto. In effetti, ora che se ne rendeva conto, non era il posto più appropriato per stare: «È l’unico posto dove il marchesino non si azzarda a venire per i suoi esercizi di scherma. La volta scorsa mancò poco mi balzasse sul tavolo.» Spiegò colto da un’illuminazione. Poi, a pensarci bene, si accorse che era anche uno dei posti dove neanche Stella si azzardava a frequentare.
L’uomo assunse una faccia scettica e divertita e si accucciò alla sua altezza. Gli avambracci poggiati sulle ginocchia: «Sei davvero sicuro che sia questa la ragione?»
«Ce ne dovrebbero essere altre?»
«Non lo so. Dimmelo tu, perché io personalmente, non mi rintanerei in un posto dove verrei facilmente punto dalle zanzare e rischiare un’insolazione».
«Non c’è niente da dire.» ribatté il ragazzo senza però trovare il coraggio di sostenere il suo sguardo. Il collega tacque per un po’, poi disse: «Allora stasera vieni?»
«Sì, vengo».
Poi gli arrivò un buffetto sulla guancia e il ragazzo lo guardò stranito. L’uomo, invece, sorrideva, per nulla turbato; «Su, andiamo all’ombra, non vorrai prenderti davvero un’insolazione. E non temere, adesso il marchesino se ne è andato.» Disse scherzoso. Però i suoi occhi esprimevano il disgusto per il tono paterno che gli era uscito. Andrea era quel genere di persona che si considerava sullo stesso piano di tutti e si mescolava con tutti. Perciò rimproverarlo affettuosamente a quel modo lo faceva sentire vecchio. Agostino gli fece la linguaccia.

Quella sera stessa andò all’osteria con Lucenzio e Andrea. Se non altro avrebbe fatto qualcosa di diverso invece di gelarsi il sedere sull’erba e a prendere umidità sulle rive di un lago. Meno male che il suo corpo era giovane e forte, altrimenti sarebbe stato bloccato nel castello dai reumatismi.  Però fu quella sera che gli venne un’idea. Un’idea stupida, ma pur sempre un’idea. A suggerirgliela fu proprio Andrea, che trovò per sé e per lui un paio di donnine allegre. Tra cui una nuova leva che aveva pressappoco l’età di Agostino. Costei era alla sua prima esperienza ed era piuttosto intimidita. Indossava un abito giallo con la scollatura troppo ampia per quel suo seno un po’cadente e misero. Era coperta di lentiggini e aveva i capelli ricci e rossicci, il viso ancora infantile e gli occhi di un azzurro spento che non esprimevano altro che tristezza per la sua sorte. Doveva essere stata venduta dai genitori al bordello quasi sicuramente per pagare dei debiti. Fu presentata al loro tavolo da Carmela, la maitresse. Le teneva le mani sulle spalle mentre le diceva di salutare come se la giovane fosse stata sua figlia. La ragazzina obbedì ma la voce non le uscì. Arrossì per la vergogna e chinò immediatamente il capo.
Carmela sorrise e cercò di mettere una pezza: «Non fateci caso, è molto timida. È la sua prima volta».
Andrea rise e si rivolse alla giovane inesperta: «Non è un così grande problema, anzi, Agostino sarà felicissimo di stare in sua compagnia per stanotte. Vieni qui, avanti, non avere paura, non morde. Su, fatti vedere».
La ragazzina guardò la collega più anziana in cerca di sostegno e, al tempo stesso, come a chiederle il permesso, e costei annuì. Allora guardò nuovamente Andrea e avanzò un po’meccanicamente verso di lui e la mano che le aveva teso. Solo dopo incrociò lo sguardo di Agostino, che le sorrise. Lei distolse subito lo sguardo.
Il ragazzo si dispiacque di questo suo terrore, non aveva voglia di fare alcunché, gli sarebbe andato bene anche parlare un po’. Le fece posto sulla panca e Andrea fece le presentazioni, poi offrì un altro giro e li lasciò da soli.
Agostino non capiva perché si stesse comportando così, dopotutto quella era una baldracca, non una fanciulla. E glielo chiese sporgendosi per dirglielo all’orecchio. Come l’amico riuscì a udirlo in mezzo a quel frastuono restò un mistero. Gli rispose che per lui erano tutte donne e come tali andavano trattate, anche se esercitavano il mestiere più antico del mondo.
«Sei ancora troppo piccolo per capire. Ma non preoccuparti, se non te la senti va bene lo stesso». Disse poi.
