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Autore: Dalybook04    23/03/2020    0 recensioni
Napoli, 1712
Antonio Fernandez Carriedo aveva scoperto con non poca sorpresa quanto si potesse comunicare attraverso un pomodoro.
***
-bastardo?
-dimmi Lovi
-ho fatto davvero bene a lanciarti quel pomodoro.
-già- lo baciò -hai fatto davvero bene
***
Gli piaceva pensare fossero un regalo da parte sua, come se ogni pomodoro che cresceva gli volesse ricordare quanto lo avesse e avrebbe amato, e quanto lo amasse ancora.
***
-ve, mi dispiace fratellone. Stai tranquillo, l'amore troverà un modo
-non darmi false speranze, Feliciano. Per favore.
***
-a quanto pare abbiamo entrambi il cuore spezzato, eh?
***
_principalmente Spamano e Gerita, con accenni molto lievi alla PruAus_
Genere: Drammatico, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Germania/Ludwig, Nord Italia/Feliciano Vargas, Prussia/Gilbert Beilschmidt, Spagna/Antonio Fernandez Carriedo, Sud Italia/Lovino Vargas
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Cronache del diciottesimo secolo e altre storie'
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Napoli, autunno 1712, data non meglio specificata...

Antonio Fernandez Carriedo aveva scoperto con non poca sorpresa quanto si potesse comunicare attraverso un pomodoro.
Certo, conosceva la tradizione di lanciare frutta marcia agli spettacoli sgraditi, e aveva anche temuto di beccarsene un paio durante la sua prima, e unica, esibizione alla corrida, anche se quelle erano state comunque le ore più felici della sua vita: ricordava il sole che gli batteva sulla fronte, quasi a incoraggiarlo, la sabbia che gli volava intorno, il sudore, il telo rosso stretto tra le mani, il toro davanti a sé, il brivido di eccitazione che gli era corso lungo la colonna vertebrale, il pericolo, la paura, la corsa e... e infine gli applausi, il piccolo pubblico, essenzialmente solo gli abitanti del suo villaggio, in visibilio, le urla, l'orgoglio, il cuore che sembrava sul punto di esplodere per la felicità e il sollievo e la fatica... e infine l'arrivo di sua madre, furiosa, che lo aveva preso per un polso e lo aveva trascinato via.
Tuttavia, quando era stato costretto a indossare la divisa da generale dell'esercito spagnolo piuttosto che il vecchio costume da torero del suo bisnonno, non gli era passato minimamente per la testa che qualcuno avrebbe osato colpirlo con un pomodoro.
Lo avevano mandato a Napoli con un centinaio di soldati, come ausiliari per sedare le frequenti rivolte popolari. Una missione piuttosto semplice, perfetta per un novellino come lui, un venticinquenne che avrebbe preferito nascere popolano che nobile e che non aveva mai visto altro che l'enorme villa della sua famiglia e il paesino limitrofo, dove fuggiva ogni qualvolta ne avesse l'opportunità. Meglio qualche rivolta nel Sud Italia, dove c'era troppa fame perché qualcuno potesse costituire una reale minaccia, che qualche sanguinosa battaglia per la guerra di successione contro l'Inghilterra o l'Austria. Antonio sapeva che suo padre ci aveva messo una buona parola per ridurre al minimo i rischi di perdere il suo primogenito, ma in quel caso non aveva di che lamentarsi: di certo, a morire non ci teneva; prima voleva rivedere la sua casa, la sua Spagna.
Inoltre, finché fosse stato in Italia, non avrebbe dovuto sopportare le continue pressione di sua madre perché trovasse moglie. Quanto avrebbe voluto dirle che una moglie proprio non era il suo tipo! Nessuna moglie, nessuna donna, per quanto bella o ricca o nobile, non importava quante ne cercasse: nessuna lo avrebbe mai potuto soddisfare.
Magari, aveva sperato ingenuamente, stando tanto tempo lontana da lui se ne sarebbe dimenticata. Di certo, lì era al sicuro; sua madre avrebbe preferito saperlo morto piuttosto che sposato con una fanciulla povera e straniera, e Antonio aveva ogni intenzione di godersi quell'incarico lontano, come gli aveva suggerito suo fratello, che sapeva tutto perché lo aveva beccato a baciare un ragazzo del paese: si sarebbe goduto quegli anni di relativa libertà approfittando di tutto ciò che la vita aveva da offrire, che fosse alcool, o persino anche qualche droga leggera, e assolutamente aveva ogni intenzione di trovare più amanti possibili, per approfittare dello sguardo lontano dei genitori per provare ogni vizio che la bella Napoli aveva da offrire.
Certo, la realtà sarebbe stata ben diversa, ma Antonio non poteva saperlo.
