Fanfic su artisti musicali > Greta Van Fleet
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Autore: _Lisbeth_    16/03/2020    2 recensioni
Dal prologo:
"- E anche questa giornata di lavoro è giunta al termine. - la frase della dottoressa Warren fece annuire la giovane tirocinante, che raccolse tutte le sue cose dal divanetto e le sistemò nella borsa.
- A che ora dovrei venire, domani?
- Domani... - Danielle Warren si alzò dalla propria sedia e diede uno sguardo al calendario appeso alla parete, mettendosi in punta di piedi per poter vedere meglio. – Domani non abbiamo pazienti. Però ho una buona notizia da darti: da venerdì potrai tenere tu stessa le sedute."
"Jake prese un sorso dal bicchiere. – Perché sono qui?
- Perché sono il tuo numero di emergenza e ieri sera eri praticamente in coma etilico."
"- Jake. – la ragazza puntò gli occhi in quelli del fratello. – Ti rendi conto che è qualcosa che potrebbe aiutarti?
- No! – si alzò dalla panchina su cui era seduto e sbarrò gli occhi. – Come dovrebbe farmi stare meglio parlare con una persona che non ho mai visto dei cazzi miei? E’ come prostituire i propri neuroni."
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Jacob Kiszka, Nuovo personaggio
Note: OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Jake portò le mani sulla schiena della ragazza accarezzandole la pelle ambrata, il fiato corto gli usciva dalle narici dilatate mentre premeva le proprie labbra su quelle di lei. Con una fretta che quasi non gli apparteneva lasciò che le proprie dita si infilassero sotto al suo maglione, sfiorando ogni pezzo della sua pelle mentre la ragazza gli accarezzava gli zigomi sporgenti. Si staccarono per pochi attimi solo per permettere a Jake di sfilarle l’indumento, facendo incontrare la schiena della sua ragazza con il morbido materasso.
Jake approfittò di quell’istante per guardarla, osservarla in quella frazione di secondo che i loro sguardi riempirono come una mattinata.
Jita. Quella ragazza dolce e bellissima, quella di cui Jake si era innamorato dal primo momento, da quella prima volta in cui, dopo averla vista, si era fatto andare l’insalata di traverso, scaturendo la sua preoccupazione e facendo nascere, subito dopo, un sorriso sulle sue labbra piene.
E ora lei era lì proprio grazie alla pessima figura che il ragazzo aveva fatto due anni prima. Sotto il suo sguardo, con le guance brunite arrossate, gli occhi lucidi d’eccitazione e i capelli scuri e morbidi sparsi sul cuscino. E Jake, nel suo sguardo, vedeva tutto il disagio e la vergogna delle prima volte in cui avevano fatto l’amore sparire, sapendo quanta sicurezza avesse acquistato la ragazza anche grazie a lui e al suo modo di farla sentire.
Lui che, le sue insicurezze, le aveva sempre viste bellissime.
Jita diceva di odiare i suoi fianchi ampi, le sue forme generose, le gambe piene, la pancia non esattamente piatta e il corpo a forma di clessidra. Non le piacevano il colore della sua pelle, i suoi capelli spessi e i suoi piedi piccoli. Ma Jake, senza dire niente, con i suoi modi gentili e le sue carezze, aveva contribuito a farle acquisire molta più sicurezza. Certo, la sua immagine nello specchio non era esattamente ciò che avrebbe voluto vedere, ma quando era con lui si vedeva sempre bellissima.
Circondò le spalle del ragazzo con le braccia accarezzandogli la nuca, beandosi dei suoi baci e delle sue attenzioni.
- Ti amo.

- Come si chiamava la canzone che mi hai suonato ieri?
- Te ne ho suonate tante, amore.
- L’unica che non conoscevo! – Jita alzò lo sguardo su Jake continuando a sfiorargli la pelle chiara con movimenti circolari delle dita, facendo nascere un sorriso sulle labbra del suo ragazzo.
- Oh, quella che ti ha fatta piangere, dici?
- Stupido, stavo cercando di non dirtelo.
- Per questo te l’ho ricordato.
Jita sorrise e alzò gli occhi al cielo, sentendo le labbra di Jake posarsi sulla sua fronte.
