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Autore: LazySoul    16/03/2020    2 recensioni
Trama:
Diana ha 17 anni, è la secondogenita dell'Alpha ed è trattata da tutti come una bambina.
Nel tentativo di dimostrare di essere grande abbastanza per combattere e difendersi da sola, chiederà aiuto alla persona che più la confonde, suscitando in lei sentimenti contrastanti, Xavier O'Bryen.
Tra uno spasimante indesiderato, una migliore amica adorabilmente pazza e un assassino in circolazione, riuscirà Diana ad accettare i sentimenti che prova per Xavier?
Estratto:
«Sei giovane, ancora non hai imparato che spesso gli odori celano delle emozioni», spiegò, appoggiandosi al materasso con le mani e avvicinando il viso pericolosamente al mio: «E sai cosa mi sta urlando il tuo odore in questo preciso istante?», mi chiese, anche se era palese che non si aspettasse una risposta.
«Prendimi», sussurrò ad un soffio dalle mie labbra.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo XVI: L'origine della specie

 

Quando tornai a casa quel pomeriggio, trovai nonna in salotto, seduta sul divano a sfogliare una rivista di giardinaggio. 

La salutai distrattamente, mentre abbandonavo lo zaino a terra e la giacca sulla sedia più vicina. Ero intenzionata a rubare uno dei muffin al cioccolato che si trovavano ancora in bella mostra sul tavolo della cucina, fare i pochi compiti che mi erano stati assegnati e poi correre in mansarda, dove speravo di trovare Xavier di buon umore e pronto a rispondere alle domande che mi ero preparata, aiutata da Sab. Avevo sollevato l'argomento "borsone" una ventina di volte, portando Isabel all'esaurimento; tanto che alla ventunesima volta mi aveva interrotta, cambiando bruscamente argomento. 

Durante la prima ora buca (dovuta alla mancanza di O'Bryen), avevamo parlato di Alan, di Ann e di Michel. 

Isabel, malgrado cercasse di non darlo troppo a vedere, era ancora abbattuta per l'invito ad uscire che il giovane Picard aveva rivolto a me e non a lei. Forse era anche arrabbiata con me per aver accettato, ma mi piaceva pensare che principalmente fosse delusa dal comportamento di colui che credeva essere l'amore della sua vita, piuttosto che dalla mia impulsività. 

Per fortuna Alan stava cominciando a farle dubitare che il legame tra lei e Michel fosse poi così forte. Sab mi aveva parlato a lungo dei messaggi che si erano scambiati, lei e Truce, facendomi leggere qualche spezzone di conversazione con gli occhi lucidi dall'emozione. Sembrava che Alan fosse proprio il bravo ragazzo che avevo sempre pensato essere e l'idea che gli piacesse la mia migliore amica non mi dispiaceva. Speravo solo di non dovermi ricredere. Non mi piaceva l'idea di vedere, nuovamente, Sab soffrire per un ragazzo; inoltre l'idea di castrare Alan non era particolarmente entusiasmante.

Isabel era rimasta in ansia per tutta la mattinata, incerta su come comportarsi con Truce una volta che l'avrebbe visto a scuola. Era a dir poco insopportabile mentre elencava tutti i possibili scenari in cui ci saremmo potute imbattere.

«E se dovesse fingere di non conoscermi? E se invece non fosse entusiasta come me all'idea di vedermi? Penso che abbia capito che non posso uscire con lui sabato perché sono in punizione, ma se invece si fosse offeso per il mio rifiuto? E se...?»

Era stato il mio turno di zittirla, dicendole che si stava facendo tanti problemi per qualcosa che esisteva solo nella sua testa.

Infatti Alan non l'aveva ignorata e non aveva mostrato in nessun modo di essersi offeso per il suo rifiuto, sedendosi al nostro stesso tavolo durante la pausa mensa, con un sorriso a trentadue denti stampato in faccia. Lui e Sab avevano passato il pranzo a chiacchierare e a scambiarsi sguardi dolci, entrambi con le guance accese dall'emozione e i cuori che singhiozzavano a ritmi irregolari nel petto.

