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Autore: Nadine_Rose    21/03/2020    2 recensioni
Sarah ed Hermann sono rispettivamente due tra le tante vittime e i tanti carnefici nell’ora più buia della storia dell’umanità. Il campo di Fossoli, anticamera dell’inferno nazista, sarà la loro comune e perenne prigione d’amore malato.
Matteo, un giovane pescatore, sarà colui che proverà a sciogliere il cuore di Sarah dalle catene del tenente Hermann, nello speranzoso e disperato scenario del dopoguerra napoletano.
[Capitolo 65: Un amore a Fossoli]
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Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Olocausto, Dopoguerra
Capitoli:
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Capitolo 24

 

Nell’abbraccio del nemico

 

Prima parte

 

- “Non mi lasciare.” -

 

“Che hai, che abbiamo, che ci accade? Ahi il nostro amore è una corda dura che ci lega ferendoci e se vogliamo uscire dalla nostra ferita, separarci, ci stringe un nuovo nodo e ci condanna a dissanguarci e a bruciarci insieme.”

Pablo Neruda, I versi del capitano

 


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Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”

 

Sarah sentì gli occhi inondarsi di lacrime, mentre un tremore improvviso e incontrollabile le percorreva tutto il corpo, arrivando fino all’anima. Quale nome le sue labbra avevano pronunciato? Quale gesto la sua mano aveva compiuto? Attraverso il velo di un pianto frenato a stento sotto le ciglia incurvate dal rimmel, guardava Matteo trattenere la mano sulla guancia che gli aveva colpito e, nonostante la sua visuale fosse offuscata, riuscì a scorgerne in volto l’espressione di sbigottimento. Con uno schiaffo, reazione inconscia e violenta, aveva ricambiato le effusioni amorose del suo futuro sposo e i suoi sacrifici per finire i lavori di ristrutturazione della casa in tempo per il matrimonio, il sonno arretrato, i pasti saltati; con il nome di un altro, ricordo assopito nel cuore e riemerso dalla mente, aveva chiamato l’uomo che amava e che contraccambiava il suo amore, coronando il suo sogno e scegliendola come sposa, malgrado il suo passato. I sensi di colpa le strinsero il petto come una morsa, mentre si domandava cosa stesse provando Matteo in quel momento. Immaginò che dietro il suo sguardo stupito si nascondesse una profonda delusione e che la sua immobilità preannunciasse un moto di rabbia. Comprensibile, dato il trattamento ricevuto, pensò ed ebbe paura. La stessa paura che attanagliava lo stomaco del giovane, vorticando attorno a quel senso di vuoto che gli trasmetteva la perseverante fissità degli occhi umidi e del corpo tremante di Sarah. Era la paura di aver perso il cuore della persona amata.

Nella mente di Matteo, profondamente turbato da quel nome da straniero con il quale dalla sua donna era stato chiamato, un pensiero affiorò e le due terre dei suoi occhi iniziarono a bagnarsi di una pioggia di lacrime. Forse quel tedesco non le aveva circuito soltanto il corpo ma anche la mente e il cuore, facendola innamorare e legandola a sé in un rapporto più intimo che andava al di là del suo appagamento fisico tanto da farsi chiamare per nome e dare del tu. Per un attimo, gli sembrò di vedere l’intreccio dei loro corpi nudi muoversi alle note armoniche del desiderio e le espressioni di piacere avvicendarsi sul viso della sua Sarah e rabbrividì, immaginando che una parte di lei fosse ancora tra quelle lenzuola, consenziente e voluttuosamente partecipe, nell’abbraccio del nemico. La sentì più lontana e, mentre toglieva la mano dalla guancia, la fuga di Sarah in cucina confermò la sua sensazione, concretizzandola.

“Sarah”, la chiamò in un sussurro, mentre lei fuggiva per nascondersi ai suoi occhi velati di pianto trattenuto e alla vergogna per averlo in qualche modo tradito, pensando e nominando Hermann.

La seguì in cucina e, a ogni passo, si scuoteva dalla mente l’immagine di Sarah che i suoi pensieri avevano vergognosamente deformato. La guardò poggiare le mani sul tavolo e piegarsi sofferente e si sentì in colpa, convincendosi che la sua eccessiva insistenza le avesse ricordato la violenza subita da quel nazista con il quale aveva soltanto stipulato un vile e freddo compromesso per la sopravvivenza, nient’altro.

E, intanto, Sarah chiuse le mani a pugno e, in un moto di rabbia verso se stessa, le sbatté su quel tavolo attorno al quale non avrebbe mai mangiato con il suo sposo, ne era dolorosamente certa. Due colpi simultanei, non troppo forti ma sufficienti a far sobbalzare il vassoio e rovesciare la tazzina; poi un singhiozzo strozzato le sfuggì dalla gola, liberando un pianto disperato.

