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Autore: manpolisc_    22/03/2020    17 recensioni
•Primo libro della trilogia•
Sharon Steel è una ragazza di diciassette anni che vive a Ruddy Village, una cittadina tra il Nevada e la California. La sua vita non è mai stata semplice: è stata definita pazza per le cose che vede e alle quali la gente non crede, che l'hanno portata a sentirsi esclusa. Solo l'arrivo di una persona come lei riuscirà a farle capire di non essere sbagliata, ma solo diversa. Scoprirà la sua vera natura e dovrà decidere del proprio destino.
Dal testo:
- È solo un bicchiere che è caduto. - Mormoro. Mi guarda, accennando un sorriso divertito.
- E la causa della sua caduta è solo qualcosa alle tue spalle, che brancola nel buio, pronto ad ucciderti. -
Genere: Azione, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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Capitolo 1

Sento il rumore dei suoi passi. È una donna: ne sono certa. Si sta avvicinando velocemente. Fuori il tempo non è dei migliori, sebbene siano i primi giorni di giugno. Nuvoloni grigi si avvicinano frettolosamente, impazienti di liberarsi di un peso più grande di loro. Ogni tanto un lampo illumina l'oscuro cielo e l'intera cittadina. Un tuono esplode subito dopo. Un forte vento si è alzato e costringe le foglie degli alberi a una violenta danza. Le sbatte in ogni direzione, staccandole dai rami e trascinandole in luoghi lontani. Un altro fulmine, un altro tuono, la prima goccia. È tutto in movimento mentre un altro lampo squarcia il cielo. Un'ombra appare sul marciapiede. La mia ipotesi è corretta. Sorrido dietro il vetro: è una bella donna, sicuramente slanciata. La sua attenzione è catturata da qualcosa di estraneo alla mia vista. Indossa un grosso cappello rosa abbinato al vestito. La pioggia inizia a farsi più insistente ed è costretta ad aprire l'ombrello. Una folata di vento la costringe a girarsi. Si tiene il cappello ben stretto in testa per non farlo volare via mentre osserva la grande casa in cui vivo. Per un breve attimo incontro il suo sguardo: capisco dal modo in cui serra le labbra, dal suo sguardo e dal tremolio delle mani che è curiosa, ma allo stesso tempo spaventata da cosa nasconda l'edificio che ha di fronte. Non so perché sia spaventata. La casa è normale, come qualunque edificio in città. È un po' vecchia, costruita con mattoni antichi. Forse questo senso di antichità le dà un'aria sinistra. Il giardino è pieno di vasi con diversi tipi di fiori, anche loro scossi dal vento. Un vaso è perfino caduto. Chiudo gli occhi, concentrandomi su quella donna. Intorno a me è calato un silenzio disumano, come se mi trovassi nel nulla. Dopo un po' sento un cuore battere, non il mio, della donna. Sta scappando, lo sento. Un secondo cuore pulsante si unisce al primo. È molto vicino, è lì, è...
- Sharon! - La voce di mia madre, Taylor, mi fa sussultare. Ritorno alla realtà. Risento tutti i suoni intorno: l'orologio che batte le 20:45, il vento che urla, i tuoni fuori, il mio cuore battere.
