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Autore: Sabriel Schermann    13/03/2020    6 recensioni
[Storia scritta a quattro mani con Carmaux_95]
Il pattinaggio è volare e atterrare. Salire e scendere. La vita è sempre così. Ogni giorno che passa devi fare i conti con qualcosa che ti va o non ti va: e devi affrontare tutto, con le lame tra i denti, o sotto i piedi, non importa dove, ma devi essere forte e andare avanti.
Il mio pattinare rappresenta la mia vita.
[Storia classificata al terzo posto parimerito al contest "Feat. Masters" indetto da Soul_Shine sul forum di EFP]
Genere: Drammatico, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'La Casa di Cristallo'
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Fantasy on Ice
 
 
 
 
 
 
 
 



Gennaio era giunto portando con sé la neve, che aveva imbiancato i canali di Venezia e il cuore di Sindy, e il profumo di opportunità: l’inizio dell’inverno era passato in fretta, con allenamenti serrati per partecipare al Fantasy on Ice, il galà a cui la giovane era stata invitata, con sua immensa sorpresa.
La prima volta che aveva adocchiato la pubblicità che promuoveva l'evento, la aveva osservata solo di sfuggita, attratta più dalle stupende riprese di quei canali che tanto la affascinavano, ricordandole la città in cui era cresciuta. Era stato proprio il suo allenatore, Jan, a convincerla ad inviare la propria candidatura per partecipare. Non era stato difficile: era bastato spedire a chi di dovere il video di una sua performance e aspettare che dei giudici valutassero la sua idoneità.
Se, fisicamente, Sindy si sentiva pronta per scivolare su quel ghiaccio straniero, esibendo con orgoglio il proprio talento, lo stesso non si poteva dire a livello psicologico; i pensieri volavano ancora a quei giorni di fine novembre, all’incidente, all’uomo che, per mesi, l’aveva pedinata e resa oggetto delle proprie fantasie perverse.
Per quanto amasse il proprio sport, Sindy si era quasi vista costretta a rifiutare l’invito, se la fermezza di Jan e quel suo incredibile talento di vedere oltre il presente non l’avessero convinta a resistere: «Potrebbe essere un buon modo per farti conoscere a livello internazionale» le aveva detto, e Sindy sapeva bene quanto l’uomo avesse ragione.
E ora si trovava lì, sul bordo di quella pista a lei estranea, in attesa di volteggiare sulle note dell’Ave Maria che le era risuonata nei timpani così a lungo.
Il pubblico era entusiasta: pareva acclamare proprio lei, quella ragazza cresciuta in un’anonima provincia olandese, la bambina segnata nel profondo dalle esperienze che la vita le aveva regalato.
Sentì le lacrime salirle agli occhi, premendo per fuoriuscire, ma le ricacciò subito indietro con un sospiro; un’ultima stretta di mano di Jan le diede il coraggio necessario per gettarsi al centro della pista ghiacciata, premendosi le cosce con forza prima di cominciare ad esibirsi.
Sapeva che, tra quegli occhi stranieri puntati su di lei, c’erano anche quelli dell’ultimo campione olimpico, ormai divenuto quasi una leggenda nel pattinaggio singolo maschile.
Sindy non amava avere gli sguardi puntati su di sé al contrario, lo detestava con tutta la propria essenzatuttavia, era consapevole di possedere la capacità esemplare di coinvolgere nelle proprie mosse chiunque la osservasse, offrendo un’interpretazione unica quanto rara del pattinaggio di figura.
Non temeva le sentenze dei giudici o degli avversari: se fosse caduta, si sarebbe tirata in piedi come aveva sempre fatto quando le ginocchia l’avevano costretta a prostrarsi dinanzi la crudezza della vita.
Qualcosa, però, andò storto: i muscoli cedettero, le gambe non ressero il suo peso, facendola precipitare contro la superficie gelata con la stessa veemenza con cui aveva eseguito il salchow1 iniziale.
Tirati su, maledizione!, imprecò la sua coscienza, con l’adrenalina di un criminale sul punto di commettere un'effrazione.
La voce di Maria Callas inebriava l’aria, eppure, le lame sotto ai suoi piedi non erano riuscite a tenere il ritmo.
Sindy si rialzò a fatica, la melodia venne interrotta e alcune grida di stupore si sollevarono dalla platea.
Non ti sei mai rotta nulla, ma c’è sempre una prima volta, no?, sussurrò feroce a se stessa.
Non voleva che il proprio declino avvenisse proprio in quel luogo, dinanzi ai professionisti che tanto aveva sentito nominare, sotto lo sguardo vigile del campione.
Di nuovo, le lacrime le punsero gli occhi, supplicandola per liberare la malinconia che l’attanagliava da quella maledetta notte di fine novembre.
Nell’impatto contro il ghiaccio, l’interno coscia doveva aver sfregato contro la superficie solida, causandole un intenso bruciore che non accennava a diminuire.
Jan le porse la borraccia d'acqua rossa che solitamente utilizzava, ma Sindy sapeva che, se avesse ingurgitato dei liquidi appena prima di ricominciare a danzare, lo stomaco l'avrebbe immediatamente obbligata a espellerli.
Ogni cellula del proprio corpo le intimava di abbandonare la pista e crollare lì, di fronte al pubblico, e di gridare il proprio dolore per la sconfitta appena subita, per un successo che stentava ad arrivare; per un lavoro che le distruggeva le ossa, ma che pareva non dare mai i propri frutti.
Avrebbe voluto inveire contro gli stessi atleti che ora la osservavano attoniti; contro quel ragazzo dai capelli chiari che se ne stava seduto con la sua aria da uomo soddisfatto dei propri successi e della propria vita.
Sindy lo sentiva: lui non aveva conosciuto il fallimento; lui era stato più fortunato.
Perché alla fine è così, pensò: le anime povere spirano mendicando e i ricchi continueranno ad arricchirsi...
Poggiò per un attimo la fronte contro quella del suo fidato allenatore, per poi optare per la generosa possibilità che la propria forza interiore le donava, quella che aveva sempre scelto e la stessa per cui si trovava ancora al mondo.
Rischiare.
In fondo, era ciò che faceva da sempre: la capitolazione non era tra le opzioni.
Il pubblico le parve accoglierla più calorosamente di prima e, per un istante, si lasciò influenzare con piacere da quel pensiero persistente, da quel sogno in cui qualcuno potesse riconoscerla, complici anche le sue tre vittorie consecutive ai campionati nazionali.
La voce del soprano cominciò nuovamente a risuonare nell'aria, ipnotizzando i presenti e impedendo loro di distogliere gli occhi dal corpo allenato della pattinatrice olandese.
Le sue mosse delicate e veloci, le figure precise e ben eseguite e, infine, quell'inaspettato e incredibile salto mortale all’indietro suscitarono tanto stupore in molti degli ospiti da portarli ad interrogarsi riguardo al motivo per cui il nome di una simile atleta non fosse ancora conosciuto a livello internazionale.
Pochi, tuttavia, potevano immaginare la sofferenza della ragazza ad ogni mossa o il dolore dovuto alla caduta e alle cicatrici che avevano sfregiato il suo cuore.
Sindy aveva insistito per pattinare su quella musica perché ne aveva disperatamente bisogno: necessitava di comprenderne il significato, di dare un senso a quella voce suadente che, da sempre, le ricordava lo stato effimero dell’universo.
L'Ave Maria di Schubert era la musica perfetta per ritrarre uno scenario apocalittico, un disastro innaturale, un processo irreversibile... come un pugno di sabbia che scivola tra le dita in un batter d'ali.
O forse, l'aveva scelta solo perché rappresentava la tempesta emotiva che aveva dentro: mentre Sindy danzava con coraggio, infatti, qualcuno, molto lontano da Venezia e dalla sua magia, lottava tra la vita e il suo contrario.
Più ci pensava e più la giovane si convinceva di trovarsi nel luogo sbagliato nel momento più inopportuno: avrebbe dovuto stargli accanto, prendersi cura di lui; invece era addirittura volata in un altro Paese, per nutrire la bestia avida di successo che si portava dentro e che, dopo una vita di desideri e sogni infranti, agognava le luci della ribalta.
Dopo sei minuti e mezzo dall'inizio dell'esecuzione, la voce di Maria Callas si spense e la melodia terminò.
Il pubblico la strinse nel calore dei suoi applausi e nella gentilezza dei suoi regali, gettati dalla platea in gesti fulminei.
Sindy afferrò un pupazzo a forma di orso bianco e lo strinse fra le braccia con tutta l'energia rimastale.
«Rickard, fratello mio...» sussurrò tra le lacrime e i sospiri, avviandosi verso l'uscita della pista e prendendo posto sugli ampi divanetti situati poco lontano.
Avrebbe tanto desiderato essere più felice, gioire della propria celebrazione: il mondo la stava osservando attraverso le sue grandi lenti, e lei pareva far tutto il possibile per nascondersi.
La sera successiva l'attendeva l'ultima performance.
Avrebbe dovuto riposarsi ed entrare nell'ottica di idee che il giorno dopo avrebbe dovuto riprendere ad allenarsi; invece trovò soltanto la forza di impedire alle lacrime di rigarle le guance e di stringere a sé quel freddo orsacchiotto.
 