Io avevo invece approfittato della pausa pranzo per chiacchierare con Ann e Frida, chiedendo a quest'ultima se si sentisse pronta per l'interrogazione di spagnolo che avremmo avuto nel giro di qualche giorno. 

Verso la fine del pranzo un paio di amici di Alan si erano imbucati al nostro tavolo, mentre Frida era fuggita in biblioteca (per approfittare - a detta sua - dell'ambiente deserto per cercare il libro che le serviva).

Fu naturale iniziare a parlare del plenilunio di sabato, considerando che avevamo composto involontariamente un'intera tavolata di lupi. Uno degli amici di Alan, Diego, ne aveva approfittato per chiedermi informazioni personali su Francine e io non mi ero lasciata pregare, raccontandogli qualche aneddoto sulla fredda ragazza senza cuore che un tempo si era finta mia amica.

Truce ci aveva raccontato inoltre di come l'Alpha Rice fosse preoccupato che il lupo solitario si presentasse al plenilunio per creare ulteriore scompiglio. Quel pensiero, per quanto assurdo, mi aveva tormentato per tutto il giorno, quasi quanto la questione "borsone".

Stavo addentando un muffin al cioccolato quando sentii la macchina di mamma parcheggiarsi nel vialetto. Sorrisi e continuai a godermi il dolce, mentre guardavo la nonna persa nella sua rivista di giardinaggio.

«Cosa leggi?», le chiesi, tirando fuori dalla cartella i libri e i quaderni, pronta a fare i compiti.

«Le proprietà terapeutiche della camomilla», disse, senza alzare lo sguardo dalla rivista: «Non che non le conosca già a memoria, ma spero sempre di trovare qualcosa di nuovo che mi sorprenda».

Risi, finendo il muffin in un boccone, mentre sentivo la porta d'ingresso aprirsi.

«Sono a casa!», annunciò la mamma con entusiasmo.

La sua spensieratezza alimentò ulteriormente il mio buon umore.

Le diedi una mano a sistemare la spesa nella credenza, poi dedicai tutta la mia attenzione ai compiti, finendoli in pochi minuti.

«Pronta per la nostra lezione?», chiese nonna, sedendosi a tavola accanto a me con un sorriso a illuminarle il volto. Sembrava sinceramente felice di condividere con me tutta la sua conoscenza centenaria e io non potevo fare a meno di sentirmi onorata.

«Certo! Vado solo a cambiarmi un attimo», dissi, alzandomi.

Le mie intenzioni vennero però interrotte dal suono del campanello d'ingresso.

La mamma mi precedette, andando a vedere chi fosse, prima che io potessi fermarla.

«Michel, caro! Prego, entra», disse mamma, facendomi perdere tutto il buon umore di poco prima.

Picard entrò in casa con aria circospetta, indossava dei pantaloni eleganti e una camicia bianca sotto a un maglione grigio; aveva proprio l'aria del bravo ragazzo che spera di poter passare un piacevole pomeriggio con una brava ragazza.

«A cosa dobbiamo questa visita?», chiese mamma, accompagnando Michel fino alla sala, dove io ero ancora in piedi accanto a nonna.

Avrei tanto voluto fuggire in camera mia, così da evitare l'imbarazzo di dover dire a mia mamma il motivo per cui Picard era in casa nostra, ma il mio cavaliere mi precedette, risparmiandomi la seccatura.

«Sono venuto a prendere Diana», disse, sorridendomi con sicurezza.

Il volto di mamma sbiancò leggermente, mentre guardava me e poi Michel con aria smarrita.

«Ti ha invitata ad uscire?», mi chiese alla fine, il tono di voce leggermente infastidito.

«Sì, sabato, alla festa», le dissi, annuendo.

«Perché non me ne hai parlato, tesoro?», insisté, incrociando le braccia al petto con fare dispiaciuto.

«Sinceramente avevo altro per la testa e poi sono in punizione, ricordi?», le dissi con un sorriso fintamente triste, prima di voltarmi verso Michel: «Mi dispiace Picard, ma sono in punizione e non posso uscire e avere una vita sociale fino a sabato», gli spiegai sollevando le spalle con aria rassegnata.