“Sarah”, la chiamò ancora, preoccupato per il gesto di stizza e mortificato per le lacrime da lui provocate, “amore mio.” La voce gli si strozzò in gola, mentre le sue braccia avrebbero voluto protendersi verso di lei, quando le fu ormai vicino.

“Perdonami”, biascicò Sarah, con la voce spezzata dal pianto, asciugandosi il viso con il dorso della mano e tenendo lo sguardo basso sul vassoio.

“No, perdonami tu. Sono stato un idiota, n’omm ’e nient[1]”, ribatté Matteo e, intanto, la ragazza, estremamente provata, tolse anche l’altra mano dal tavolo e gli si fece davanti.

Senza sfiorarla, avvicinò le mani alle sue braccia e fu lei a cercare rifugio sul petto del suo amato. La strinse a sé, accogliendone il pianto che riprese diventando sempre più convulso.

“No, non devi piangere più. Non te lo meriti”, le disse e deglutì per trattenere la commozione, mentre sentiva il proprio cuore battere all’unisono con i suoi singhiozzi. Non l’avrebbe persa.

Un braccio le cingeva i fianchi e una mano sulla nuca le teneva ferma la testa scossa dai forti singhiozzi. Il cuore di Matteo batteva all’impazzata sotto quella camicia già inzuppata delle sue lacrime e imbrattata di rimmel.

“Non mi lasciare”, gli chiese, ancora avvinta dalla paura di perderlo e lui la strinse più forte, avvicinando la guancia alla sua e affondando le labbra nei suoi capelli.

“Chi ti lascia, Sarah? Chi ti lascia?” rispose e una lacrima sfuggì a rigargli l’altra guancia.

 

Campo di Fossoli, 20 febbraio 1944

~ Due giorni alla partenza per Auschwitz ~

 

Il sottoufficiale terminò la lettura della lista e sovrappose bene i fogli, prima di riconsegnarli al suo superiore con un battito di tacchi e il saluto nazista. Il nome di Sarah non era stato pronunciato, ma lei non ne provò alcun sollievo. Al contrario, si sentì stringere il petto in una morsa di ferro e una grossa lacrima le scivolò lenta lungo la guancia livida per gli schiaffi e un po’ arrossata dal freddo, mentre guardava il tenente riprendere la lista e scendere solennemente i gradini di quel palco improvvisato per l’annuncio nefasto. Esser stata risparmiata dalla deportazione ad Auschwitz e, probabilmente, dalla morte non la faceva sentire una privilegiata ma doppiamente condannata, al dolore per la perdita delle persone e dei bambini con i quali aveva legato e all’umiliazione per il disconoscimento di se stessa e dei suoi valori più profondi, al tormento della solitudine e del vuoto per l’orizzonte di un futuro che non riusciva più a intravedere davanti a sé. E quelle catene, che già da prima la tenevano prigioniera, la strinsero così forte tanto da smorzarle il respiro e paralizzare ogni fibra del suo corpo, ad eccezione degli occhi che, atterriti, seguirono i passi del tenente fin dentro l’edificio occupato dai tedeschi. A lui sarebbe stata per sempre vincolata; le sue mani sarebbero state i duri lacci di una prigionia senza fine, obbligandola a ciò che lei non voleva. Ritornò in sé e distolse bruscamente lo sguardo verso un punto indefinito, mentre Maria – con in braccio il piccolo Giulio – e Davide, come tutti gli altri prigionieri, si voltarono a testa bassa per tornare lentamente nella baracca e prepararsi alla partenza. Rimase ferma lì ancora per un po’, da sola, circondata da un tetro silenzio, spezzato soltanto dal rumore di passi trascinati, a cercare dentro se stessa la forza per non soccombere.

 

Durante tutto il giorno, Sarah costrinse il suo cuore a diventare come pietra per non cedere all’angoscia per l’imminente separazione dai suoi nuovi affetti e, nonostante non avesse appetito, si sforzò di mangiare. Non avrebbe dato al tenente la soddisfazione di sentire il suo stomaco brontolare, com’era già successo e, quando in cucina una cuoca le diede una mela, mangiò assaporando addirittura il gusto e riuscì anche a sorridere a una battuta di una cameriera. Ma la determinazione che Sarah si era imposta ridivenne disperazione, quando su Fossoli calarono le ombre scure della notte e lei dovette attraversare il lungo corridoio che conduceva alla stanza del tenente. La porta socchiusa, la luce soffusa: lui era già lì.

 

“E se il nostro poi
non fosse amore, giuro,
io non ti lascerei.
Se pensassi che di me
non te ne importa niente.

Anche se non fossi un angelo
io non ti cambierei.
Perché sei bella, bella, bella,
bella come sei,
sei bella come ti vorrei.”

 

Antonello Venditti, Che tesoro che sei

 

 



[1]Un uomo che non vale nulla.

 

   
 
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