Il giovane si domandò se tutto ciò avesse a che fare con la madre di Andrea, della quale aveva udito parlare a palazzo. E cioè che fosse stata una prostituta e lui un figlio di nessuno. Ma il giovane uomo pareva non fare caso a questi pettegolezzi e le malelingue. A vederlo, poi, non si sarebbe mai detto che aveva delle origini così umili. Forse si era promesso di trattarle tutte a questo modo memore della madre, che non sempre aveva avuto gentilezza e rapporti sereni dai suoi clienti. Infatti, la donna era stata uccisa solo otto anni prima da un cliente. E anche di questo, aveva udito parlare.
Ma - si rese conto - la stessa cosa valeva anche per lui.
«Di cosa parlate?» Chiese la giovane, guardandoli perplessa e intimorita. 
«Mi ha chiesto quando è che una ragazza diventa donna. Oh, suvvia, non guardatemi così, è una bella storia. La conoscete?» La riccia scosse il capo con aria desolata mentre stringeva il boccale di birra tra le mani.
«No, mia giovane amica? Allora rimediamo subito». Ciò detto si mise a raccontargliela con tale dolcezza che piano piano la titubanza l’abbandonò. E anche lei cominciò a raccontare che ne conosceva una simile. Sempre piano piano Andrea si estraniò dalla conversazione, lasciando solo loro due.
E Agostino prese a raccontarle di quello che faceva. Dei fiori. Alla fine fu la giovane stessa a prendere l’iniziativa e baciarlo. Il viso paonazzo per la timidezza e l’emozione. Agostino ebbe un lampo di genio. Se persino quella ragazzina si era sciolta allora anche la sirena… Improvvisamente non gli parve più così irraggiungibile. Si alzò immediatamente, la ringraziò, le dette dei soldi e corse di nuovo al castello.

La sera seguente si avvolse nel mantello, prese una lanterna e uscì dalla propria stanza. Sospirò nel tentativo di calmare il battito del suo cuore impazzito e di tenere insieme le budella che sembravano sul punto di sciogliersi. Fortunatamente si ricordò di passare dalla biblioteca per prendere il tomo che gli serviva. Se lo ficcò sotto l’ascella e riprese il suo cammino.
Fortunatamente le guardie alle porte non gli fecero domande: si erano abituate a vederlo uscire la sera. E suo zio si fidava abbastanza da lasciarlo uscire da solo la sera, a patto che tornasse in tempo e non si trattenesse troppo alla locanda quando era da solo. Perciò, neanche lui avrebbe posto domande e poi era estate! Solo un pazzo non si sarebbe fatto una passeggiata notturna in quella stagione. Inoltre, celato sotto al mantello, il libro non si vedeva. Se solo avessero saputo che la sua mèta era un po’diversa dalla solita, chissà come avrebbero reagito. Si affrettò a cancellare dalla mente quei pensieri nel timore che qualcuno indovinasse le sue intenzioni. Esisteva dappertutto qualcuno dotato di quel potere e non voleva rischiare di essere beccato.
Perciò, imponendosi la calma, si recò in riva al lago, proprio sulla cima dello scoglio dove lei si era arrampicata poche sere prima. Lì attese e, nei pressi di mezzanotte, cominciò a recitare ad alta voce uno dei romanzi che stava leggendo. Quasi non si accorse del rumore dell’acqua tanto la sua stessa voce lo stava trasportando in altri mondi.
Ma quando alzò gli occhi si accorse della sua spettatrice illuminata dalla fievole luce della lucerna. La sirena, la schiena eretta, lo guardava ad occhi sgranati. Il suo viso sembrava dire che tutto si poteva aspettare, fuorché quel pazzo - perché questo doveva sembrare ai suoi occhi - che recitava un intero romanzo al buio più totale. 
Lui alzò gli occhi dal libro e le fece un bel sorriso, accompagnandolo con un cenno del capo: «I miei rispetti, madamigella. Spero di non avervi arrecato alcun disturbo». Salutò sciorinando tutto il suo vocabolario cortese. Lei aprì la bocca per dire qualcosa ma si ritrovò a boccheggiare come un pesce fuor d’acqua. Solo dopo qualche secondo si riebbe: «No, è che mi stavo domandando come poteste leggere al buio». Se ne uscì alla fine, con tono più sicuro. Ma la sua suonava tanto come una scusa cui si era aggrappata sul momento.
«Infatti non sto leggendo, sto declamando».
Il suo viso si increspò in una smorfia divertita: «Declamando?»
«Certo. Ho l’abitudine di declamare i miei versi alla luna. È una perfetta ascoltatrice, anche se non è molto loquace.» sorrise il giovane, poi le domandò: «E voi? Che cosa stavate facendo?»