 
**
 
 

Avrebbe dovuto allenarsi, provare ancora una volta il programma che, quella sera, avrebbe eseguito per la seconda e ultima volta davanti ad un nuovo pubblico; controllato l'orologio, però, si rese conto che era ancora troppo presto e che Filip non lo avrebbe raggiunto in pista per almeno un'altra mezz'ora. Recuperò dal proprio borsone un libro e decise di sedersi sugli spalti a leggere.
Non esiste niente di più scomodo dei seggiolini di un palaghiaccio, pensò: si era seduto composto, a gambe accavallate e poi incrociate; si era persino accomodato per terra, ma, anche in quella posizione, il seggiolino sbatteva fastidiosamente contro la sua nuca. Alla fine, esasperato, aveva trovato la posizione perfetta... anche dal punto di vista medico: stare sdraiati con le gambe sollevate, infatti – nonostante il peso dei pattini già allacciati –, favoriva la decongestione dei fluidi e un corretto ritorno venoso. La sua schiena non trovava davvero confortevole quel ripiano di plastica, ma, in fin dei conti, Emilio non poteva nemmeno dichiarare di essere scomodo, neanche tenendo il libro sollevato e aperto sopra il proprio viso.
Nonostante l’intenzione, però, non riuscì a concentrarsi sulla lettura: si infilò i nuovi auricolari wireless che, allo scoccare della mezzanotte, Filip gli aveva regalato in occasione del suo compleanno; tuttavia, ritraendo le mani, si sfiorò inavvertitamente la pelle ai lati degli occhi, senza riuscire a trattenere una smorfia. Il lungo livido che arrivava fino al sopracciglio aveva ormai assunto un colore verdastro, tendente al giallognolo, ma ancora doleva al tatto, portandolo a strizzare l'occhio. Si era fatto male un paio di giorni prima, mentre controllava l'integrità del proprio costume. Lo aveva fatto realizzare appositamente per quell'evento, di modo che si adattasse alla musica che aveva scelto per il proprio programma: ai bambini sarebbe piaciuto e, probabilmente, avrebbe fatto breccia anche nel cuore di qualche adulto.
Si chiamava “Fantasy on Ice”, giusto? E che cosa c'era di più fantasioso di un drago? Aveva scelto la colonna sonora di un film d'animazione e, preso dall'entusiasmo, aveva fatto in modo che, tramite due elastici da tirare al momento giusto, un paio di piccole ali – non molto voluminose: la performance non doveva risentirne – si aprissero sulla sua schiena. Era stato proprio controllando che l'elastico fosse ben fissato che una di queste si era aperta di scatto, colpendolo in piena faccia e provocandogli un ematoma che solo i truccatori erano riusciti a nascondere.
Automaticamente, i suoi pensieri volarono all'aperitivo post evento della sera prima.
Era stato l'ultimo ad esibirsi e, di conseguenza, aveva avuto poco tempo per farsi una doccia e darsi una rassettata. Fortunatamente, si era ritrovato a riflettere, il costume – che, dopo il più breve ciclo di lavaggio in lavatrice che Emilio avesse mai sperimentato, aveva abbandonato quel terribile odore di sudore in favore di un delicato profumo di mandorle – aveva anche un cappuccio, sotto il quale era riuscito a nascondere la chioma un po' arruffata almeno in occasione delle foto con chi, del pubblico, si era concesso lo sfizio di partecipare anche all'aperitivo con gli atleti.
Era stato proprio scostandosi i capelli dal viso – sua madre avrebbe detto che era ora di andare dal barbiere a tagliarli – che si era nuovamente sfregato la pelle livida.
Aveva distolto lo sguardo dai due bambini che volevano scattare una foto insieme a lui e aveva strizzato l'occhio un paio di volte per scacciare il dolore prima di sfoderare un sorriso nell'obiettivo.
Filip gli si era avvicinato subito dopo e gli aveva stretto una spalla in un gesto affettuoso: «L'olandesina ti guarda male» gli aveva sussurrato, indicandogli con un cenno del capo una pattinatrice ad un paio di metri da lui nella stessa direzione in cui si era voltato per nascondere il fastidio all’occhio.
Emilio l’aveva riconosciuta come quella che si era esibita sulle note dell'Ave Maria e aveva corrugato la fronte: «Perché?»
«Lo chiedi a me? Vai a chiederlo a lei!» e, senza aspettare una risposta, lo aveva spinto verso la ragazza.
Odiava quando Filip si comportava così: detestava che lo gettasse, letteralmente, in situazioni che non sapeva gestire per poi rimanere in disparte ad osservarlo, anche se, forse, era solo il suo modo di esortarlo ad uscire dalla sua comfort-zone.
Aveva pensato di far finta di niente, voltarsi e allontanarsi così come si era avvicinato, ma non aveva fatto in tempo: «Non ci provare nemmeno!» gli aveva sibilato la ragazza, incrociando le braccia.
«A fare cosa?» ma subito un'altra domanda gli era sorta spontanea, facendogli nascere un sorriso sorpreso sulle labbra: «Parli italiano!»
«Quindi dovresti capire bene il messaggio».
Emilio si era portato una mano fra i capelli, come se quel gesto lo potesse aiutare a ragionare, e per l'ennesima volta si era toccato il livido senza delicatezza, per poi strizzare le palpebre, massaggiandosele. Possibile che sapesse essere aggraziato solo su una lastra di ghiaccio mentre appena metteva un piede fuori dalla pista diventava delicato quanto un elefante in una cristalleria?
Ripensandoci abbassò il libro, appoggiandolo aperto sul petto: che fosse maldestro, tanto a gesti quanto a parole, non era certo una novità, ma rimaneva dell'opinione che, la sera prima, non avesse detto nulla di così devastante da suscitare l’ira della pattinatrice olandese.
Dopo che Sylvie, o forse era Sindy?, lo aveva accusato di provarci con lei – incriminazione che, per altro, lo aveva lasciato basito – la conversazione si era spostata sulle relative esibizioni. Sul momento, Emilio aveva tirato un sospiro di sollievo, ma gli era bastato esprimere un parere sulla performance della ragazza per scatenare l'inferno.
Eppure non aveva detto niente di che: aveva solo fatto notare che, forse, per la musica che aveva scelto, un salto mortale all'indietro era... beh, troppo. Non aveva criticato la sua tecnica – non avrebbe avuto motivo né ragione per farlo – ma solo una scelta stilistica; eppure era stato sufficiente.
«Non intendo accettare critiche da uno vestito da lucertola!» aveva sentenziato Sindy, ed Emilio, con l'immaturità di un bambino, si era sentito in dovere di rettificare: «Ehi! Drago! Dra-go! Non lucertola! Non faccio quella cosa con la lingua!2»
Anche Filip non aveva mancato di fargli notare la puerilità di quella risposta. O meglio: quando aveva visto che la situazione aveva cominciato a scaldarsi aveva tentato di intervenire, ma si era imbattuto in un muro di indisposizione tale da esasperarlo: «Sapete cosa? Fate voi: io me ne lavo le braccia
I due giovani aveva risposto in coro, suscitando in Emilio un forte risentimento: «Mani!»
Era stato solo una volta in albergo, più tardi quella sera, che Filip gli aveva rinfacciato il proprio infantilismo: «Le hai pure fatto la linguaccia!»
«Non le ho fatto la linguaccia! Stavo imitando una lucertola e mi è venuto male!» aveva risposto, abbassando lo sguardo, imbarazzato.
«Francamente, non so quale delle due opzioni ti faccia meno onore».
«Neanche le avessi detto di darsi al pattinaggio di velocità! Un salto di quel genere su una musica di quel genere stonava! Studiare nei minimi dettagli un programma è il mio lavoro: era un commento costruttivo. Niente più... non l'ho mica insultata! Perché si è arrabbiata così?»
«Forse non è per quello che hai detto, ma per il modo in cui l'hai detto».
Eppure non gli era sembrato di essere arrogante. Ci aveva pensato tutta la notte fino a quando non si era addormentato e anche adesso, quando avrebbe voluto solo leggere qualche riga, si era ritrovato a rimuginare su che cosa potesse aver detto di male.
Non sapeva se sentirsi in colpa o meno.
Sospirò e recuperò il proprio libro.
Lo conosceva a memoria, ormai: la mamma glielo leggeva sempre quando era piccolo; era uno dei suoi libri preferiti e, sebbene non glielo avesse mai chiesto, Emilio era quasi convinto di dovere il suo nome all'autore di quei romanzi d'avventura popolati da corsari gentiluomini e giungle bengalesi.
Sorrise mestamente: non era ancora abituato alla vita senza di lei.
Era stata proprio la nostalgia a fargli scegliere quello, tra i tanti romanzi che avrebbe potuto leggere.
Chiuse gli occhi, abbassò il libro aperto sul proprio viso, fino ad immergere il naso fra le pagine, e inspirò profondamente quel profumo di tante sere passate avvolto nelle coperte con la testa sul grembo della madre, cullato dalla sua voce.
Quando tornò a guardare di fronte a sé, riconobbe il bel viso della pattinatrice alla quale non aveva quasi smesso di pensare dalla sera prima.
 