- Si chiama “Riverside” ed è degli America. Le loro canzoni non sono molto conosciute, in effetti. – il ragazzo arruffò i capelli dell’indiana e le sorrise. Un sorriso che a Jita parve dolce come il miele, uno di quelli che solo Jake, raramente, sapeva fare. Era un sorriso timido, ma quando glielo rivolgeva le si illuminavano gli occhi proprio come a lui. La ragazza si strinse maggiormente al torace magro del musicista, sentendo il suo cuore battere forte. Il sorriso genuino di Jita si trasformò in un’espressione malinconica, triste. Perché sapeva che momenti come quello sarebbero potuti capitare nuovamente solo poche volte, o forse nessuna, e lei non poteva farci assolutamente nulla. Una lacrima le rigò la guancia e seppellì il viso nel collo del ragazzo, che piegò appena la testa per guardarla.
Come avrebbe potuto non accorgersene, dopotutto? Notava qualsiasi cosa. Ogni piccolo dettaglio. E a volte stava zitto, perché non sapeva cosa dire o per non peggiorare la situazione. Altre, invece, non riusciva a lasciar perdere, soprattutto se si trattava di persone come lei, e Jita l’aveva imparato anni prima.
Sentì le mani di Jake accarezzarle dolcemente i capelli scuri, percependo il suo sguardo su di sé.
- Jita? – lo udì sussurrare dolcemente.
Si affrettò ad asciugarsi le lacrime, traendo un respiro profondo e tirando le labbra in un sorriso. Sollevò la testa per guardarlo e scrollò le spalle.
- Ho ottenuto il posto a Cambridge.
Gli occhi di Jake si illuminarono e un enorme sorriso gli comparì sulle guance. Sapeva quanto Jita tenesse ad entrare in quell’Università, quanto amasse l’idea di poterne essere una studentessa e quanto avesse studiato per raggiungerla. Jita adorava la cultura, il contatto con la gente. E Jake non aveva mai visto una ragazza più sveglia ed intelligente di lei.
Il ragazzo la strinse forte a sé, baciandola con il cuore che gli batteva forte. Sentì Jita ridere contagiosamente e avvicinò le labbra al suo orecchio. – Non ne ho mai avuto il minimo dubbio.
E lei sapeva che l’avrebbe sostenuta. Glielo aveva promesso da subito e lui era stato la prima persona a cui l’aveva detto.
Solo che, in quel momento, Jita riusciva già a sentire la mancanza delle sue carezze, dei suoi baci, dei suoi abbracci e del suo odore. E le lacrime ricominciarono a scendere, copiose, in un pianto silenzioso e singhiozzato.
- Non voglio lasciarti.
Jake sentì il cuore sprofondare. Indubbiamente anche lui sapeva che ci sarebbe stato malissimo, ma sentire quelle parole lo faceva stare ancora peggio. Sospirò, accarezzando i capelli scuri della ragazza. – Guardami. Guardami, Jita.
Vide due occhi castani e lucidi sollevarsi e puntarsi nei suoi. Jake le rivolse un sorriso dolce, tranquillo, incoraggiante e le lasciò un bacio sulle labbra. - Io ti amo. Ti amo talmente tanto da essere pronto a vivere in un continente diverso dal tuo se so che sei felice e che stai bene, e non m’importa se mi mancherai da morire, non mi interessa se non potrò più sfiorarti. Non se questa vita non è quella che desideri. E per nessuna ragione al mondo potrò essere arrabbiato con te o darti la colpa per qualsiasi cosa. – si lasciò andare a una risata leggera. – Quindi, per ora tieni a bada i tuoi pensieri. Sentiti libera di fare ciò che vuoi, qualsiasi cosa. E quando sarai su quell’aereo, pensa che io sarò sempre dalla tua parte.



- Jita.
Jake non ebbe il tempo di dire nient’altro che sentì due braccia familiari avvolgergli il collo. Tanto familiari, troppo, nonostante non le sentisse sulla sua pelle da più di un anno. Appena l’aveva vista, dietro la sua porta, il cuore gli si era fermato per un momento. Bella, bellissima come la ricordava. Con l’unica differenza che l’effetto che gli faceva non era più lo stesso, ma non perché non le volesse bene o perché la sua opinione su di lei fosse cambiata. Forse, semplicemente, era lui a non essere più… Lui. A non essere più Jake.