La sirena lo guardò stupita dalla domanda e poi balbettò, distogliendo lo sguardo in basso a sinistra e cingendosi le spalle, che affioravano fuori dell’acqua, come se avesse potuto coprire delle nudità che non si vedevano affatto: «Io… Io stavo…».
Il giovane venne in suo soccorso: «Nuotando, forse?»
Sembrava che lei stesse cercando in tutti i modi di scappare via e lui non voleva. «Sì, qualcosa del genere.» rispose. Stavolta il ragazzo non si lasciò incantare e continuò: «Non avete freddo, madamigella? Le acque devono essere gelate». Per non parlare delle correnti, a forza di giocare con le barchette assieme ad altri ragazzi del paese, ormai stava cominciando a conoscerle anche lui. Fortunatamente per lei, in quel punto non erano forti. La giovane scosse la testa: «No, in realtà le trovo piuttosto calde».
«Ah, dovete essere una di quelli che non soffrono il freddo neppure d’inverno!»
Per tutta risposta ricevette un sorriso imbarazzato. Agostino si disse di aver esagerato e, notandone l’espressione un po’titubante, corse ai ripari: «Vi sto importunando?»
L’altra si riscosse e scosse il capo: «No, no. È che non sono abituata a conversare molto». Farfugliò.
«Oh, non vi preoccupate, se lo desiderate potete conversare con me tutto il tempo che volete».
«Grazie ma non posso.» si scusò arretrando, sempre restando in posizione eretta.
Il giovane si domandò come facesse. Ma poté notare chiaramente che adesso i suoi occhi erano pieni di paura. Forse temeva che fosse una trappola. Provò la tentazione di fermarla, ma se l’avesse fatto sarebbe andato tutto a monte. Aggrottò le sopracciglia e domandò, cercando di restare il più immobile possibile per non spaventarla. Troppo memore delle volte scorse: «Non potete, cosa?»
Lei non lo guardò quando disse, mesta: «Avere amici.» Specificò in fretta, come se stesse sperando di non essere catturata. Però, da questo punto di vista, Agostino non aveva rassicurazione alcuna: «Avete un nome?» Chiese invece, battendo le palpebre.
«Sì».
«Come vi chiamate?»
«Arya».
Il giovane lo saggiò e decretò che gli piaceva, «molto bello. Molto poetico. Vi sta d’incanto. Io sono Agostino, lieto di fare la vostra conoscenza, madamigella». Lo disse con così tanto trasporto che le strappò una risatina. La vide portarsi una mano alla bocca e poté vederne il bel polso. Desiderò poterlo sfiorare mentre quel suono delicato gli allargava il cuore. Sorrise a sua volta, contento: «Visto? Non è così difficile, adesso avete un amico».
La ragazza lo guardò, gli occhi risplendenti di una domanda che evidentemente non voleva porgergli. Qualunque cosa fosse animò il suo sguardo, dapprima di speranza e poi di tristezza.
«Perché non salite quassù?» Domandò lui tendendogli gentilmente la mano, ma senza spostarsi di un millimetro nel timore che scappasse.
«Non credo che sia una buona idea». Rifiutò cortesemente.
Il ragazzo ritrasse le dita battendo le palpebre: «Oh, siete forse nuda?» Chiese provando un moto d’imbarazzo, anche se sapeva benissimo che non lo era. Lei arrossì e si coprì nuovamente il busto con le braccia. «Impudente! Non sono domande da porre!»
Agostino si pentì immediatamente di averlo chiesto. Divenne paonazzo per l’imbarazzo.
Chiuse definitivamente il libro che finora aveva tenuto nell’altra mano e se lo ficcò sottobraccio: «Avete ragione, scusatemi, vi sto spaventando, forse è meglio che me ne vada. Non sia mai che possa ledere al vostro onore dicendo a qualcheduno di avervi veduta, madamigella Arya».
Lei sussultò e lo guardò con due occhi grandi così.
Il giovane sorrise: aveva abboccato, ma cercò di continuare su quella scia «Lo vedo persino da qui che sono di troppo.» Cominciò ad alzarsi mentre lei prese a richiamarlo: «Aspettate, vi prego, fermatevi!»
Ma Agostino, facendosi luce con ciò che restava del suo lume, stava già saltellando sui sassi come aveva visto fare a Stella. O almeno stava provandoci. Non era così facile di notte.
La sirena lo seguì circumnavigando il masso: «Aspettate, fermatevi. Fermatevi o metterete un piede in fallo!»