Ero pronta a ricevere l'Oscar per la recitazione.

Non ero mai stata così brava a fingermi dispiaciuta, meritavo come minimo un riconoscimento per la mia performance da standing ovation.

Nonna, ancora seduta, sorrideva con aria furbesca, mentre sfogliava la rivista di giardinaggio.

Mamma guardava Michel con aria dispiaciuta, mentre quest'ultimo sembrava non credere alle mie parole e mi scrutava con un sopracciglio sollevato.

«Sei seria, Diana?», mi chiese, dopo qualche secondo di silenzio.

«Temo di sì», ammisi: «Sarà per un'altra volta».

Michel mise il broncio, abbassando la testa, abbattuto.

Per qualche secondo mi dispiacque sinceramente per lui, poi mi ricordai delle parole di Francine alla festa di Ling e mi sentii davvero una pessima persona.

«Picard, penso che sia meglio così», ammisi, caricandomi la cartella in spalla: «Sappiamo entrambi che avrei reso l'appuntamento un incubo per entrambi perché mi hai convinto ad accettare facendo leva sul mio orgoglio e la mia impulsività. E non perché volessi davvero uscire con te», dissi, sospirando: «Ho cercato di dirtelo sabato: siamo sempre stati ottimi amici e non ti vedo come qualcosa di più».

Mi avvicinai a lui, appoggiando una mano sulla sua spalla: «Scusami», dissi, abbracciandolo velocemente, lasciandomi avvolgere dal suo odore. Quell'odore che non mi faceva perdere il contatto con la realtà come faceva quello di Xavier, ma mi ricordava la mia infanzia; la spensieratezza e l'innocenza con cui giocavamo insieme nel bosco, inventandoci avventure e sfide, mai stanchi e sempre col sorriso sulle labbra.

Michel annuì distrattamente e, senza alzare lo sguardo, salutò mia mamma e nonna, poi si diresse con passo incerto verso l'ingresso.

Lo guardai mentre usciva di casa e non potei fare a meno di sentirmi una stronza.

Non avevo mai voluto giocare coi suoi sentimenti, non era mai stata mia intenzione. L'avevo sempre trattato come il mio secondo fratello maggiore, lanciandogli frecciatine e scherzandoci con genuinità, proprio come avevo sempre fatto con Kyle. Mai avrei pensato che potesse interpretare il mio affetto per amore.

«Sei sicura, Diana?», chiese mamma, poggiandomi una mano sulla spalla: «Sei ancora in tempo per corrergli dietro».

«Sì, sono sicura», dissi, sorridendole tristemente.

Mamma annuì: «La scelta è solo tua», mi disse, accarezzandomi la guancia: «Stai bene?»

«Sì, mamma», le sorrisi: «Ora che le cose si sono chiarite, mi sento molto meglio».

"Anche se mi dispiace che siano andate in questo modo", pensai, sospirando appena.

«Gli passerà?», chiesi, mordendomi il labbro, mentre scrutavo il viso colmo di apprensione di mamma.

«Gli ci vorrà del tempo», disse, carezzandomi gentilmente i capelli: «Ma sono sicura che sì, gli passerà».

Annuii distrattamente, poi abbracciai mamma, rendendomi conto che era da molto tempo che non lo facevo e che le sue braccia mi erano mancate.

«Vado a cambiarmi», annunciai, abbozzando un sorriso.

Mi sistemai meglio lo zaino a spalle e recuperai la giacca che avevo abbandonato su una sedia, prima di andare in camera.

Sfilai le scarpe per infilare le mie ciabatte pelose, poi indossai i pantaloni della tuta grigi e un maglione.

Osservai a lungo il mio riflesso nello specchio, mordendomi il labbro inferiore e spostando lo sguardo dal mio occhio grigio a quello color nocciola. 

Ero convinta di essermi comportata bene con Michel. Certo, forse avrei dovuto essere più dura durante la festa di sabato ed evitare di accettare il suo invito ad uscire. Di sicuro così facendo avrei evitato di alimentare ulteriormente le sue speranze. Sapevo che Francine mi avrebbe come minimo insultato il giorno successivo a scuola; anche se voleva sempre passare per la regina di ghiaccio, teneva molto a suo fratello maggiore.