 
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Nonostante si recassero spesso insieme al palaghiaccio, per ragioni di comodità, quella mattina Jan si era trattenuto in albergo un po' di più.
Sindy obliterò il tesserino per accedere alla pista, osservando attentamente la lastra bianca e immensa dinanzi a sé: al centro, uno Zamboni3 si muoveva lento, nel tentativo di limarne la superficie.
Scese un paio di gradini, ammirando quel buffo macchinario che tanto la divertiva da bambina: se il gatto delle nevi era un veicolo e non un felino polare, come inizialmente aveva creduto, allora quello doveva essere un gatto dei ghiacci, come le piaceva pensare.
Un sorriso ingenuo le si stampò sul volto.
Mostro dei ghiacci” sarebbe il termine adatto, pensò, ricordando le risate che, le prime volte che mise piede in pista, condivideva con Jan alla visione della vettura.
Non appena la vettura abbandonò la scena, Sindy procedette a scendere la scalinata, con tutta l'intenzione di approfittare di quel momento di solitudine per esercitarsi con tranquillità.
Quella stessa sera, le note dell'Ave Maria le avrebbero risuonato nei timpani, accompagnandola nella sua gelida danza.
Per la prima volta da quando era approdata in quella città straniera, Sindy aprì le labbra in un ampio sorriso. Aveva abbandonato un amico in fin di vita, aveva lasciato indietro i colleghi e gli amici che l'avevano sostenuta nell'arduo percorso fino ad allora, per intraprenderne un altro, meno competitivo di quelli a cui era abituata.
Raramente le era capitato, nella sua carriera povera di risultati rilevanti, di essere pienamente soddisfatta delle proprie esibizioni dinanzi ai giudici.
Eppure, forse proprio per la natura d’intrattenimento dell'evento, quella mattina si era risvegliata soddisfatta, gioiosa, in qualche modo, di ciò che aveva raggiunto: gli anni che aveva impiegato ad imparare le figure, le brutte cadute che aveva subito per esibire il salto mortale all'indietro, avevano dato i loro frutti, dopo tanti sforzi.
Eppure, non poteva essere tutto perfetto: il campione olimpico, colui che Sindy aveva tentato di stupire, nonostante non ne avrebbe mai ammesso le intenzioni, aveva notato un difetto.
Vi sono delle macchie sulla faccia dei pianeti più luminosi; e degli occhi come i suoi riescono a vedere soltanto questi difetti, ciechi come sono a tutto lo splendore dell'astro!4
Forse, in parte, poteva comprendere tale comportamento: se era giunto così in alto, in fondo, era solamente perché aveva una tecnica impeccabile e la grazia di un re.
Intenzionata ad esercitarsi duramente di buon mattino, Sindy continuò a scendere gli ampi scalini, fino a quando non notò qualcosa di scuro spuntare dalla platea.
Si strofinò gli occhi con veemenza, consapevole di avere fatto le ore piccole la sera precedente: Venezia era così bella, così maestosa. Così nordica.
Vagando da sola per le strade buie, si sentiva quasi a casa, fra i canali brillanti e pieni, e le strette calle.
Tuttavia, non poteva essersi sbagliata. C’era qualcosa tra gli spalti: la schiena appoggiata su un sedile e le gambe all’aria, qualcuno pareva avere un libro poggiato sul viso.
Non poteva vedere di chi si trattasse, ma doveva essere certamente un pattinatore del galà, a giudicare dal colore dei pattini che indossava5.
«Davvero uno strano modo di leggere» commentò avvicinandosi, tentando di farsi udire dalla figura misteriosa, nonostante, per natura, fosse dotata di un tono di voce alquanto inferiore alla norma.
Si accomodò sul sedile superiore, notando ai suoi piedi i pattini scuri di cui l'atleta si era già munito, andando a confermare la propria ipotesi.
Perché mai qualcuno avrebbe dovuto leggere quando aveva un'intera pista a disposizione, per di più senz'anima viva?
Starà aspettando la sua partner, pensò. Poi si guardò intorno.
Dovevano essere passati almeno dieci minuti da quando quel veicolo mostruoso aveva lasciato il ghiaccio e di Jan non si vedeva nemmeno l'ombra.
«Mi faccio una doccia veloce e arrivo» l'aveva rassicurata quella mattina, con la voce ancora impastata dal sonno.
Possibile che si fosse perso per le calle di Venezia?
Il suo silenzioso interlocutore pareva non averla udita avvicinarsi: doveva aver approfittato dell’attesa per schiacciare un pisolino.
«Ti sei addormentato?» continuò Sindy per poi sorridere, scuotendo la testa: doveva essere decisamente esausta per chiedere ad un dormiente se stesse riposando, aspettandosi, per altro, di ricevere una risposta.
Pensò che forse il bell’addormentato semplicemente non conoscesse la lingua in cui parlava, ma subito si ricredette, abbandonandosi contro lo schienale.
Non avrebbe dovuto essere così curiosa, non avrebbe dovuto avvicinarsi al pattinatore misterioso.
La lingua che stava parlando, lui, la conosceva benissimo.
Le bastò notare un ciuffo di quei capelli chiari e arruffati che tanto avrebbe voluto scompigliare per comprendere di chi si trattasse.
Senza sapersene spiegare il motivo, il cuore aumentò d'improvviso i battiti.
L'ultimo campione olimpico, colui che la sera precedente le aveva rivolto parole impregnate di asprezza, se ne stava sdraiato su una seggiola a trastullarsi con le avventure di Sandokan con i pattini per aria, senza curarsi di ciò che gli era stato domandato.
Devo stargli davvero antipatica, pensò Sindy, portandosi una mano alla bocca.
Il fuoco pareva averle invaso lo stomaco, diramandosi poi nel resto del corpo, fino al viso, che sentiva ardere sotto i palmi.
Perché aveva quelle reazioni? In fondo si trattava solo di un uomo, non molto diverso da molti altri che aveva avuto occasione di incontrare.