Ricambiò l’abbraccio, chiedendosi perché fosse lì, perché non fosse in Inghilterra a coltivare il suo sogno. Non la vedeva e non la toccava da così tanto tempo, anche se ricordava tutto di quel giorno, ogni singolo istante che aveva passato con lei per l’ultima volta. Il suo profumo era lo stesso, i suoi capelli morbidi gli sfioravano il naso e le labbra.
E Jita, dal suo punto di vista, lo vedeva così diverso. Quel ragazzo in salute, dal sorriso genuino e gli occhi luminosi che ricordava aveva perso tutta la sua luce. Jake era magrissimo, pallido da far paura. Lo sguardo spento, i vestiti troppo larghi, il sorriso solo accennato che non nascondeva la sua sofferenza, che non privava lo sguardo di Jita del fardello che si portava dentro.
Appena aveva saputo della morte di Josh aveva cercato di essere più vicina possibile sia a lui che al resto della famiglia Kiszka, ma dall’appartamento i cui abitava, col mare che la divideva dalla città in cui aveva vissuto per anni, non aveva potuto fare molto.
Quello era stato l’unico momento di respiro che aveva trovato per prendere un aereo e tornare da Jake, avendo saputo da Veronica le condizioni del ragazzo e tutto ciò che stava passando.
Appena sciolse l’abbraccio gli sorrise. Un sorriso triste, preoccupato, malinconico. Gli aveva passato le dita sulla guancia ossuta e lo aveva visto sospirare, girarsi verso la piccola casa in cui aveva trascorso infanzia e adolescenza.
- Vuoi entrare? – aveva sussurrato il ragazzo con voce roca e flebile e Jita aveva annuito, seguendolo all’interno.

- Come stai, Jake?
Lo sguardo del ragazzo si fermò sul pavimento. Non avrebbe nemmeno potuto mentire, perché Jita lo avrebbe capito in ogni caso. Lo conosceva troppo, sapeva comprenderlo, sapeva capirlo. E averla accolta in casa dopo essere tornato da una seduta non lo aiutava a distrarsi molto.
“Diglielo, tira fuori qualcosa, anche minuscola. Liberati, sfogati”, si era suggerito prima di fare il proprio ingresso nello studio della dottoressa Ziegler. E invece, come sempre, non aveva detto nulla. Non aveva nominato Josh, né Sam. Zitto, muto. Con un nodo in gola che si era portato dietro.
Trasse un respiro e puntò gli occhi in quelli della ragazza, accennando appena un sorriso. – Io… Sono felice di rivederti.
Ed era vero, ne era felice. Lei gli era mancata e averla lì gli permetteva di prendere aria, di distrarsi un po’. Solo che vedere il suo sguardo triste, apprensivo e nervoso gli ricordava il motivo per cui Jita in quel momento non stesse ridendo con lui come succedeva l’anno prima.
La sentì sfiorargli il braccio dolcemente, la vide rilassare il viso tirato. – Sono tanto felice anch’io.
- Come… Come sta andando, a Cambridge? – il musicista si affrettò a cambiare argomento, sentendo la pressione aumentare.
- Bene. Devo dire, molto bene. – annuì la ragazza. – Gli esami procedono e i voti sono buoni. Certo, studio tanto, tantissimo. Però sto bene. Ho una coinquilina che però ti sarebbe stata davvero poco simpatica.
- Oh, davvero?
Jita rise appena, scrollando le spalle. – Non è decisamente il tuo tipo, già.
Gli occhi scuri della ragazza si puntarono nei suoi. Dolci, gentili. E Jake odiò non potersi godere quello sguardo appieno. Odiò il fatto di non riuscire più ad amarla.
Si erano lasciati il giorno in cui lei era andata via, lo avevano deciso insieme ma erano rimasti sempre in contatto, senza privarsi di fare nuove conoscenze. E se un giorno si fossero di nuovo incontrati, avrebbero potuto riscoprirsi.
E ora lei era lì, anche se non sapeva per quanto. Ma Jake non riusciva a provare niente se non un affetto smisurato per quella ragazza così forte e buona che per lui c’era sempre stata, anche a chilometri di distanza, che era tornata lì solo per fargli un po’ di compagnia.
- Tu sei già arrivato a stupire Eric Clapton con il tuo talento?