Pensare a Francine mi fece sentire ancora più abbattuta.

Mi sarebbe piaciuto riallacciare i rapporti con lei. Sapevo che non tutto era perduto e che dietro alle barriere che aveva eretto intorno a sé, esisteva ancora la bambina dai capelli color miele che si divertiva a fare la principessa da salvare, mentre Sab interpretava il cavaliere dall'armature scintillante che la soccorreva e io l'uomo malvagio che l'aveva imprigionata. Ero certa che mi sarei dovuta impegnare molto per tornare ad esserle amica, ma le sfide non mi spaventavano ed ero pronta a fare il primo passo verso la riconciliazione.

Tornai in salotto, dove la nonna mi aspettava con un sorriso in volto: «Pronta per la prima lezione?», mi chiese.

Non potei impedirle di contagiarmi con il suo entusiasmo e annuii, sedendomi accanto a lei a tavola, dove nonna Diana aveva appoggiato quello che sembrava un libro molto antico e rovinato dagli anni.

«Cos'è?», chiesi, allungando le mani per afferrarlo, ma nonna fu più veloce e allontanò il volume.

«Questo l'ha scritto la tua trisnonna, ossia la mia nonna paterna», disse, sfiorando la copertina del libro con delicatezza: «Si chiamava Dahlia e in queste pagine troverai tutto quello che c'è da sapere su piante e fiori del sottobosco, sui funghi e gli ortaggi, su alberi da frutto e arbusti».

«La tua trisnonna era molto brava a disegnare e ha raffigurato in queste pagine tutte le specie vegetali di cui parla, indicando anche la stagione, il mese o le condizioni in cui la si può trovare più facilmente. Come, dopo averlo concluso, Dahlia ha passato questo testo a me, io ora lo regalo a te. All'interno ci troverai anche alcune mie note a margine e potrai aggiungerne a tua volta».

Allungai le mani e in un moto di impazienza e curiosità, strinsi quel volume tra le dita, sentendo la consistenza ruvida della copertina e percependo con più chiarezza l'odore di pergamena e inchiostro vecchio che ne impregnava le pagine.

«Trattalo bene, mi raccomando», disse nonna, sorridendomi con affetto.

Annuii, gli occhi mi brillavano mentre aprivo il volume.

Sulla prima pagina spiccava in una scrittura corsiva ed elegante il nome della mia trisnonna:

Dahlia Annette Lefevre, poco sotto quello di mia nonna: Diana Amalia Harris.

Nelle pagine successive potei constatare come la trisnonna Dahlia avesse davvero una bella scrittura, elegante ma facilmente leggibile, oltre ad avere una vera e propria predisposizione al disegno. 

«E tienilo lontano da tua sorella», aggiunse nonna, col sorriso sulle labbra: «É ancora piccola, penserebbe che sia un libro da disegnare e non ci penserebbe due volte prima di pasticciarlo con le tempere o i pastelli».

Risi, annuendo: «Tenere lontano dalla portata dei bambini, chiaro».

Chiusi il volume e sbirciai con la coda dell'occhio in cucina, dove mamma stava sorseggiando un caffè con lo sguardo perso nel vuoto; aveva un sorriso triste sulle labbra sottili e mi chiesi a cosa stesse pensando.

«Mamma, tutto bene?», le chiesi, incapace di trattenere la mia curiosità.

La vidi riscuotersi e sorridermi: «Stavo ricordando quando anche io, alla tua età, mi feci raccontare da mia nonna tutte le leggende che circolano sul nostro conto», posò il caffè e ci raggiunse in salotto, sedendosi accanto alla nonna: «Posso assistere?»

Nonna annuì con sguardo serio: «Bene, direi di partire dall'inizio», disse: «Ci sono diverse leggende a proposito dell'origine della nostra specie, molte si contraddicono tra loro, altre sono assurde e altre ancora poco credibili. Oggi ti racconterò quelle che sono considerate più attendibili. La prima dice semplicemente che Dio, allo stesso modo in cui ha creato la razza umana e tutte le altre specie animali, ha creato anche noi. Se vuoi sapere la mia opinione è troppo semplicistica, non scende nei dettagli e lascia piuttosto insoddisfatti. Un'altra leggenda è legata alla mitologia greca: Licaone, primo re di Arcadia, uccideva persone innocenti e commetteva crimini afferrati, per questo Zeus punì Licaone, trasformandolo in un lupo mannaro». 