Ma è il campione olimpico!, gridò mentalmente, ed è anche molto attraente...
Tentò di scacciare via quest'ultimo pensiero con tutta la volontà possibile, ma, complice la strana posizione in cui il ragazzo si trovava, il suo sguardo ricadde altrove.
Sindy fece un respiro profondo, tirandosi in piedi, intenzionata a lasciar perdere quell'Emilio e tutti i pensieri che le procurava.
Jan tardava ad arrivare, ma lei era lì per pattinare e niente di più. In fondo, non aveva certo bisogno di un uomo al suo fianco: uno le era bastato, tanto tempo prima.
Non avrebbe mai permesso a nessuno di distrarla dal raggiungere i propri obiettivi, tanto meno a colui che, la sera precedente, si era permesso di commentare la coreografia in cui aveva riposto tanto impegno.
Non appena la giovane si alzò dalla seggiola, il ragazzo fece scivolare il libro sulla pancia, puntando quegli occhi smeraldo dritti nei suoi, simili ma più torbidi.
Finalmente accortosi della sua presenza, lo vide levarsi qualcosa dalle orecchie e raddrizzarsi per accomodarsi sul seggiolino dove, fino a poco prima, aveva appoggiato la schiena.
«Allora non hai problemi d'udito!» borbottò Sindy, consapevole di stare esagerando: aveva capito che qualche brano musicale doveva avere temporaneamente impedito al campione di udire le proprie domande, tuttavia, pur non avendo mormorato una sola parola di scuse, perlomeno sembrava intenzionato a degnarla della sua compagnia.
Così, la ragazza si lasciò ricadere sullo scomodo sedile. Rimasero in silenzio per un po', fino a quando Sindy, consapevole di essere particolarmente suscettibile in quel periodo della propria vita, non prese l'iniziativa e cominciò a parlare: «Mi dispiace per ieri» asserì, per testare il terreno. Raccolse a sé tutta la propria pazienza, nel tentativo di trattenersi dal domandargli il motivo di quelle parole che alle sue orecchie erano risuonate tanto crudeli.
Avrei potuto fare anch'io migliaia di commenti sulla tua esibizione, pensò mordendosi la lingua tra i denti, fissando il vuoto dinanzi a sé.
Avrei potuto commentare quel lutz6 mal riuscito, proprio a te che sei il campione, avrebbe voluto sbraitargli in faccia, ma non ti ho detto nulla, mi sono fatta gli affari miei.
Che diritto aveva lui di farlo, invece?
Si osservarono negli occhi per qualche istante, e a Sindy parve quasi di perdersi in quella prateria verde, così luminosa da sembrare finta.
«Ti chiedo scusa anch'io» lo sentì mormorare, in un sussurro simile al pigolio di un passero.
Le aveva davvero appena chiesto scusa?
Ci voleva tanto?, pensò irrimediabilmente.
Non avrebbe voluto essere così sensibile, ma il suo orgoglio ferito, tra una bevanda alcolica e qualche ricordo, aveva bramato delle scuse per tutta la notte.
Gli rivolse un timido sorriso, sentendo subito le guance imporporarsi. «Bene» sospirò, alzandosi in piedi e voltandosi verso la pista per nascondere l’imbarazzo. «Farai qualche altro commento astioso nei miei confronti questa sera?» non poté impedirsi di domandargli.
«Stasera credo solo che crollerò» le rispose, soffocando uno sbadiglio, mancando di cogliere, forse, la lieve provocazione.
O forse l'ha colta eccome, e ha fatto finta di niente perché non gli interessa, pensò Sindy, osservandolo sgranchirsi le gambe, raccogliere il libro e muovere qualche passo in direzione della pista per infilarlo nel borsone.
«Tregua?» le domandò inaspettatamente, allungando una mano verso di lei.
Sospettosa, Sindy aspettò a stringerla: «Pace
Un angolo della bocca di Emilio si sollevò in un sogghigno: «Si vedrà».
La pattinatrice incrociò le braccia al petto: voleva davvero continuare a litigare?
Quasi leggendole nel pensiero, Emilio scrollò le spalle in una risposta facilmente fraintendibile.
Sindy non riusciva a capirlo: quel sorrisetto gli illuminava gli occhi, ma, al contempo, era indecifrabile.
Se voleva giocare, aveva di fronte un’avversaria pronta: «Che cosa ti sei fatto?» nonostante il livido che aveva causato quello che Sindy, la sera prima, aveva erroneamente interpretato come un occhiolino fosse evidente, la ragazza decise di allungare una mano per scostargli una ciocca di capelli dal viso, approfittandone per farli scivolare fra le dita. Non le sfuggì l’arrossarsi delle sue guance, ma sorrise solo dentro di sé: non aveva ancora finito la sua mossa.
«Incidente con il costume» rispose il ragazzo, puntando gli occhi in terra.
«Ah, quello da lucertola?» lo sguardo omicida di cui fu destinataria la fece quasi scoppiare a ridere.
Lo osservò Emilio entrare in pista e, chinandosi per stringere i lacci dei pattini, non riuscì a trattenersi: «Più che una lucertola, sembravi un tirannosauro» bisbigliò in olandese, convinta che il ragazzo non potesse comprenderla. Un cenno confuso del capo di Emilio confermò le proprie supposizioni. Quest’ultimo non fece in tempo a ribattere, se anche ne avesse avuto l'intenzione, che due figure trafelate comparvero sulla soglia del palaghiaccio.
Entrambi con la bocca piena, tenevano in mano ciò che sembrava i resti di un cornetto.
«Eccomi! Mi sono fermato a mangiare qualcosa con Filip e-» borbottò Jan, scendendo gli scalini con fare impacciato, seguito dall'uomo dall'aria piuttosto giovanile che Sindy aveva notato spingere Emilio verso di sé la sera precedente.
«Sai, una chiacchiera tira l'altra...» aveva aggiunto, masticando rumorosamente la sua brioche.
Non appena le fu abbastanza vicino, Sindy non poté fare a meno di notare qualche macchia di cioccolato campeggiare sulle sue labbra, provocandole, per la seconda volta quella mattina, un ampio sorriso.
 