- Cosa c'è? Mi hai fatto prendere un colpo... - Ritorno a guardare fuori dalla finestra. La donna è scomparsa e al suo posto le gocce di pioggia cadono furiosamente sull'asfalto, sugli alberi, sulle case. Perfino la sua ombra sul cemento non è più delineata dai costanti lampi. Guardo le goccioline sul vetro gareggiare verso il basso. Quelle che non ce la fanno da sole si legano tra di loro, diventando grandi, forti e veloci. Mi ricordano tanto le persone. Le piante nel giardino si muovono fortemente, seguendo la direzione del vento. Ora non c'è più nessuno in strada. La vicina appare dietro la finestra, spostando le tende rosa. Guarda fuori e sospira tristemente. È brutto un tempo così quando è giugno e l'unica cosa che si vorrebbe fare è rilassarsi al sole. Ma forse a lei non interessa l'abbronzatura, bensì i suoi gerani. Quando il tempo migliora, avrà un bel lavoro da fare. Sono tutti caduti e molti di loro sono in condizioni pietose. È un miracolo che il terreno non sia diventato una poltiglia che avrebbe potuto risucchiare chiunque da un momento all'altro. Un lampione si è spento, oscurando un tratto di strada e donandole un'aria molto sinistra, come sempre quando è buio. Sembra una di quelle vie nei film horror dove c'è uno psicopatico dietro l'angolo, pronto ad ucciderti. Per fortuna gli altri sono ancora accesi e mostrano la pioggia che adesso cade furiosamente. I marciapiedi sono pieni di pozzanghere e altre se ne stanno formando in mezzo alla strada. La signora anziana richiude le tende. Subito dopo, un vaso su una delle sue finestre cade a terra e si rompe in mille pezzi. Giro la testa, smettendo di guardare fuori. Lo scenario è sempre lo stesso, non succede niente di nuovo. Un altro tuono esplode nel cielo. Mia madre è ancora sulla soglia.
- Che cosa stai facendo? - Mi chiede, alzando un sopracciglio con fare interrogativo e incrociando le braccia al petto. Potrebbe farmi anche paura, se solo fosse più grande. La sua statura minuta, però, gioca a suo sfavore. Nonostante mostri una faccia seria, farla sul serio non le riesce.
- Niente. - Rispondo con un sorriso innocente mentre lei sbuffa e rilassa le braccia lungo i fianchi.
- È mezz'ora che ti chiamo, non isolarti sempre dal mondo. - Cerca di parlare con voce ferma e dura, ma non ci riesce. Ha un tono così dolce e melodioso che non sarebbe mai in grado di rimproverare davvero. Il suo viso è piccolo, con un sorriso timido e grandi occhi verdi che esprimono felicità. Lei è la donna più bella e gentile che conosca (non che ne conosca molte) con i suoi bei capelli rossi sempre tirati in uno chignon, ben legati per impedire a delle ciocche di scappare.
- Sto solo osservando. - Dico quasi colpevolmente, abbassando lo sguardo sulle mie mani e facendo inseguire i pollici. Lei rotea gli occhi.
- Sei identica a tuo padre. - Esclama con un filo di tristezza. - La cena è pronta. Scendi. - Richiude la porta alle sue spalle, lasciandomi sola. Non sono identica a mio padre, non posso saperlo, non l'ho mai conosciuto. È morto prima che nascessi, e guardando una semplice foto o basandomi su quello che dice la gente, non posso affermare di conoscere una persona: la verità può anche essere distorta. So solo che ho i suoi stessi capelli scuri, poi era completamente diverso da me: aveva le spalle larghe che gli davano una statura imponente; i capelli sbarazzini gli incorniciavano il volto, sempre solcato dalle rughe intorno agli occhi. Non rimugino molto su mio padre: non sono insensibile, solo che è morto, non potrò mai conoscerlo. La gente muore tutti i giorni, è una cosa naturale. Io, solo, preferisco non soffrire.