«Con l'avvento del Cristianesimo e la sua diffusione in tutta l'Europa le leggende popolari legate alla figura del lupo mannaro, che non sempre erano viste con negatività, acquisirono una connotazione malefica. La metamorfosi da uomo a lupo e viceversa veniva attribuita a capacità magiche, oppure come conseguenza di azioni dai poteri portentosi. Come per esempio: il bere acqua piovana raccolta nelle orme di un lupo, l'annusare essenze concentrate estratte dalle loro pelli, il pronunciare per tre volte il nome di un altro lupo mannaro dopo essersi tolti i vestiti e aver orinato intorno a essi, aver assunto dosi di aconito, una pianta velenosa dalle foglie verde scuro particolarmente diffusa nelle aree montagnose. In talune occasioni, il cristianesimo etichettò la licantropia come punizione divina, per esempio quando secondo l'agiografia di San Patrizio d'Irlanda, il santo tramutò in lupo Veretius, il re del Galles.»

L'ingresso in salotto di mio fratello interruppe il racconto di nonna: «Ciao a tutti!», esclamò, sorridendo da orecchio a orecchio: «Che fate di bello?»

«Nonna mi sta raccontando l'origine della nostra specie», dissi, osservando la curiosità sul volto di mio fratello tramutarsi in noia.

«Allora vi lascio», stava per fuggire in camera sua, ma venne intercettato da mamma che lo fece sedere al tavolo con noi.

«Dove pensi di andare?», disse, scompigliandogli la chioma: «Devi ascoltare anche tu».

Kyle sospirò rassegnato: «Va bene, mamma».

«Dov'ero rimasta?», disse nonna, massaggiandosi il mento con aria pensierosa.

«Al re di Galles», le ricordai.

«Giusto. Secondo molti la vera origine della nostra specie è riconducibile a una leggenda che risale a un'epoca molto lontana. Una tribù del popolo germanico, protetta da un forte guerriero di nome Halfrid e guidata spiritualmente da uno sciamano chiamato Stillimot, venne attaccata da una tribù avversaria. L'esito della battaglia sembrava già scritto dalle Norne, le dee che presiedono il destino umano; Halfrid e i suoi guerrieri stavano per essere sconfitti. Stillimot allora chiese aiuto agli spiriti della foresta e il suo grido disperato venne ascoltato da quello del lupo che donò a Halfrid e ai suoi guerrieri la sua potenza, velocità e ferocia. Halfrid vinse la guerra e lo spirito del lupo volle premiare il suo coraggio concedendogli la possibilità di assumere sembianze animali ogni qualvolta si fosse trovato in pericolo. Noi siamo i figli di Halfrid».

Nella stanza calò il silenzio per qualche secondo, poi mio fratello alzò la mano: «Ora posso andare?»

Mia mamma scosse la testa con aria fintamente disperata: «Vorrei proprio sapere cos'hai da fare di così importante».

Kyle sfoggiò un sorriso a trentadue denti: «Mi vedo con degli amici, andiamo a giocare a baseball».

«Da quando hai degli amici oltre a Michel?», gli chiesi, sollevando un sopracciglio.

«Ah, ah, che simpatica che sei», disse mio fratello, facendomi la linguaccia.

«Che amici?», chiese mamma, mentre nonna si alzava e andava in cucina a scaldare dell'acqua, molto probabilmente per del tè.

«Sono dei ragazzi del branco di Rice», disse mio fratello, indossando la giacca: «Alan, Diego e gli altri, staremo nella radura vicino a casa del signor Montgomery».

«Va bene, basta che non diate fastidio a Robert, Dio solo sa quanto stia soffrendo», si raccomandò mamma, scuotendo la testa con aria triste.

«Sì, mamma», con un veloce gesto di saluto, Kyle scomparve oltre la porta, lasciandoci nuovamente sole.