 
**
 

 
Per quanto fosse fiero della propria carriera di atleta, Filip non si pentiva della scelta di abbandonare il mondo delle competizioni per dedicarsi a quello dell'allenamento: gli bastava osservare Emilio seguire le sue direttive per migliorarsi per convincersi di aver fatto la scelta giusta.
Quando, svegliatosi, aveva trovato il suo letto vuoto, sapeva che lo avrebbe trovato già in pista con i pattini ai piedi: Emilio non era mai stato particolarmente estroverso e, da quando era morta la madre, non esisteva altro che non fossero i suoi allenamenti e i ruoli che interpretava a ritmo di musica. Filip sapeva riconoscere quando i personaggi a cui dava vita si dissolvevano lasciando intravedere le emozioni che davvero lo muovevano, ma avrebbe voluto non esserne l'unico spettatore.
Non sapeva come comportarsi: non voleva sostituirsi a sua madre, ma, allo stesso tempo, avrebbe voluto occuparsi di lui per farlo sentire ancora parte di una famiglia.
In fin dei conti questo erano... giusto?
Controllò che Emilio eseguisse l'esercizio come gli era stato suggerito e bevve un sorso di caffè.
«Grazie per la colazione» disse Jan, riscuotendolo dai suoi pensieri.
«Figurati: questo e altro per una celebrità!»
«Non sono più una celebrità da anni».
«Vi seguivo tantissimo quando ero ragazzino» proseguì lo svedese come se non lo avesse nemmeno udito. «Eravate bellissimi...» aggiunse, sovrappensiero. Moriva dalla voglia di chiedere che cosa fosse successo tra lui e la compagna – moglie? – e come mai avessero smesso di danzare in coppia, ma sapeva che poteva trattarsi di un argomento delicato. Si morse la lingua e si concentrò di nuovo su Emilio: aveva sollevato una gamba per togliere il ghiaccio in eccesso dalla lama del pattino e, un attimo dopo, aveva alzato la testa per ascoltare Sindy, che gli si era avvicinata sorridente.
Jan si concesse solo un piccolo e mesto sorriso, poi, con un cenno del capo, indicò il ragazzo italiano: «Lui è bellissimo: è elegante, aggraziato e sembra che ogni salto non gli costi la minima fatica».
Filip scosse la testa, sospirando: «Esercizio, esercizio, notti insonni e ancora esercizio... da un po’ di tempo a questa parte, se le cose non sono come vuole lui non si dà pace».
«Il lutto a volte è così».
Il giovane allenatore gli lanciò un'occhiata sorpresa, alla quale Jan rispose con semplice delicatezza: «La stampa è impietosa: guadagna sui dolori altrui».
Ogni tanto Filip si dimenticava del fatto che la vita del suo protetto scorresse anche sui giornali.
Le parole gli sfuggirono prima che potesse trattenersi: «Non so che cosa fare: non riesco a distrarlo e non riesco a fargli affrontare l'argomento. Non vuole parlarne e, anche volesse, non ci riuscirebbe: non è abituato a parlare di sé né di questo genere di emozioni».
Jan gli appoggiò una mano sulla spalla: «Credo tu stia facendo un ottimo lavoro».
«Davvero?»
Il maggiore annuì: «Una famiglia non è sempre questione di sangue: a volte è solo questione di chi ci tiene la mano nel momento in cui se ne ha bisogno».
Era stato con questo pensiero che, quando Emilio era rimasto orfano, Filip gli aveva aperto la porta della propria casa per salvarlo dalla solitudine; in cuor suo, però, sapeva di non essere abbastanza: poteva essere un amico, un mentore, un fratello, ma non poteva essere tutto.
Jan gli strinse la spalla e Filip sorrise con gratitudine.
Emilio si avvicinò al bordo pista ma, una volta di fronte al proprio allenatore, tentennò, lanciando un'occhiata dubbiosa all’olandese, troppo impegnato a studiare i movimenti di Sindy per accorgersene.
Fu Filip a venirgli incontro: immaginando che non volesse che l'uomo al suo fianco capisse quanto voleva dirgli, gli parlò in svedese.
«Dimmi».
Il ragazzo si morse le labbra, guardandosi la punta dei piedi e impiegò qualche secondo prima di ammettere che, quando gli si era avvicinata, Sindy gli aveva proposto di andare a mangiare un gelato insieme dopo lo spettacolo.
«Penso che dovresti accettare» dichiarò subito Filip, con un sorriso smagliante. «Prenditi una serata libera: te la meriti. Non esiste solo il lavoro».
Emilio sollevò finalmente la testa, cercando aiuto negli occhi del migliore amico: «E se dicessi la cosa sbagliata?»
«Quando cadi sul ghiaccio ti rialzi, giusto?»
«L'ultima volta che ho sbagliato a parlare, Sindy mi ha mangiato vivo!»
«Eppure sei ancora qui».
Emilio, non convinto, spostò il proprio peso da una gamba all'altra, in un gesto nervoso: «E tu... che cosa farai?»
Filip scrollò le spalle, sorridendogli: «Non lo so, magari mangerò qualcosa con Jan: io starò bene». Allungò una mano a scompigliargli i capelli in una carezza. «E starai bene anche tu» concluse dolcemente, spingendolo di nuovo in pista, convinto che sarebbe andato da Sindy ad accettare quell'invito.
Sorrise, pensandoci: una ragazza come lei non poteva che fargli bene.
«Non so perché, ma mi sento chiamato in causa» dichiarò improvvisamente Jan, sorridendo ironico: pur non avendo origliato la conversazione – dopotutto lo svedese aveva molto in comune con l'olandese – aveva udito Filip pronunciare il suo nome.
Il biondo annuì: «Ti va di cenare insieme?»
Jan non ci pensò nemmeno su: «Cinese?»
«Sposami».
 

 
**
 
 