- I-io… - pensò all’SG rossa chiusa nella custodia. Pensò ai Greta Van Fleet, alle proprie dita sullo strumento che era diventato parte di sé, all’amore per la chitarra che lo aveva accompagnato fin da bambino e che lo aveva fatto suonare fino a farsi sanguinare le dita. Alle prove con Josh, Danny e Sam.
A quante volte aveva suonato per Jita.
Strinse gli occhi e ingoiò il nodo che aveva in gola. – Io non… Non suono più, Jita.
La ragazza aggrottò la fronte. – Che vuoi dire?
- Non prendo la chitarra dal giorno prima che Josh morisse.


Jake sistemò meglio la chitarra che aveva sulle proprie gambe, l’acustica che Josh gli aveva regalato anni prima. Guardò il ragazzo riverso nel letto e gli accarezzò lievemente le dita, sporgendosi oltre il proprio strumento musicale.
“Se potessi fare una cosa per tutta la vita, sarebbe sentirti suonare”, gli aveva detto Josh un giorno, sdraiato con le mani dietro alla testa su un amaca all’ombra di un albero.
E Jake pensava sempre a quella frase, ogni volta che entrava in ospedale con la chitarra sulle spalle. Suonava piano, con delicatezza e dolcezza, come se quasi avesse paura di svegliarlo, nonostante in realtà fosse l’unica cosa che desiderava.
Josh avrebbe aspettato che finisse - magari con una canna in bocca - e poi gli avrebbe sorriso. E in quel sorriso Jake ci avrebbe visto ogni sua emozione. Avrebbe visto l’orgoglio di suo fratello, quello che più lo rendeva fiero di sé.
Jake respirò profondamente, posizionando le dita sottili e lo sguardo stanco sulla tastiera. Fece pressione sulle corde, stringendo gli occhi lucidi,
- Because I’m still in love with you. – intonò con voce tremante, cambiando la posizione delle dita sulla chitarra.
- I want to see you dance again. – un singhiozzo scosse il petto di Jake.
- Because I’m still in love with you, on this harvest moon. – e quando i singhiozzi non gli permisero più di cantare lasciò la chitarra appoggiata al muro, afferrò saldamente la mano del gemello e si lasciò andare sul petto di Josh, bagnandogli il pigiama con le proprie lacrime.
Avevano suonato insieme quella canzone per anni, appena scoccavano le dieci e mezza della sera del ventitré Aprile, l’orario in cui erano nati. Karen la cantava spesso quando erano piccoli per farli addormentare. E non poter sentire la voce di Josh insieme alla sua faceva male ed era così strano.
Era come se lo avesse abbandonato senza volerlo. Ma Jake sapeva che Josh non lo avrebbe mai lasciato da solo.
Quando da bambino piangeva, urlava e strappava le pagine dei libri dopo aver tentato svariate volte di riuscire a battere la propria dislessia Josh lo guardava, lo aiutava a raccogliere i pezzi di carta sparsi sul pavimento e lo tranquillizzava, leggendogli piano le frasi e indicando pazientemente ogni lettera. Non importava quanto tempo ci avrebbe perso. L’importante era che Jake sarebbe stato più sicuro, il giorno dopo a scuola.
Ricordò di quando, a dieci anni, i compagni di classe lo avevano preso in giro per la sua lentezza nella lettura di un brano e Josh aveva fatto finta di cadere dalla propria sedia, attirando l’attenzione su di sé per difenderlo.
E ora lui non poteva fare niente per far stare meglio Josh. Non poteva fare assolutamente niente.
Perché il coma non era un bulletto di una scuola elementare. E, di certo, non lo era nemmeno la morte.
Jake pianse fino a non avere più voce né fiato. Strinse le dita di Josh fino a vedere le proprie nocche diventare bianche.
Ed ebbe paura che sarebbe rimasto senza di lui, solo con la sua dislessia e con i bulli. Con il buio e i mostri che ci si nascondevano.
Però Josh si sarebbe svegliato.
Sarebbe tornato da lui e lo avrebbe protetto da tutto.




- Pronto?
- Piper, Piper ciao. Sono… Tracy – la ragazza respirò profondamente stringendo forte il cellulare. Appena Maggie sentì quel nome aggrottò la fronte e fissò la coinquilina, mimando con le labbra un “chi cazzo è Piper?”
Tracy la liquidò con un gesto della mano e la ragazza sbuffò pesantemente, allargando le braccia e sbattendole poi contro i fianchi.