«Diana, tesoro, hai voglia di portare questo tè in mansarda da Xavier, dovrebbe aiutarlo nella guarigione», disse nonna, porgendomi una tazza fumante e un piattino con dei biscotti al cioccolato: «Questi invece sono per sollevargli un po' il morale, deve essere una tortura rimanere chiuso in quella stanza tutto il giorno».

«Sta meglio?», le chiesi.

«Per domani dovrebbe tornare come nuovo», mi rassicurò nonna, sorridendo.

Mentre salivo le scale diretta alla mansarda, non potei fare a meno di ripensare al racconto di nonna. Halfrid era esistito davvero o era solo una leggenda? Ogni famiglia e branco conosceva la stessa leggenda o ne esistevano più versioni?

Riuscii ad abbassare la maniglia della stanza di Xavier grazie all'ausilio del gomito e, una volta entrata, trovai il suo occupante sdraiato a letto con lo sguardo fisso sul soffitto.

«Buonasera!», esclamai, inspirando a fondo l'odore di sandalo e cannella che riempiva l'ambiente, percependo istantaneamente un caldo languore diffondersi nel mio basso ventre.

Xavier sospirò, continuando a osservare un punto indefinito sopra alla sua testa: «Ciao, Diana».

Aveva un tono di voce pacato, quasi triste e all'istante persi tutto il mio buon umore.

«Stai bene?», gli chiesi, poggiando tazza e piattino sul comodino accanto a lui.

Sospirò di nuovo e posò lo sguardo su di me. 

I suoi occhi chiari mi guardavano come se non mi avessero mai visto prima, con circospezione e sospetto.

Mi sentii a disagio, ma cercai di non farglielo capire sfoggiando l'espressione più calma che possedessi.

Dopo pochi secondi smise di scrutarmi e tornò a fissare il soffitto.

C'era una tensione nell'aria che non riuscivo a comprendere; non riuscivo a identificarne l'origine e a stabilire a cosa fosse dovuta.

Alzai a mia volta lo sguardo, chiedendomi se la risposta a tutte le mie domande si trovasse sul soffitto con le travi a vista sopra di noi. 

«Non fuggi?», chiese, spezzando il silenzio pesante che si era creato.

«Vuoi che me ne vada?»

I nostri occhi s'incontrarono e lessi nei suoi un dolore che non riuscii a comprendere.

«Xavier...» iniziai, intenzionata a chiedergli spiegazioni, ma lui mi precedette: «Non voglio che tu ne vada, vorrei che mi dicessi la verità».

«La verità?», ripetei, aggrottando le sopracciglia confusa: «Su cosa?»

«Provi qualcosa per Michel Picard?»

Rimasi con la bocca socchiusa dalla sorpresa per qualche secondo, fissando i suoi occhi seri.

Pensai a due cose in quei pochi secondi; realizzai che doveva aver origliato ciò che era successo al piano di sotto poco prima, quando Michel era venuto a prendermi, ma soprattutto capii che quella tensione che percepivo nell'aria era gelosia.

Senza rendermene conto sorrisi.

Xavier distolse lo sguardo, scuotendo leggermente il capo: «Ridi di me?», il tono della sua voce era colmo di asprezza.

«No», lo rassicurai, sedendomi sul letto, così da diminuire la distanza tra di noi: «Rido della tua insensata gelosia».

Appoggiando una mano sul suo mento, gli spostai il capo e, una volta che riuscii ad incrociare nuovamente il suo sguardo, gli dissi: «Non provo nulla per Michel, è solo un amico».

Xavier annuì, lentamente, e un po' della tensione che c'era nell'aria scomparve.

Rimanemmo a fissarci brevemente, ognuno perso nei propri pensieri.

Quando mi resi conto di aver indugiato troppo a lungo con la mano sulla pelle del suo viso, mi scostai, scottata.

«Lo conosci da tanto?»

«Chi? Michel?», domandai, porgendogli la tazza di tè preparata da nonna.

Annuì, afferrando ciò che gli stavo porgendo con un sospiro: «Non ho mai bevuto così tanti tè e tisane in vita mia».