I gradini in pietra erano ghiacciati e la gelida aria della sera cercava di insinuarsi fra le giacche e le sciarpe nelle quali i ragazzi erano infagottati.
Emilio non aveva mai sofferto il freddo: al contrario, trovava sempre piacevole quando fredde folate di vento gli si infrangevano sulle guance, inoltrandosi poi fra i suoi capelli, in una carezza.
Lanciando un rapido sguardo a Sindy, seduta accanto a lui, sorrise, cercando di nasconderlo dando un morso al trancio di pizza ancora fumante che aveva in mano.
Quando, dopo lo spettacolo di quella sera, avevano deciso di ordinare a domicilio del gelato per festeggiare la fine del galà, si era sentito sollevato: rimanendo in albergo, nel caso si fosse sentito a disagio, avrebbe avuto una via di fuga rintanandosi nella propria camera. Il telefono, tuttavia, era improvvisamente impazzito di notifiche: più fattorini si erano assunti l'incarico di consegnare il suo ordine, per poi abbandonarlo dopo due minuti. Nella confusione, la sua via di fuga si era lentamente dissolta, dipingendogli davanti agli occhi il quadro di un vero e proprio appuntamento come non ne aveva da tempo, ormai.
Una volta lasciato il palaghiaccio e giunti in città, avevano dovuto venire a patti con il fatto che tutti i ristoranti stavano, ormai, chiudendo. Era stata Sindy, alla fine, ad indicargli un minuscolo locale che dava esclusivamente sulla strada e che emanava un delizioso profumo di pizza appena sfornata.
«Sai già quale vuoi? Offro io» le aveva proposto porgendole lo striminzito menu.
La risposta lo aveva colpito come un pugno in pieno stomaco, come un irriverente schiaffo all'orgoglio della buona cucina mediterranea: «Sono tentata dalla pizza hawaiana».
Le aveva strappato di mano il foglio così inaspettatamente che Sindy aveva impennato le sopracciglia quasi fino a farle scomparire nei propri capelli: «In quanto italiano su suolo italiano è mio dovere civico e morale dissuaderti. L'ananas è buono, ma non sulla pizza. E con questo ho deliberato e non ho altro da aggiungere» e prima ancora che la ragazza potesse ribattere in alcun modo aveva già ordinato per entrambi.
Quando si erano seduti sui gradini del ponte più vicino Sindy lo aveva guardato e, perdendo la maschera di serietà che aveva indossato fino a quel momento, si era lasciata sfuggire un sorrisetto ironico: solamente allora Emilio si era reso conto che lo aveva semplicemente beffeggiato e che, ancora una volta, lui aveva parlato senza riflettere.
In fondo, a chi mai potrebbe piacere la pizza con l'ananas?
Vergognandosi di essere stato, di nuovo, così imbranato, aveva distolto lo sguardo, mordendosi l'interno della guancia: perché non riusciva semplicemente a sentirsi a proprio agio? Non era così difficile: con Filip poteva dire qualunque cosa gli passasse per la testa senza temere la sua reazione, senza dover studiare ogni parola.
La bocca piena di pizza, era riuscito solo a biascicare una frase di scuse imbarazzate.
«Sei sempre così suscettibile riguardo alla pizza?» gli aveva domandato lei, divertita.
«Beh...» si era stretto nelle spalle. «è patrimonio dell'umanità».
Destinatario di quello sguardo così misterioso, si era sentito morire dall'imbarazzo: «Ti prego: ora devi salvarmi, altrimenti torno in albergo e mi sparo».
«Per come stai, probabilmente mancheresti il colpo».
Ripiegando le labbra verso l'interno per trattenere una risata, alla fine aveva annuito, tirando un piccolo sospiro di sollievo e concedendosi di sbirciare Sindy di sottecchi.
I capelli le ricadevano morbidi sulle spalle e, con la luce della luna che si infrangeva su di essi, sembravano illuminarsi di riflessi blu. Erano più lunghi di quanto non gli fossero sembrati nei giorni scorsi: l'aveva trovata bella - quasi eterea - con i pattini, il costume niveo e la chioma raccolta in un’elegante crocchia; ma con quei semplici vestiti pesanti, i capelli sciolti e quello sguardo affaticato ma spontaneo, gli appariva ancora più affascinante. I suoi occhi, poi, avevano un che di misterioso, come se celassero tante storie e una personalità così complessa da intimidire chiunque.
Emilio non si sentiva in grado di sorreggere quello sguardo: dopotutto, che cos'aveva lui da offrire? Non era poi una persona così interessante come lo dipingevano le riviste.
Non come lei.
«Posso farti una domanda?» le chiese, racimolando un po' di coraggio. «Che cosa mi hai detto questa mattina quando mi hai parlato in olandese?»
Un altro sorrisetto aveva incurvato le sue labbra: «Non sono sicura che tu voglia davvero saperlo».
«Mi piace imparare una lingua nuova...» insistette Emilio. Passandosi una mano fra i capelli, si morse il labbro inferiore: «Ammetto che ci sono lingue con le quali mi trovo più a mio agio, ma questo non vuol dire che non trovi l'olandese... interessante». Per un momento si domandò se non fosse stato un po' troppo diretto. «È solo che... mi mette un po' in soggezione. Così finisco per fare la figura dell'idiota anche solo per mangiare una pizza».
Spiò di sottecchi la reazione di Sindy, sentendosi rincuorato nel vedere le sue guance arrossarsi, anche se forse era solo colpa dell'aria invernale.
«Non direi “idiota”».
«Ah no? E che parole useresti, allora?»
Sindy inclinò leggermente la testa, fingendo teatralmente di riflettere: «Giovane e inesperto».
«Ehi! Sull'inesperto posso darti ragione, ma da circa...» Emilio controllò con un gesto rapido il proprio orologio. «ventitré ore e mezzo siamo coetanei».
Il viso della pattinatrice si illuminò con un sorriso e, spontaneamente, gli si avvicinò un poco: «Davvero? Gefeliciteerd met je verjaardag!7»
 

 
**
 

 
«Dio creò il gelato... e poi si riposò» dichiarò Jan.
Pescò una cucchiaiata, portandola direttamente alle labbra, e porse la vaschetta, già vuota per metà, a Filip, stravaccato all'altra estremità del divano.
«Pistacchio e crema: manna dal cielo» proseguì quest'ultimo, prendendo a sua volta un assaggio. «Ho appena raggiunto i miei antenati nel Valhalla!»
«È sempre stato il gusto preferito di Sindy, il pistacchio».
«Come darle torto. Quando si parla di gelato, Emilio diventa una fogna: credo si sia trattenuto dall'ordinare cinque gusti diversi solo per non fare brutte figure».