La giovane psicologa sentì un silenzio tombale dall’altra parte del telefono per circa trenta secondi. Passati i trenta secondi, sentì un sussurro che, però, riuscì ad udire benissimo: - Ma guarda tu ‘sta stronza.
Tracy arricciò le labbra e lasciò cadere le spalle. – Avresti dovuto allontanare un po’ il telefono.
- Ma Tracy chi?
- Tracy Ziegler.
- Ah, sei "nome di merda" .
Altri trenta secondi di silenzio. Questa volta da parte di Tracy.
- Guarda, potrei chiamarti troia tante volte quanto potresti tu.
- Non ho alcuna intenzione di darti della troia. – sospirò Tracy incrociando le braccia al petto.
Vide l’espressione di Maggie farsi ancora più confusa.
- E allora che vuoi?
- Ricordi quando mi hai dato il tuo numero di telefono, dicendomi di chiamarti appena quell’idiota si fosse ripresentato alla mia porta?
- Non credo di essere diventata già così vecchia da non riuscire a ricordarmelo.
- Bene. E’ successo.
- …
- Piper?
- Posso dirti che sei una cretina?
- Be’, non è proprio carino ma se ne hai questo bisogno impellente credo che…
- Se mi dici dove abiti, sarò lì in cinque minuti.


Lo schiaffo le arrivò dritto sulla guancia e sentì un dolore bruciante sulla pelle chiara. Vide due occhi azzurri e quasi feroci fissarla che, anche se ora riusciva a vedere e a capire qualcosa di ciò che la circondava, certamente non la fecero sentire granché meglio.
- Svegliati, Cristo! Reagisci, non sono un fantasma. Non sono Alex. – la voce quasi adulta della ragazza davanti a sé la fece tornare con i piedi per terra e la vide protendere una mano verso di lei.
Si rese conto di essere seduta sul marciapiede dell’università e di avere le braccia strette attorno alle ginocchia.
L’aveva rivista dopo solo una settimana per la seconda volta, quella ragazza di cui fino a pochi giorni prima non conosceva il viso, di cui ancora non conosceva il nome e questo, su di lei, non aveva fatto un effetto particolarmente gradito. Guardò titubante quella mano, decisa a non prenderla.
Vide la ragazza sbuffare. – Muoviti, non ti butterò addosso dell’acido.
Tracy tenne lo sguardo fermo su quel palmo e, dopo interminabili istanti, lo afferrò. Si sentì tirare su da terra e percepì un dolore acuto alle ginocchia mentre si rimetteva in piedi.
La ragazza dagli occhi azzurri le strinse la mano, per poi lasciarla e incrociare le braccia al petto. – Sono Piper.
- Non… Non mi interessa. – Tracy deglutì, allontanando lo sguardo.
“Piper” sollevò le sopracciglia e storse il naso. – Come ti pare. Però mi piacerebbe sapere che la tizia con cui sono stata tradita abbia almeno un bel nome.
- Tracy. Mi chiamo Tracy.
- Che nome di merda.
La studentessa alzò gli occhi sulla ragazza. La analizzò meglio, cosa che non aveva avuto la forza di fare la settimana prima. Non che in quel momento fosse particolarmente allegra.
Indossava un giubbotto di jeans grigio, pantaloni militari e anfibi neri. Gli occhi color azzurro ghiaccio che le erano a primo impatto sembrati gelidi in quel momento le apparivano annoiati e incuranti, ma un attimo prima quasi allarmati. I capelli lunghissimi e neri erano appena mossi e la ragazza era ancor più alta di come Tracy ricordasse. Il corpo era atletico e snello, le sopracciglia folte facevano sembrare ancora più intenso il suo sguardo. Nonostante l’aria aggressiva era di una bellezza disarmante, e nonostante Tracy avesse acquisito negli anni molta sicurezza in se stessa, davanti a Piper si sentiva tremendamente piccola. E non solo per la propria statura.
- Dovresti ringraziarmi, “nome di merda”. Sei scivolata sul pavimento letteralmente terrorizzata. Sembrava avessi visto Stalin.
- Non… Non potevi cercare un paragone più…
- Ascolta, studio statistica, non lettere.
- Cosa c’entra lettere?
- Mio Dio, ma che palle. – sbuffò Piper. – Su, ti accompagno a casa. Avrai le gambe molli come gelatina.