Il quindicenne obbedì: «Dite sul serio?»
La ragazza sospirò, grata che si fosse fermato. Con la coda dell’occhio la vide portarsi una mano al cuore e chiudere gli occhi per un secondo: «Voi non vedete dove state andando, ma siete troppo vicino al bordo.» Lo avvisò.
Il giovane si bloccò istantaneamente. «Dite?» Chiese stavolta, un po’allarmato, ma cercò di non darlo a vedere. Non se ne era accorto.
«Da qui lo vedo benissimo. Ascoltate me, vi guiderò io».
«Sono nelle vostre mani». Concesse.
Lei lo aiutò a spostarsi leggermente verso destra, cioè il centro dello scoglio e poi gli disse quanti passi fare per raggiungere il prossimo e così via. Quando Agostino giunse sull’erba sano e salvo, si volse verso di lei e si profuse in un inchino: «Grazie, madamigella. Senza il vostro aiuto sarei già a mollo. E per quanto lo ami, non sono molto incline a volermi bagnare adesso».
La giovane per tutta risposta rise divertita e lo mandò via: «Adesso andatevene, su. Non avete più niente da fare qui». Mosse persino la mano fuori dell’acqua per scacciarlo. Esattamente come una nobildonna. Probabilmente doveva essere una principessa di chissà quale regno incantato, pensò Agostino mentre alzava le sopracciglia, meravigliato dal gesto.
«Voi non uscite?» Chiese poi.
«Non adesso, voglio godermi il lago in santa pace e poi come osate? Ci siamo appena conosciuti!» Rispose fingendo un’acidità decisamente stonata col tono sorridente con cui proferì quelle parole. Anche il giovane rise: «D’accordo, mia signora. Buonanotte e addio!» Si profuse in un inchino e se ne andò, seguito dalla voce di lei che ricambiava il saluto.
Un sorriso gli increspò le labbra e il suo cuore accelerò ancor di più. Quando fu sicuro che lei credesse che se ne fosse andato, spense la lucerna e si assicurò di essere invisibile nella notte, favorito dalle chiome dell’albero basso sotto al quale si era nascosto e, silenziosamente cercò di tornare indietro. Lei nel frattempo era scomparsa. Ma di lì a poco, lo sperò, si sarebbe messa a cantare. Le sue preghiere furono esaudite.
Agostino sorrise e volse il capo nella direzione della voce, mentre il suo cuore batteva ancora più forte.
Esattamente come era accaduto le altre volte, l’ambiente circostante si illuminò di quel chiarore fosforescente. Le piante cominciarono a crescere a vista d’occhio. Adesso vedeva persino il sentiero davanti a sé ma non lo percorse. Non adesso. Voleva restare ad ascoltare. Improvvisamente cominciò a soffiare il vento. Lo stesso che poche ore prima aveva animato le fronde degli alberi e dei cespugli ma che non aveva smosso quelle lucciole. Adesso era sicuro che quelle creature non fossero affatto lucciole. Poi il chiarore, il vento e le luci, come sempre, scomparvero. Agostino si guardò attorno con un sospiro. E si accorse del miracolo che era accaduto attorno a lui. Il volto gli si aprì in un sorriso e mormorò un «Uao» di meraviglia. Poi, con la gioia nel cuore, ritornò al castello.  

«Possibile che queste piante crescano così in fretta?» Si lamentò uno dei braccianti mentre lavoravano al giardino. Agostino che era lì vicino per poco non trasalì. Era strabiliante: sebbene dormisse assai meno di prima, riusciva a non provare la benché minima stanchezza.
«Io non capisco! È come se durante la bella stagione cercassero di recuperare il tempo sprecato a dormire d’inverno. Ma tutte! Proprio tutte, compresi gli abeti e i pini! Oh, ma io proprio non le capisco! Dove avranno da andare poi, lo sanno solo loro». Esclamò un altro.