Jan ridacchiò della colloquialità del collega, scuotendo la testa mentre la vaschetta tornava nelle sue mani: «A dire il vero, credo si sarebbero trovati in sintonia sull'argomento. Credi che se la prenderanno? Per il fatto che gli abbiamo rubato il gelato, intendo».
«In primo luogo, non lo abbiamo “rubato”, abbiamo... semplicemente ritirato una consegna a domicilio che casualmente è venuta a bussare proprio alla nostra porta».
Il cucchiaio di nuovo debordante di dolce, Filip sorrise: era stato lui stesso ad alzarsi, nonostante si trovassero nella camera d'albergo di Jan e Sindy, e ad andare ad aprire. Il fattorino lo aveva salutato con un sorriso smagliante e qualche scusa:
«Ci dispiace per il ritardo, ma abbiamo tenuto l'ordine in caldo apposta per voi».
Filip aveva corrugato la fronte: «In quanto gelateria, questa è la cosa peggiore che possiate dire ad un cliente!» Davanti allo sguardo smarrito del corriere, aveva cambiato discorso: «È già pagato?»
Come il ragazzo aveva annuito, Filip aveva afferrato il sacchetto e chiuso la porta della camera. Grazie allo scontrino appiccicato sopra, appurò di non aver derubato qualche sconosciuto, ma solo suo fratello.
«In secondo luogo...» riprese, dopo aver ponderato a lungo la situazione. «non c'è alcun bisogno che lo vengano a sapere».
Non aveva ancora finito di parlare che la campanella dell'ascensore trillò, echeggiando nel corridoio antistante alla loro camera. I due allenatori rimasero immobili – Filip mentre ancora gesticolava; Jan con l'ennesima cucchiaiata di gelato che, ora, minacciava di sciogliersi e gocciolare sui vestiti – in attesa di qualunque segno che si trattasse di Emilio e Sindy.
A Jan bastò sentire una risata ovattata per riconoscere la sua bambina: «Sono loro!» esclamò. Scattò in piedi e, dopo aver tappato la vaschetta, la mollò in mano a Filip: «Distruggi le prove del nostro crimine!»
«Perché io?» domandò lo svedese di rimando, senza accennare ad accettare quell'incarico.
«Perché è stata tua l'idea: io sono solo un complice fortuito».
«Non mi pare di aver incontrato una grande resistenza da parte tua!»
Jan alzò gli occhi al cielo e recuperò un tovagliolino per pulire una goccia di gelato che era colata sui pantaloni.
Filip riuscì a scaraventare nel piccolo frigorifero il contenitore di polistirolo e a infilare lo scontrino nella tasca posteriore dei jeans appena un attimo prima che la porta si aprisse.
I due allenatori non si erano sbagliati: due figure alte e snelle comparirono sulla soglia, con tutta l’aria di chi aveva appena passato una piacevole serata.
Con grande sorpresa di tutti i presenti, Sindy si avvicinò repentinamente a Filip, stringendolo a sé. «Gefeliciteerd!» esclamò con un ampio sorriso, scoccandogli tre baci sulle guance.
Poi si rivolse a Jan: «Sapevi che oggi è il compleanno di Emilio?»
Senza quasi attendere una risposta – la stanchezza accumulatasi durante la giornata cominciava a farsi insopportabile – gli ospiti si congedarono.
«Tack så mycket!8» sussurrò lo svedese nella sua lingua madre, seguendo con lo sguardo la ragazza mentre richiudeva la porta dietro le sue spalle, dopo aver lanciato un ultimo sguardo eloquente ad Emilio. «Da quando si fanno gli auguri agli amici del festeggiato? Ma, più importante: da quando si danno tre baci sulle guance?»
Filip non si aspettava effettivamente una risposta, ma l'ottenne comunque, quando Emilio si strinse a lui, appoggiando la testa contro la sua schiena: «Sindy me l'ha spiegato: è una tradizione olandese» biascicò, senza reprimere e curarsi di nascondere uno sbadiglio.
«Te l'ha spiegato... o te l'ha dimostrato
«Filip...» farfugliò il ragazzo in tono lamentoso: «Sono stanco morto: possiamo andare in camera e dormire fino alla settimana prossima?»
«Voi italiani date due baci, gli olandesi tre: non capisco secondo quale logica».
Il maggiore sentì Emilio sorridere contro la sua schiena: «Non saprei... ma sai come si dice: non c'è due senza tre».
Filip, decisamente interessato alla piega che la conversazione aveva appena preso, sciolse quell'abbraccio per fronteggiare Emilio.
«E il quarto vien da te?» domandò con un velo di malizia, appoggiandogli le mani sulle spalle per scuoterlo con delicatezza: «Non è ancora il momento di addormentarsi: hai molto da raccontarmi!»
Emilio rise: «Non “te”: “sé”. Il modo di dire non cambia a seconda del destinatario».
«Dettagli grammaticali! E comunque non mi hai risposto».
L'atleta, esausto anche solo per sbuffare, si limitò a sospirare, voltandosi e avviandosi verso la propria camera. Si lasciò cadere sul letto senza nemmeno spogliarsi della giacca e, mentre Filip cercava ancora di convincerlo a rivelare qualche dettaglio, recuperò il proprio cellulare.
La schermata mostrava ancora il numero di Sindy, appena salvato in memoria. Il pensiero di scriverle un semplice messaggio di “buona notte” gli fece nascere un sorriso. Quasi stentava a crederlo, ma aveva passato davvero una bella serata, nonostante l’imbarazzo iniziale. Almeno per un paio d’ore, era riuscito a scacciare quella sensazione di solitudine che scandiva, soprattutto in quell’ultimo periodo, la sua vita: tutto sommato, Filip aveva avuto ragione a suggerirgli di prendersi una pausa.
Aveva inaspettatamente trovato una compagnia in grado di capirlo: Sindy era stata l’unica persona a parlargli senza timore di vederlo crollare da un momento all’altro. L’aveva trattato come una persona e non come un bicchiere di cristallo, così delicato da rischiare di spezzarsi al minimo tocco. Osservando l’immagine profilo della misteriosa ragazza, si domandò da dove avessero origine tanta forza e maturità d’animo.
Una notifica lo distolse improvvisamente da quei dolci pensieri, facendogli corrugare la fronte. Lanciò uno sguardo indagatore al coinquilino, intento a cambiarsi, individuando senza difficoltà l’estremità spiegazzata di uno scontrino fuoriuscire dalla tasca dei pantaloni. 
Ridusse gli occhi ad una fessura: «Non è che per caso hai ritirato del gelato a domicilio?»
«Non so di cosa parli» asserì Filip sfilandosi la maglietta e tirandola in faccia al più giovane.
«Davvero? E che cos’avete fatto tu e Jan tutta la sera?»
Il maggiore si scompigliò i lunghi riccioli biondi con una mano, allargando poi le braccia: «Progettato il nostro matrimonio» dichiarò con ovvietà.
Emilio scoppiò a ridere e, scuotendo la testa, accantonò qualunque progetto di vendetta futura.
 