Tracy aggrottò la fronte, convinta di aver capito male. Alzò le mani all’altezza delle spalle. – No, non ho bisogno di essere accompagnata da nessuna parte. E poi sei l’amante del mio ex. Potresti potenzialmente essere una psicopatica e…
Sentì le mani della ragazza posarsi sulle proprie spalle e vide gli occhi chiari puntarsi nei suoi. – Che studi?
- Che…
- Non ho tutto il tempo, smettila di fare domande!
- Ma me l’hai fatta tu!
- Non si risponde con una domanda ad una domanda.
La studentessa batté le ciglia un paio di volte, per poi sospirare. – Psicologia.
- Ecco, bene, lo avevo capito. – Piper arricciò le labbra e si morse quello inferiore. – Dammi il tuo telefono.
- Ma che stai dicendo?
- Allora dammi un cazzo di foglio e una matita!
- Sono nel mio zaino. Ce lo hai tu.
Piper puntò lo sguardo in basso a destra, piegandosi per prendere lo zaino marroncino dal marciapiede. Lo aprì e ne estrasse una penna e un blocco a caso, scribacchiandoci sopra qualcosa che Tracy non riuscì a vedere. Quando rimise tutto al proprio posto la guardò porgendole lo zaino. – Ti ho scritto il mio numero, sulla prima pagina. E appena Alex si ripresenterà alla tua porta, chiamami.
Alla ragazza sembrò la cosa più assurda che le sue orecchie avessero mai sentito. La ragazza con cui il suo ex la tradiva le aveva detto una frase del genere, seriamente?
- E io dovrei fidarmi di te?
- TI ricordo che anche io non ero a conoscenza di nulla. Quindi, dovrei avercela con te quanto tu ce l’hai con me.
- Vorresti farlo per far in modo che lui non si ripresenti alla mia di porta, ma alla tua? Complimenti, davvero un ragionamento che fa onore.
- Ma che cazzo dici? – sbuffò Piper. – Non è niente contro di te. Può essere solo contro quel cretino.
- Non ti conosco, non so chi tu sia.
- Fai quello che ti pare. – la ragazza scrollò le spalle e girò i tacchi. – Se però un giorno sarai curiosa di sapere che cos’ho in testa, il numero è lì dentro.



I capelli di Piper erano molto più corti di come ricordava. Le arrivavano alle spalle, le punte erano ondulate e voluminose. La maglia bianca a maniche corte la slanciava ancora di più, abbinata ai jeans blu a zampa che le avvolgevano le gambe. Guardava il cellulare appoggiata alla propria bicicletta, sbuffando di tanto in tanto.
La giovane psicologa infilò gli occhiali da sole e attraversò la strada che divideva i due marciapiedi, raggiungendo la ragazza. Sorrise, guardandola attraverso la montatura. - Ti ho fatta aspettare?

Una volta arrivata sotto l’edificio di Alex, Tracy vide gli occhi azzurri di Piper guardare i propri e la osservò mentre infilava il telefono nelle tasche. – Io e te siamo lesbiche.
Per la seconda volta, Tracy fu convinta di aver capito male dopo una frase della ragazza. Aggrottò la fronte, inclinando la testa da un lato. – Come?
- Sì, siamo lesbiche. Almeno per oggi.
- Ma che significa? E perché siamo qui?
- Perché questo qua è un mammone e ogni domenica sera la passa da mamma e papà.
La ragazza iniziò a farsi più sempre più domande. E lì capì che, con Piper, farsi domande era abbastanza inutile.
Infilò le dita tra i ricci castani e sospirò, quasi rassegnata. – Perché dovremmo essere…
Sentì la ragazza urlare, gridare talmente forte da spaventare persino un gatto sul marciapiede di fronte. E, ovviamente, tutte le finestre degli edifici si spalancarono, rivelandone i proprietari. Tra cui Alex e i genitori di Alex. E il cane di Alex.
Tracy si sentì afferrare con forza per la giacca, strabuzzò gli occhi sempre più stupita e non ebbe nemmeno il tempo di muoversi e di domandarsene il perché che sentì le labbra fresche di Piper premersi sulle sue, sotto gli occhi di tutto il quartiere.
E, soprattutto, sotto gli occhi di Alex.
 
   
 
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