Il suo commento mi fece sorridere: «Nonna è una ferma sostenitrice del "un tè al giorno toglie il medico di torno"».

«Era una mela al giorno», disse, soffiando sul tè nel tentativo di farlo raffreddare: «Non hai risposto alla mia domanda».

«Lo conosco da anni, da quando la famiglia Picard è entrata a far parte del nostro branco. Michel è sempre stato il migliore amico di mio fratello e fin da piccoli giocavamo sempre insieme. Un tempo anche io e Francine eravamo amiche.»

«Poi cos'è successo?»

«Siamo cresciuti», mormorai, afferrando il piattino di biscotti dal comodino e poggiandolo sulle coperte tra di noi: «É successo gradualmente, giorno dopo giorno sentivo che Francine si stava allontanando sempre di più, ma non ho fatto nulla per trattenerla; non sapevo come fare».

Alzai lo sguardo, incontrando gli occhi attenti di Xavier.

«Con Michel invece... non ho mai pensato che potesse essere interessato a me in quel senso. In realtà non ho mai pensato che qualcuno potesse esserlo, non sono la classica bellezza occhi azzurri e...»

«É un maldestro tentativo per farmi dire che io ti trovo bella?»

Arrossii, e gli colpii la gamba col pugno chiuso, facendolo sbrodolare col tè che aveva ancora tra le mani.

Con gli occhi sbarrati dalla sorpresa e dal divertimento spostò lo sguardo dalle coperte bagnate al mio volto. Appoggiò il tè e il piattino di biscotti sul comodino, poi i suoi occhi tornarono su di me con un'intensità che faticai a sostenere

Si sollevò con una rapidità che non mi sarei mai aspettata da un convalescente, facendo scontrare le punte dei nostri nasi. I suoi occhi chiari, all'improvviso così vicini, erano macchie verdi sfocate, il suo odore così forte e afrodisiaco mi fece perdere il contatto con la realtà.

Le sue mani avvolsero il mio viso con delicatezza; l'imbarazzo e la rabbia che tendevano i miei lineamenti si dissiparono lasciandomi tremante in balia di Xavier.

«Hai davvero bisogno che te lo dica?», mi chiese in un sussurrò.

Le sue labbra sfioravano le mie, mentre le sue dita continuavano a vezzeggiare il mio viso.

No, non ne avevo bisogno, non quando mi guardava in quel modo, non quando eravamo così vicini e tutto quello che volevo era baciarlo, non quando il suo odore di sandalo era intensificato dal desiderio e le mani mi formicolavano dal desiderio di toccarlo a mia volta.

Mi sporsi in avanti, cancellando gli ultimi millimetri tra di noi, premendo con forza le labbra sulle sue.

Non rispose subito al bacio, lasciò che fossi io a dettarne il ritmo, probabilmente memore di come ero fuggita l'ultima volta che eravamo stati così vicini e lui aveva perso il controllo.

Quando interruppi il bacio, mettendo qualche centimetro tra le nostre bocche affamate, i nostri cuori battevano impazziti.

«Sei bella», mormorò con una punta di divertimento nei suoi occhi.

«Lo so», sbuffai e spostai le sue mani dal mio viso, spingendolo in modo da farlo tornare sdraiato sul letto. 

Il sorriso sulle sue labbra si allargò ulteriormente, contagiandomi.

«Ora tocca a me», dissi, pronta a cambiare argomento.

«Tocca a te?», ripetè, sollevando un sopracciglio, incuriosito.

«Cos'hai in quella borsa?», chiesi, indicando il borsone che si trovava ora accanto al suo letto, lo stesso borsone su cui mi ero interrogata per tutta la giornata, chiedendomi cosa potesse contenere.

Xavier sorrise, mostrando i suoi denti bianchi e le fossette sulle sue guance: «La curiosità uccise il gatto».

Sollevai gli occhi al cielo: «Dimmelo».

Annuì e si sporse per afferrare il borsone, poggiandolo accanto a sé sul letto, fece per aprirlo quando si bloccò, guardandomi con serietà: «Qua dentro c'è tutta la mia vita. Sei pronta?».
 

  
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