***
Non appena mi siedo a tavola, mamma mi porge un piatto con carne e piselli. Nonostante le tendine della finestra al di sopra del lavello siano tirate, riesco comunque ad intravedere i fulmini fuori. Un tuono li segue dopo pochi secondi. La cucina non è molto grande ed è povera di mobili. Al centro della stanza c'è un tavolo, in legno di quercia, con quattro sedie intorno, le une di fronte alle altre. Sopra c'è una tovaglia di un giallo chiaro con delle palline verdi e arancioni che si fondono insieme. Dietro il tavolo ci sono dei banconi di un legno molto chiaro che tende al bianco. Sopra, le solite cose che si possono trovare in cucina: un cesto con la frutta contenente delle mele e delle banane; un lavello bianco al di sopra del quale si trova una finestra; vicino al muro, nell'angolo, c'è il frigo; due banconi dopo c'è il fornello e al di sopra un orologio bianco. Sopra tutti i banconi ci sono delle mensole con piatti, bicchieri e tazze. Guardo mia madre: lei ha già iniziato a gustarsi la cena. La sera è l'unico momento in cui possiamo parlare. Lavora tutto il giorno al comune e, naturalmente, io studio. Questo si trova proprio al centro della cittadina, Ruddy Village, nella piazza. È un piccolo villaggio al confine tra il Nevada e la California, completamente nel nulla. È così piccolo che non è riportato neanche sulle mappe e alcuni addirittura pensano che non esista. La cittadina è stata chiamata così poiché, più di cento anni fa, un'epidemia di peste la colpì e si narra che ebbe inizio proprio qui. Ma perché donarle un nome che ricordi questo episodio? A quanto pare, nessuno si è posto il dubbio. L'epidemia di peste nacque proprio nel mio quartiere, in una casa non molto lontana. Si narra che una coppia vivesse in quella casa, ma la moglie si ammalò a causa delle condizioni igieniche, che non erano delle migliori. Non passò molto che anche il marito si ammalò, e così anche la maggior parte delle persone. Quella casa si trova ancora lì. È stata ristrutturata e modificata più volte; disabitata, però, da diciassette anni. Il sindaco si è sempre rifiutato di demolirla, ritenendola un monumento storico. Non capisco come una casa che ricordi la peste possa essere considerata tale, ma egli ribatte sempre dicendo che la storia non è fatta solo di periodi ricchi e prosperi, ma anche di periodi colmi di sofferenze che non vanno mai dimenticati.
- Non mangi? - Chiede lei con la bocca piena. Afferro forchetta e coltello, annuendo e portando la prima fetta di carne in bocca. In realtà sto morendo di fame. Non ho mangiato niente tutto il giorno. Quando mia madre è fuori, tendo a dimenticarmi di mangiare o di fare qualsiasi altra cosa. Passo il tempo leggendo, studiando o ascoltando musica. Non ho voglia di fare altre cose. Tuttavia, ciò che non mi abbandona mai è questo sentimento dentro di me che mi divora giorno dopo giorno, come se fosse un buco nero. Mi sta risucchiando. Mi sto risucchiando. Ho un sentimento di solitudine dentro. Mi manca qualcosa, qualcosa che nessuno mi potrebbe dare, qualcosa che a parer mio è disumano. È impossibile per me sentire la mancanza di qualcosa che non conosco e di cui non so neanche l'esistenza. Non per questo motivo sono asociale. Ho imparato a conviverci. Infatti esco anche con la mia migliore amica. Si chiama Delice ed è completamente il mio opposto. Ci conosciamo da quando eravamo piccole e non ci siamo mai allontanate. È una ragazza ricca di energia e il sorriso è la sua parte migliore. Quando sorride, due piccole fossette si formano sulle sue guance e mostra una dentatura perfetta. Non ricordo che abbia mai portato l'apparecchio in vita sua. Ha dei lunghi capelli biondi che non hanno mai avuto una propria forma. Tende sempre a cambiarli: lisci, ricci, mossi. Alcune volte sperimenta anche acconciature nuove. È una vera e propria fissazione. Le si può toccare tutto, ma non i capelli se si tiene alla propria vita. Tralasciando questo suo lato assassino, ha degli occhi color verde acqua, uno di quei verdi così rari che sono difficili da trovare. Il suo corpo, poi, è perfetto: ha le curve al posto giusto. Mi meraviglio che non sia una modella o una delle ragazze più popolari della scuola. Un'altra delle sue fissazioni sono i vampiri, ma non quelli che si trovano nei film horror e che fanno accapponare la pelle, quei vampiri veri. Lei adora quelli dei film o delle fan fiction: quelli muscolosi e pericolosi, belli ma dannati, di una carnagione bianca da far paura ma con sguardo magnetico, dolci ma forti.