Il ragazzo soffocò una risata e scosse il capo divertito mentre si chinava a togliere le erbacce dall’aiuola. In quel periodo doveva fare molta attenzione alle piante: rischiava di andare a dormire con un bel giardino e di svegliarsi per ritrovarselo invaso da una selva di erbacce. Il peccato era che la maggior parte delle piante che amava lui, in quel periodo seccavano o perdevano la loro bellezza. Per esempio il glicine originario della Cina - e si era fatto spiegare dal mercante stesso come coltivarla - che aveva fatto piantare sotto la facciata che dava sul giardino ma che era continuamente bersagliata dagli afidi e dagli acari. Ma la parte più bella, per lui, era quella che avevano adibito ai meli e ai ciliegi, di cui si occupava con Stella. Stranamente, da quando le aveva affidato la zona incolta che opponeva resistenza, lei era riuscita, con chissà quale tattica, a renderla coltivabile. E così avevano piantato quegli alberelli che curavano assiduamente e che adesso stavano crescendo  che era una meraviglia, il tutto circondati dagli arbusti di biancospino che lei aveva provveduto a recintare con dei bellissimi ciottoli bianchi di misteriosa provenienza: «Dove li hai trovati?» Gli aveva chiesto Agostino. Lei aveva sorriso e aveva detto, mentre lavorava, seduta sui talloni: «In riva al lago».
«Oh, ci passo molto tempo anch’io in riva al lago, perché non li ho visti?»
La bionda tacque a lungo prima di articolare una risposta: «Non lo so. Non so cosa guardi tu del lago».
Il giovane si morse la lingua per non rispondere, anche se era alquanto divertito dalla situazione. Ma forse era merito del giardino: era talmente bello da fargli dimenticare il tono scontroso della sua amica. Ed ebbe voglia di farle uno scherzo, così, si avvicinò in punta di piedi, stando attento a non fare rumore. Ma solo quando le fu molto vicino le parlò: «E tu?» Lei si girò verso di lui e si ritrovò a fissargli le ginocchia e sobbalzò. Il giovane rise. Lei arrossì e lo guardò di traverso. Poi Agostino sentì un colpo alla coscia che gli strappò un gemito di dolore e una risata. Solo allora lei rispose, pacata: «Io guardo tutto del lago».
Il giovane sorrise: «Allora hai una buona vista».
Lei finì di disporre gli ultimi ciottoli e si sfregò le mani sporche l’una con l’altra mentre si rialzava e gli domandava cosa ne pensasse. Il giovane l’osservò e constatò che quel piccolo angolo di paradiso sembrava uscito da un sogno: «È bellissimo.» si limitò però a dire coi sensi assuefatti, arrossendo e poi sentendosi un emerito imbecille per averlo detto: non era questo ciò che voleva dirle, anche se era la verità. Anche perché, più che riferito al giardino, sembrava un complimento indirizzato a lei. La quale si irrigidì e poi annuì anche se aggiunse, le guance colorate da una vampata di rossore: «Ora sarà meglio che mi allontani da qui, ci ho lavorato così a lungo che mi fanno male gli occhi».
«Come, i tuoi occhi non sono abituati a cotanta bellezza?» La provocò seguendola. Un sorriso da spaccone gli animava il volto, se ne rendeva conto lui stesso. Ma che poteva farci? L’incontro gli aveva lasciato una luce dentro.  
La giovane lo guardò inarcando un sopracciglio per lo stupore, ma balbettò: «Ti riferisci a te o al giardino?» Quella domanda lo spiazzò. In effetti, si accorse, era come se ci stesse provando con lei. A quel pensiero il viso della sirena inondò il suo campo visivo. Inorridito pensò che cosa stava facendo? Ammetteva a se stesso che era una bella ragazza, ma non era quella che desiderava: «Al giardino, che domande.» fece cambiando tono. Poi la sorpassò e lei restò un attimo impalata, gli gridò dietro di continuare il progetto. Ma il ragazzo non riuscì a spiccicare parola, ancora in imbarazzo. La giovane allora venne in suo aiuto, ma anche con tutta la buona volontà del mondo, non riuscì a formulare una frase di senso compiuto.
Quando arrivò mastro Lucenzio a riferire loro qualche miglioria che secondo lui si poteva apportare al giardino e anche oltre, fu come se avesse spezzato l’atmosfera. Fu come se la sua presenza avesse tagliato una specie di velo di seta che li avvolgeva entrambi nel suo abbraccio. Lasciando al suo posto il freddo. Agostino non si accorse neanche di star fulminandolo con gli occhi. Ma Stella sì e gli pestò un piede per farlo smettere. Il ragazzo gemette di dolore e Lucenzio sgranò gli occhi. «Che è successo?»
«Oh, Agostino aveva un calabrone sul piede e io ho cercato di scacciarlo.» s’inventò.
Il maestro guardò l’allievo allarmato e cominciò a tempestarlo di domande: «Un calabrone? Santo Cielo, Agostino, non ti ha punto, vero? Non sei mica allergico?»  
«No, tutto a posto, è volato via.» sibilò lui con un sorriso contrastante la smorfia di dolore: ci aveva messo troppa forza.  

   
 
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