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Autore: Freaky_Frix    10/03/2020    0 recensioni
Sto morendo. No, non sto facendo la vittima. No, non sto subendo nessun decadentismo emotivo. Sto morendo.
Riflessioni ante-mortem di una donna.
Genere: Dark, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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FEGATO
 

Sto morendo. No, non sto facendo la vittima. No, non sto subendo nessun decadentismo emotivo. Sto morendo. Sono qui, in questo scomodissimo letto (il materasso sembra la suola di una scarpa) con una flebo infilata nel braccio sinistro. Ho gli occhi chiusi, cerco di respirare profondamente, e di calmarmi; morire spaventa. Morire da soli, poi, è anche faticoso. Già, al mio capezzale non c’è nessuno. Circa dieci minuti fa è passata l’infermiera, a controllarmi, ma ora non c’è nessuno. La mia compagna di stanza, Laura, è stata dimessa stamattina. Mi ha salutato con un sorriso sollevato, e si è voltata. Non la biasimo: gli ospedali ti prosciugano. Altro che guarigione! Io, la mia vita, gliel’ho data tutta, a questa stanza bianco latte. E infatti il mio cuore si è svegliato pigro, stamattina. Non vuole più battere. Ed è faticoso, morire da soli, perché non c’è nessuno che ti incoraggi a farlo: devi fare tutto da sola, e sperare di riuscirci.
Non avrei mai pensato di finire qui. Pensavo che sarei morta nel mio letto, nel sonno, accanto a mio marito. E invece sono qui. Non ho raggiunto la mezza età, e non sono sposata. Non ho nessuno che mi aspetta, a casa. I miei genitori vivono all’altro capo dello Stato. Chissà chi li informerà, che non ci sarò più. Chissà se a loro importerà qualcosa. 

Forse è meglio così. D’altronde, non li ho informati della mia malattia.
Tumore al fegato, terminale. Quando il dottore me l’ha comunicato non me n’è fregato nulla: sono uscita dal suo studio e sono andata al bar. Ne sono uscita due ore e mezzo dopo, con il mondo che mi girava intorno e un sorriso sguaiato dipinto sul volto. Un tumore al fegato. Non era una notizia sorprendente. Seguendo la logica, era normale che fosse proprio quello, a divorarmi. Bevevo dall’età di diciotto anni, ma la dipendenza era diventata ineliminabile nell’ultimo periodo. Ed era sfociata nel cancro. 
Non smisi di bere finché non collassai. Un giorno entrai in un bar e mi ritrovai, senza sapere come, al pronto soccorso. Una dottoressa bionda si avvicinò a me con il classico sguardo dei medici (distaccato, un po’ scocciato, e molto stanco) e mi disse che ero un’irresponsabile, che alla mia età non era concepibile ubriacarsi fino a svenire, che erano cretinate che facevano solo i ragazzini. Aveva ragione, ma a me non importava. Mi sentivo invincibile. Io non potevo morire. Io non ero malata. Io ero io, e sarei campata fino ai novanta. Ma ben presto iniziai a notare la sfumatura che avevano preso i miei occhi, e poi la mia pelle. Iniziai ad incartapecorirmi. Ed arrivò la paura, investendomi come può investire un treno in corsa: lo vedi arrivare, da lontano, ma sai che è troppo tardi per spostarti. E ti senti stupido per esserti messo in mezzo ai binari. 
Ritornai dal mio medico, che mi indirizzò verso un ospedale. Mi dissero che era troppo tardi. La chemio non mi avrebbe fatto praticamente nulla. Mi somministrarono delle medicine, dei placebo, e mi mandarono a casa. Non le ho mai prese.

Continuavo a bere, volevo morire senza rendermene conto, usando la stessa arma che avevo usato per anni come palliativo per una vita che non avevo mai sentito per davvero. E ora sono qui. E non riesco a sentirla mia neanche in questo momento. È tutto al di fuori di me, lontano, come in un sogno sbiadito. 

Ho pensato, in questi ultimi mesi, alla mia infanzia. A come, da piccola, il fegato del maiale mi disgustasse. L’odore, il sapore. Mia madre mi costringeva a mangiarlo, diceva che faceva diventare forti. Ma io lo vomitavo puntualmente. È ironico: imbottivo di alcol una cosa che, inconsciamente, detestavo. 

Un ghigno mi si è formato sul volto, a ripensarci. Forse potrei morire così, con una smorfia sulla faccia. Ma l’infermiera poi si divertirebbe a fare congetture. “Oh, è morta sorridendo. Chissà cosa avrà visto” o “È in pace, il Signore l’ha accolta tra le sue braccia”. Allora è meglio che mi ricompongo, che non faccio trapelare nulla. 

Quanto vorrei un drink, in questo momento! Ho la bocca asciutta, sento il sapore della morte sulla lingua; l’alcol lo addolcirebbe. Forse dovrei smettere di pensare; forse morirei più in fretta. Ma come si fa? Non l’ho mai capito: “sgombra la mente”, dicevano nei film. Ma io non ci sono mai riuscita. Forse perché la mia mente era già vuota dall’inizio. 
Già, vuota: come la mia esistenza. Standardizzata, senza entusiasmo. 

È così che muoio: senza entusiasmo. Con un considerevole sforzo. Sono una donna che sta partorendo la propria morte, un bambino per cui non prova assolutamente nulla. Mente vuota, vita vuota, grembo vuoto: era destino. Anche il mio cuore è vuoto. E infatti sento che si sta per fermare.

Finalmente.

Quando il mio corpo si rilasserà tirerò un ultimo sospiro di sollievo, e sarà tutto finito. 

Addio.
 
   
 
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