- Non dirmi che sei vegetariana adesso. - Mi guarda. Sono rimasta a girare i piselli nel piatto. Scuoto la testa, riprendendo a mangiare. Dopo qualche attimo di silenzio, comincia a parlare. - Che cosa hai intenzione di fare quest'estate? - È sempre eccitata all'arrivo dell'estate ma, per me, è solo una stagione come le altre. In fin dei conti la mia routine non cambia, tranne che per lo studio. Di quello sono felice. Non devo passare le giornate sui libri e soffrire di mal di schiena per studiare qualcosa che avrò già dimenticato a giugno.
- Niente di particolare. - Alzo di poco le spalle, non avendo la benché minima idea di cosa farò questa estate. Ogni anno è la stessa storia: lei che cerca di organizzare le mie vacanze, incoraggiandomi a divertirmi, io che ribatto, noi che litighiamo.
- Magari facendo nuove amicizie... -
- Loro non vogliono essermi amici. – La interrompo con tono abbastanza freddo, poi porto un altro boccone di carne in bocca. Fin da piccola ho avuto problemi nel crearmi amicizie: spesso facevo la cosa sbagliata, dicevo la cosa sbagliata o mi ponevo nel modo sbagliato. Sono davvero timida a volte e questa cosa di certo non mi aiuta. Con Delice, invece, è stato tutto diverso. Lei è stata la prima persona che, alle elementari, si è avvicinata a me per fare amicizia. Dal momento in cui mi ha sorriso, non ci siamo più divise.
- Sto solo dicendo che Delice ha anche altri amici e... -
- ... e non la definiscono una pazza. - Concludo.
- Non lo sei. - Dice con voce ferma, sicura di sé. E per un momento ci credo anche, ma poi penso che lei non sappia cosa vedo a volte. Immagini che prendono vita nella mia mente, forse ricordi o visioni, che però non sono miei. A volte, però, sembrano così reali da essere accaduti realmente, o non ancora. So solo che arrivano e non posso fermarli o controllarli, soprattutto quando si manifestano come sogni. Forse, davvero sono segni di pazzia.
- E se non fossi normale? - Chiedo in un sussurro, incontrando i suoi occhi verdi. La mia voce è spezzata. Non voglio piangere anche davanti a lei. Non voglio farmi vedere debole da nessuno.
- In che senso? - Chiede preoccupata. Cerca di non far tremare la voce, ma il suo tono sembra spaventato. Spaventata da me, oppure dall'idea di avere una figlia pazza.
- Diversa dalle altre persone. Non mi comporto o sono come loro. - Libera un sospiro di sollievo alla mia risposta, chiudendo gli occhi.
- Non sei neanche questo. – Li riapre e incrocia il mio sguardo. - Se per te essere una ragazza intelligente significa essere diversa, allora lo sei. Questo quartiere è troppo stupido per non soffermarsi sulle cose superficiali. Devo finire di lavorare al computer. Lavi tu i piatti? - Mi sorride. Annuisco, ricambiando il sorriso. Forse ha ragione, è tutto nella mia testa. Questo mondo è troppo superficiale per comprendere pienamente ciò che esso stesso ha da offrire. Ma alla fine, cosa ne posso sapere io? Sono solo Sharon Steel. Non sono nessuno, in fin dei conti. Finisco di mangiare per poi posare i piatti nel lavandino. Li laverò più tardi. Ritorno in camera e mi siedo sulla mia “postazione”. La adoro. È una semplice panca sotto la finestra dove passo la maggior parte del tempo. È fatta di legno, come quasi tutti i mobili in camera mia. Sopra ci sono due cuscini bianchi e una piccola pila di libri. La mia camera non è molto grande: è forse la stanza più piccola dopo la cucina. Però, è perfetta per me. Non ha senso avere una camera enorme se poi sono sola. È quadrata. Il pavimento è in legno e le pareti sono ricoperte da una carta da parati completamente bianca. Alcune parti del muro, però, sono grigie e dietro il letto la carta si è un po' strappata. Sembra graffiata, segno evidente degli anni che possiede questa casa. A fianco alla finestra c'è una piccola scrivania con un computer sopra e alcuni libri di scuola, tra cui quello di biologia, aperto sopra agli altri. C'è anche una piccola lampada nera, ora spenta. La sedia con le rotelle è coperta dalle maglie e dai pantaloni che devo ancora sistemare nell'armadio. Un letto a una piazza e mezza occupa la maggior parte della stanza. È tutto disfatto. Non ho avuto tempo di farlo questa mattina. I cuscini bianchi sono spostati al centro del letto e il materasso è pieno di pieghe. Le lenzuola sono gialle e blu, i miei due colori preferiti. A fianco al letto c'è un piccolo comodino, in legno scuro, con sopra un'altra piccola lampada, anch'essa gialla, e il caricatore del mio cellulare. Ai piedi del letto c'è una bottiglia d'acqua, ormai vuota. Vicino a esso, verso la finestra, è presente un armadio di legno chiaro. Di lato alla porta della camera c'è uno di quei semplici specchi rettangolari con accanto una piccola porta, quella del bagno, piccolo anch'esso. Quest'ultimo è completamente blu: le mattonelle, la doccia, il lavandino... solo il gabinetto è bianco.
