Capitolo 24
Nell’abbraccio del nemico
Prima parte
- “Non mi lasciare.” -
“Che hai, che abbiamo,
che ci accade? Ahi il nostro amore è una corda dura che ci lega ferendoci
e se vogliamo uscire dalla nostra ferita, separarci, ci stringe un nuovo nodo e
ci condanna a dissanguarci e a bruciarci insieme.”
Pablo Neruda, I versi
del capitano
Immagine dal film “L’amore
oltre la guerra”
Sarah sentì gli occhi inondarsi di lacrime,
mentre un tremore improvviso e incontrollabile le percorreva tutto il corpo,
arrivando fino all’anima. Quale nome le sue labbra avevano pronunciato? Quale
gesto la sua mano aveva compiuto? Attraverso il velo di un pianto frenato a
stento sotto le ciglia incurvate dal rimmel, guardava Matteo trattenere la mano
sulla guancia che gli aveva colpito e, nonostante la sua visuale fosse
offuscata, riuscì a scorgerne in volto l’espressione di sbigottimento. Con uno
schiaffo, reazione inconscia e violenta, aveva ricambiato le effusioni amorose
del suo futuro sposo e i suoi sacrifici per finire i lavori di ristrutturazione
della casa in tempo per il matrimonio, il sonno arretrato, i pasti saltati; con
il nome di un altro, ricordo assopito nel cuore e riemerso dalla mente, aveva
chiamato l’uomo che amava e che contraccambiava il suo amore, coronando il suo
sogno e scegliendola come sposa, malgrado il suo passato. I sensi di colpa le
strinsero il petto come una morsa, mentre si domandava cosa stesse provando
Matteo in quel momento. Immaginò che dietro il suo sguardo stupito si
nascondesse una profonda delusione e che la sua immobilità preannunciasse un
moto di rabbia. Comprensibile, dato il trattamento ricevuto, pensò ed ebbe
paura. La stessa paura che attanagliava lo stomaco del giovane, vorticando
attorno a quel senso di vuoto che gli trasmetteva la perseverante fissità degli
occhi umidi e del corpo tremante di Sarah. Era la paura di aver perso il cuore
della persona amata.
Nella mente di
Matteo, profondamente turbato da quel nome da straniero con il quale dalla sua
donna era stato chiamato, un pensiero affiorò e le due terre dei suoi occhi
iniziarono a bagnarsi di una pioggia di lacrime. Forse quel tedesco non le
aveva circuito soltanto il corpo ma anche la mente e il cuore, facendola
innamorare e legandola a sé in un rapporto più intimo che andava al di là del
suo appagamento fisico tanto da farsi chiamare per nome e dare del tu. Per un
attimo, gli sembrò di vedere l’intreccio dei loro corpi nudi muoversi alle note
armoniche del desiderio e le espressioni di piacere avvicendarsi sul viso della
sua Sarah e rabbrividì, immaginando che una parte di lei fosse ancora tra
quelle lenzuola, consenziente e voluttuosamente partecipe, nell’abbraccio del
nemico. La sentì più lontana e, mentre toglieva la mano dalla guancia, la fuga
di Sarah in cucina confermò la sua sensazione, concretizzandola.
“Sarah”, la chiamò
in un sussurro, mentre lei fuggiva per nascondersi ai suoi occhi velati di
pianto trattenuto e alla vergogna per averlo in qualche modo tradito, pensando
e nominando Hermann.
La seguì in cucina
e, a ogni passo, si scuoteva dalla mente l’immagine di Sarah che i suoi
pensieri avevano vergognosamente deformato. La guardò poggiare le mani sul
tavolo e piegarsi sofferente e si sentì in colpa, convincendosi che la sua
eccessiva insistenza le avesse ricordato la violenza subita da quel nazista con
il quale aveva soltanto stipulato un vile e freddo compromesso per la
sopravvivenza, nient’altro.
E, intanto, Sarah
chiuse le mani a pugno e, in un moto di rabbia verso se stessa, le sbatté su
quel tavolo attorno al quale non avrebbe mai mangiato con il suo sposo, ne era
dolorosamente certa. Due colpi simultanei, non troppo forti ma sufficienti a
far sobbalzare il vassoio e rovesciare la tazzina; poi un singhiozzo strozzato
le sfuggì dalla gola, liberando un pianto disperato.
“Sarah”, la chiamò
ancora, preoccupato per il gesto di stizza e mortificato per le lacrime da lui
provocate, “amore mio.” La voce gli si strozzò in gola, mentre le sue braccia
avrebbero voluto protendersi verso di lei, quando le fu ormai vicino.