 
**
 
 

Nonostante la consapevolezza che Jan fosse sveglio, Sindy entrò nella stanza con passo felpato, come quando, da bambina, si infilava nel lettone, lasciandosi cullare dall'uomo che si era preso cura di lei nella vita quotidiana e professionale.
«Vedo che siete diventati grandi amici» commentò con un sorriso, alludendo al giovane allenatore appena congedatosi e alla modesta festicciola che pareva aver avuto luogo nella stanza.
Vide Jan fare un cenno col capo, accomodandosi sulla sponda del letto. «Potrei dirti esattamente la stessa cosa» ammiccò.
Sindy avrebbe voluto chiedergli se avesse cenato, ma subito quel pensiero scemò, lasciando posto ai ricordi che erano nuovamente piombati nella memoria, rammentandole quanto la sua esistenza fosse stata movimentata negli ultimi mesi.
La pizza che aveva condiviso con Emilio – e che lui si era preso la libertà di scegliere – le aveva lasciato un retrogusto amaro e la gola arida. Tuttavia, non appena fece per avvicinarsi al piccolo frigorifero presente nella stanza, sentì Jan cacciare un urlo, tirandosi veloce in piedi.
«Ma che cosa?! Ti sembra il caso di gridare così a quest'ora?»
In viso doveva avere un'espressione sconvolta, perché subito le labbra dell'uomo si aprirono in una vivace risata. «Tieni, prendi questa!»
Si affrettò a porgerle la bottiglietta d'acqua naturale che teneva ancora chiusa sul comodino: «Sai che l'acqua del frigo ti fa male».
L'espressione seria dell'allenatore la convinse a desistere: in fondo aveva ragione; l'acqua gelata la sera le faceva sempre venire un gran mal di stomaco. Come sempre, Jan la conosceva meglio di quanto lei conoscesse se stessa.
Sindy accettò la bottiglietta, trangugiando qualche sorso, ma non le sfuggì l'espressione rilassata comparsa sul volto dell'uomo non appena l'aveva afferrata.
Scoprirò che cosa nascondi nel frigorifero, Jannie, pensò, forse dimentichi che sono una poliziotta!
«Tu sapevi che la madre di Emilio è morta?» gli domandò facendo finta di niente, un po' per distrarlo dalle proprie intenzioni, e in parte perché aveva la sensazione che Jan sapesse più di quanto ammettesse riguardo al campione olimpico.
«Tesoro, so che non segui le riviste di pattinaggio, ma io lo faccio» asserì il suo interlocutore, in tutta risposta, «e parlo anche con gli altri allenatori».
Infilandosi il pigiama blu che tanto le piaceva, Sindy si chiese se non fosse stato lo stesso per lui, in passato: forse, qualche notizia che Jan non amava condividere con nessuno aveva fatto capolino fra le pagine lucide di qualche giornale; forse qualche altro appassionato poteva averle lette con occhi affamati.
Se i calcoli non l'ingannavano, Filip doveva essere poco più che un bambino quando Jan e sua moglie si esibivano in maestose coreografie di danza sul ghiaccio. Forse, ora che si erano conosciuti di persona, gli aveva chiesto qualcosa a riguardo, qualche dettaglio che non rammentava, qualche particolare che, probabilmente, Jan non era ancora pronto a divulgare.
Sindy s’intrufolò nel letto, cercando spontaneamente le sue braccia, senza rendersene conto. Ogni qualvolta aveva occasione di dormire con Jan tornava un po' bambina, riportando alla mente quelle notti invernali in cui il vento soffiava forte fuori dalle finestre, e lei si trovava nel calore dei suoi abbracci, finalmente al sicuro.
Jan era la persona più vicina a un padre che avesse avuto nella propria vita: le piaceva l'idea di chiamarlo papà, anche se non aveva mai osato farlo. Allo stesso modo, il cuore le si scaldava al pensiero che anche Jan potesse considerarla un po' sua figlia, dopo tanti anni vissuti insieme.
In questo siamo simili, pensò Sindy, ricordando ciò che Emilio le aveva raccontato quella sera, quando la conversazione si era spostata sull'argomento familiare. Quando aveva menzionato la madre, Sindy non si era lasciata sfuggire il luccichio dei suoi occhi; il ricordo doveva fargli ancora molto male.
Ciò che più apprezzava di Emilio era la sua capacità di apparire forte agli occhi altrui, ma sciogliersi come un ghiacciaio dinanzi al confronto. Avrebbe voluto abbracciarlo, fargli sentire quel calore cui tanto agognava lei stessa, in quelle lunghe notti passate nel bosco, in cerca di cibo, in cerca di amore; persino quando, scherzando, gli aveva domandato il motivo per cui, il giorno prima, l’avesse guardata con inaspettata rabbia non appena lei aveva corretto Filip, che aveva tentato di fare da paciere:
«Io non ho nessun altro: solo Filip. E, forse, quello di correggerlo quando sbaglia a parlare è un gioco stupido, ma è… nostro. Soltanto mio e suo» aveva risposto, lo sguardo piantato a terra.
Ogni cellula del proprio corpo le aveva gridato di fargli sentire la sua presenza in quel periodo così difficoltoso, di carezzargli i capelli e baciargli il viso; eppure, Sindy non si era mossa di un centimetro. Quando la conversazione si era spostata sulla figura paterna, però, Emilio si era improvvisamente ammutolito, come se ogni argomentazione fosse ormai esaurita. Lo sguardo si era improvvisamente posato dritto nei suoi occhi, in cui Sindy era persa nuovamente, prima che Emilio lo posasse altrove, visibilmente imbarazzato.
«Allora, com'è andata col tuo principe azzurro?» chiese Jan tutto d'un fiato, distraendola dai propri pensieri.
Sindy sbuffò: credeva forse che si sarebbe concessa così facilmente?
«Ha detto che la prossima volta ci porta tutti a mangiare la pizza all'ananas» sogghignò, nascondendo il volto nel cuscino, nel tentativo di soffocare una risata.
«Ma scherzi?!» gridò l'uomo, puntellandosi sui gomiti. «Loro non mangiano quella roba
Sindy si sollevò per osservarlo con espressione divertita. «Nemmeno io, se è per questo» ribatté, infine, mostrandogli le spalle.
Forse aveva esagerato quella sera con Emilio, ma non poteva affermare di non essersi divertita. Quel ragazzo era come una matrioska: dubitava sarebbe mai riuscita a conoscerlo fino in fondo.
Avrebbe dovuto inchinarsi dinanzi al campione olimpico, lei che era riuscita a vincere soltanto i campionati nazionali. Lui aveva sconfitto i maggiori colossi del pattinaggio artistico sul ghiaccio, e lei aveva preso gusto a sbeffeggiarlo, invece di lodarlo.
Lo stesso, in fondo, accadeva con Rickard: incapace di dimostrare il proprio affetto in altro modo, Sindy si divertiva a giocare e a scherzare come una bambina con il fratello.
Dopotutto, non era quello che erano? Non erano forse due fratelli d'anima, che la vita aveva provveduto a far incontrare, in modo da salvarsi a vicenda?
Tutto accadde in un istante: le lacrime cominciarono a scivolare copiose sulle guance, disperdendosi nel tessuto del cuscino. Un nodo di amarezza le salì alla gola, mozzandole il fiato.
Era stata brava, la prima sera del galà, a soffocare i propri sensi di colpa: durante la performance, era perfino riuscita a mascherare il dolore fisico dovuto alla brutta caduta iniziale.
Le nuove conoscenze e l'ambiente piacevole, poi, l'avevano messa a proprio agio, facendole dimenticare, per una giornata, la tragedia che l'aveva colpita.
Tuttavia, per quanto si sforzò, non riuscì a reprimere un singhiozzo: detestava mostrarsi debole agli occhi degli altri, anche dinanzi all'uomo che l'aveva curata in condizioni ben peggiori.
Senza dire nulla, Jan l'accolse in un abbraccio, come quando, da bambina, il vento soffiava troppo forte e i ricordi riaffioravano feroci. La cullò in dolci movimenti, carezzandole la chioma, fino a quando Sindy non si abbandonò tra le braccia di Morfeo.
Non importava quante disgrazie avrebbero ancora dovuto subire, o quante gioie avrebbero avuto occasione di condividere: qualsiasi cosa fosse accaduta, l'avrebbero affrontata insieme, prendendosi cura l'uno dell'altra – come Filip con Emilio – come un padre con una figlia.
 
 
 
 
 
 


 
 
1 Il salchow è un salto del pattinaggio artistico, che prende il nome dal suo ideatore Ulrich Salchow, pattinatore svedese e primo campione olimpico nel 1908.
 
2 L'ultima frase consiste in una citazione tratta dal film d'animazione “Mulan”.
 
3 Lo Zamboni, denominato anche Rolba, è il macchinario utilizzato per levigare la superficie di una pista di ghiaccio.
 
4 Citazione deliberatamente tratta dal romanzo “Jane Eyre” della scrittrice inglese Charlotte Brontë.
 
5 I pattini da ghiaccio maschili sono solitamente di un colore scuro o neri; lo scarponcino femminile è solitamente di colore bianco.
 
6 Il lutz è uno dei salti più difficili del pattinaggio artistico, e prende il nome dal pattinatore austriaco Alois Lutz, il primo a eseguirlo nel 1913.
 
7 “Auguri di buon compleanno” in lingua neerlandese.
 
8 “Grazie mille” in lingua svedese.
 
 
 
 
 
 
Angolino autrici:

Buona sera a tutti! Qui Sabriel_Little_Storm e Carmaux_95 che, prima di tutto chiedono scusa – ma neanche troppo – per le quasi 9000 parole; e che, in secondo luogo, ringraziano la cara Soul, per aver indetto questo interessantissimo contest che ci ha permesso di cooperare per la stesura di una storia.
Questo inaspettato matrimonio è caduto a pennello! *^* Siamo due autrici dallo stile molto diverso e che, spesso, vertono su temi e generi che non sempre si incontrano – partendo dal drammatico e sfociando nel comico – ma che, per qualche strana coincidenza, si sono trovate.
La soddisfazione più grande di questa storia, per noi, risiede non tanto nell'aver fisicamente composto una storia insieme (anche se quanti deliri fino alle due di notte per arrivarne a capo... XD), ma di essere riuscite ad unire due personaggi originali; due personaggi nati in momenti e occasioni diverse e sui quali entrambe avevamo già scritto, ciascuna sulla propria pagina autrice. I primi due mesi di contest, infatti, li abbiamo trascorsi raccontandoci le storie dei relativi personaggi di modo da trovare l'occasione e il momento giusti per farli incontrare rispettando la loro “timeline” e la loro backstory ^^
Un mese poi è passato tra esami universitari e bestemmie, quindi in realtà ci siamo messe effettivamente a scrivere che ormai mancava ben poco tempo alla scadenza! XD
Forse non ci saranno grandi colpi di scena o trame avventurose, ma nel complesso siamo soddisfatte del lavoro e del modo in cui siamo riuscite ad approfondire i nostri personaggi ^^.
Vada come vada il contest – un grosso in bocca al lupo a tutti i partecipanti!!! – per noi pubblicare questa storia è già una vittoria! ^^
Ancora una volta, GRAZIE SOUL!
E grazie a chiunque sia arrivato a leggere fino in fondo XD
Un bacione da Sabriel e Carmaux ^^
 

 
P.S.: Per quanto riguarda le musiche menzionate, Sindy pattina sulle note dell’Ave Maria di Schubert (https://www.youtube.com/watch?v=2H5rusicEnc), mentre Emilio pattina sulla colonna sonora del film d’animazione “How to train your dragon” (https://www.youtube.com/watch?v=2C4lFUpI_4U).
   
 
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