Attiro le gambe al petto per poggiarci la testa. Fuori ancora piove e sembra non voler smettere. Accendo la lampada sulla scrivania per illuminare un po' la camera. È totalmente buia. La mia ombra viene proiettata sul soffitto tramite la luce dei lampioni nelle strade. Un altro tuono ruggisce più forte degli altri. Il cielo è del tutto nero. Un rumore in lontananza sovrasta il suono della pioggia. Sebbene non riesca a vedere, percepisco che si tratta di una macchina. Non capita che le auto passino per questa strada. Ci sono solo quattro case, delle quali una è in vendita. Nelle altre due case ci sono persone anziane e non ricevono mai visite. E poi c'è la casa abbandonata, in fondo alla strada. Lì finisce il quartiere.
Chiudo gli occhi per concentrarmi di più sulla macchina. Sono curiosa di sapere chi gira con questo tempo. È quasi sotto casa, posso sentirla. Apro gli occhi per vedere e la trovo ferma, con i fanali ancora accesi che illuminano le gocce di pioggia. Dalla macchina escono due figure, ma non riesco a distinguere le loro facce. La prima, che esce dalla portiera di destra, ha un cappuccio nero in testa, anche i pantaloni e le scarpe (un paio di Converse) sono dello stesso colore. Qualche secondo dopo la persona è completamente bagnata. S'intravedono alcuni capelli, forse biondi, che gli ricadono sulla fronte. È sicuramente un ragazzo. Non riesco, però, a guardarlo in faccia. Dalla portiera di sinistra esce una donna con un ombrello marrone. Si richiude la portiera alle spalle e fa il giro della macchina, una Jeep nera. Richiudo gli occhi per cercare di capire chi siano, o almeno cosa ci facciano qui. Apro gli occhi di scatto, spaventata: non sento niente, neanche il loro battito; nulla, il vuoto. Come se fossi immersa davvero nell'acqua ma incapace di sentire perfino il suo suono. Il silenzio più assoluto. Forse allora non sono pazza, magari mi stavo sbagliando per tutto questo tempo.
- Sharon! - Urla mia madre, così forte che non mi sarei meravigliata se i vicini l'avessero sentita. Poi appare sulla porta. - Ti avevo chiesto di lavare i piatti! -
- Stavo proprio andando. - Incrocio il suo sguardo per un secondo. Le sorrido innocentemente, poi riporto subito lo sguardo fuori dalla finestra, cercando la macchina che sembra essere sparita.
- Basta che domani mattina non li trovo ancora nel lavello con le mosche intorno. - Chiude la porta alle sue spalle. Non so perché m’interessi così tanto, ma ho la sensazione che quella macchina sia qui per un motivo. La cerco un'ultima volta prima di andare a lavare i piatti, ma niente. La pioggia è l'unica cosa che riempie la strada deserta. E per un breve istante, quella sensazione che mi ha seguita fin da piccola sembra essere sparita, come se avessi trovato quello che stavo cercando.
   
 
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