“Perdonami”,
biascicò Sarah, con la voce spezzata dal pianto, asciugandosi il viso con il
dorso della mano e tenendo lo sguardo basso sul vassoio.
“No, perdonami tu.
Sono stato un idiota, n’omm ’e nient[1]”, ribatté Matteo
e, intanto, la ragazza, estremamente provata, tolse anche l’altra mano dal
tavolo e gli si fece davanti.
Senza sfiorarla,
avvicinò le mani alle sue braccia e fu lei a cercare rifugio sul petto del suo
amato. La strinse a sé, accogliendone il pianto che riprese diventando sempre
più convulso.
“No, non devi
piangere più. Non te lo meriti”, le disse e deglutì per trattenere la
commozione, mentre sentiva il proprio cuore battere all’unisono con i suoi
singhiozzi. Non l’avrebbe persa.
Un braccio le
cingeva i fianchi e una mano sulla nuca le teneva ferma la testa scossa dai
forti singhiozzi. Il cuore di Matteo batteva all’impazzata sotto quella camicia
già inzuppata delle sue lacrime e imbrattata di rimmel.
“Non mi lasciare”,
gli chiese, ancora avvinta dalla paura di perderlo e lui la strinse più forte,
avvicinando la guancia alla sua e affondando le labbra nei suoi capelli.
“Chi ti lascia, Sarah?
Chi ti lascia?” rispose e una lacrima sfuggì a rigargli l’altra guancia.
Campo di Fossoli, 20 febbraio 1944
~ Due giorni alla partenza per Auschwitz ~
Il sottoufficiale
terminò la lettura della lista e sovrappose bene i fogli, prima di
riconsegnarli al suo superiore con un battito di tacchi e il saluto nazista. Il
nome di Sarah non era stato pronunciato, ma lei non ne provò alcun sollievo. Al
contrario, si sentì stringere il petto in una morsa di ferro e una grossa
lacrima le scivolò lenta lungo la guancia livida per gli schiaffi e un po’
arrossata dal freddo, mentre guardava il tenente riprendere la lista e scendere
solennemente i gradini di quel palco improvvisato per l’annuncio nefasto. Esser
stata risparmiata dalla deportazione ad Auschwitz e, probabilmente, dalla morte
non la faceva sentire una privilegiata ma doppiamente condannata, al dolore per
la perdita delle persone e dei bambini con i quali aveva legato e
all’umiliazione per il disconoscimento di se stessa e dei suoi valori più
profondi, al tormento della solitudine e del vuoto per l’orizzonte di un futuro
che non riusciva più a intravedere davanti a sé. E quelle catene, che già da prima la tenevano
prigioniera, la strinsero così forte tanto da smorzarle il respiro e
paralizzare ogni fibra del suo corpo, ad eccezione degli occhi che, atterriti,
seguirono i passi del tenente fin dentro l’edificio occupato dai tedeschi. A
lui sarebbe stata per sempre vincolata; le sue mani sarebbero state i duri
lacci di una prigionia senza fine, obbligandola a ciò che lei non voleva.
Ritornò in sé e distolse bruscamente lo sguardo verso un punto indefinito, mentre
Maria – con in braccio il piccolo Giulio – e Davide, come tutti gli altri
prigionieri, si voltarono a testa bassa per tornare lentamente nella baracca e
prepararsi alla partenza. Rimase ferma lì
ancora per un po’, da sola, circondata da un tetro silenzio, spezzato soltanto
dal rumore di passi trascinati, a cercare dentro se stessa la forza per non
soccombere.
Durante tutto il
giorno, Sarah costrinse il suo cuore a diventare come pietra per non cedere
all’angoscia per l’imminente separazione dai suoi nuovi affetti e, nonostante
non avesse appetito, si sforzò di mangiare. Non avrebbe dato al tenente la
soddisfazione di sentire il suo stomaco brontolare, com’era già successo e,
quando in cucina una cuoca le diede una mela, mangiò assaporando addirittura il
gusto e riuscì anche a sorridere a una battuta di una cameriera. Ma la
determinazione che Sarah si era imposta ridivenne disperazione, quando su
Fossoli calarono le ombre scure della notte e lei dovette attraversare il lungo
corridoio che conduceva alla stanza del tenente. La porta socchiusa, la luce
soffusa: lui era già lì.
“E se il nostro poi
non fosse amore, giuro,
io non ti lascerei.
Se pensassi che di me
non te ne importa niente.
Anche se non fossi un angelo
io non ti cambierei.
Perché sei bella, bella, bella,
bella come sei,
sei bella come ti vorrei.”
Antonello Venditti, Che tesoro che sei