Non poteva sapere del suo superiore, amico di suo padre, incaricato di tenerlo d'occhio e di riferire ogni sua mossa ai suoi genitori; non poteva sapere quanto fossero frequenti le rivolte, tanto da lasciargli appena il tempo di respirare, figuriamoci di divertirsi; e soprattutto non poteva sapere che, nella bella Napoli, più che i peccati ci avrebbe lasciato il cuore.
Non avrebbe potuto saperlo, il futuro non lo sapeva prevedere, anche se qualcosa avrebbe potuto dedurre dal fatto che fossero stati inviati oltre cento soldati lì, in una terra già sotto il controllo spagnolo, piuttosto che sui fronti di guerra, ma questa sua mancanza la si può perdonare per la sua inesperienza e la sua tipica ingenuità.
Tuttavia, una cosa che assolutamente non avrebbe potuto prevedere era che, appena messo piede giù dalla nave, senza neanche dargli il tempo di radunare le truppe, o salutare il superiore venuto ad accoglierlo, o semplicemente guardarsi intorno, un pomodoro gli sarebbe volato dritto in viso, sfracellandosi contro il suo naso e sporcandogli l'uniforme.

Antonio aveva sentito che, secondo gli antichi Greci e Romani, il dio dell'Amore Eros, o Cupido, che dir si voglia, scagliava le sue frecce, e chi ne veniva colpito si innamorava all'istante. Quel racconto lo aveva sempre colpito per la violenza del gesto; non era un incantesimo, non era un bacio o una carezza, bensì era una freccia, un'arma, quella che faceva innamorare.
Eppure quel giorno Cupido doveva aver finito le frecce, perché fu un pomodoro ad arrivargli in faccia, insieme a un urlo in napoletano che non capì.
Rimase scioccato, ma l'alto ufficiale non si scompose; ordinò ad alcuni dei suoi soldati di acciuffare il responsabile, e quelli corsero verso la provenienza dell'ortaggio. Antonio vide una figura piccola correre via ma, probabilmente per la fame, dopo pochi metri cadde a terra, e fu catturato dai soldati, che lo portarono e lo fecero inginocchiare davanti ad Antonio. L'alto ufficiale annuì verso le guardie, lanciò un'occhiata rapida al ragazzino, e infine guardò lui e sorrise. Era alto, affilato, muscoloso, fiero nell'armatura, con due baffi neri e folti che si arcuarono sotto al suo sorriso paterno.
-hai già il tuo primo ordine da generale, Carriedo- sembrava divertito, come uno zio che guarda il nipotino catturare una farfalla o qualche insetto con il suo retino e decidere cosa farne, e a conti fatti per lui quel piccolo bastardo ribelle non doveva valere più di un bruco o una mosca fastidiosa -che ne vuoi fare? Lo mandiamo in prigione? Lo giustiziamo in piazza? Scegli tu: è il tuo primo caso.
Antonio guardò l'ufficiale, abbozzò un sorriso di risposta, fece un piccolo inchino insieme a un "gracias", e infine abbassò lo sguardo sul ragazzino.
Era magrissimo. Le braccia erano due rametti ossuti, pronti a rompersi alla minima pressione; le gambe, per quel poco che riuscisse a vedere, non sembravano messe meglio; aveva le ginocchia sbucciate per la caduta e la posizione inginocchiata, e qualche goccia di sangue aveva già sporcato il terreno sotto di loro; nonostante non sembrasse avere la forza di fare alcunché, continuava ad agitarsi per liberarsi, tanto che, per farlo stare fermo, un terzo soldato dovette puntargli la spada alla schiena, mentre gli altri due gli tenevano le braccia ossute. Inizialmente, Antonio non gli avrebbe dato più di undici anni; aveva scambiato il suo fisico per quello di un ragazzino in fase pre-ormonale, quel periodo in cui si è particolarmente mingherlini, prima di diventare uomini. Ma ora, osservandolo da vicino, Antonio poté finalmente osservarlo per bene in viso, e notare che no, quel ragazzino era già un uomo fatto e finito, di non più di venti anni. Aveva la pelle scura, più o meno come quella di Antonio, e un caschetto di capelli castani luridi e spettinati, i tratti ben definiti, due labbra sottili, che forse un tempo erano state rosee e carnose, ma che ora erano scarne e rovinate. Era ricoperto da uno strato di sporcizia, polvere e sudore, che sembrava essere impregnato nella sua pelle, rendendola ancora più scura, e nei suoi vestiti, forse un tempo della taglia giusta, ma ora, dopo la fame, larghi e sformati; ma nonostante la sporcizia e il dimagrimento eccessivo, Antonio non riuscì a non notare quanto fosse un bel ragazzo: tratti leggeri, naso deciso senza essere troppo invasivo, zigomi pronunciati, guance scarne ma morbide, forse con un leggerissimo velo di barba, che però si confondeva nello sporco: sembrava una statua di marmo dalle linee decise ma ben marcate, un dipinto realizzato con estrema maestria. Se la povertà fosse bella, si disse Antonio, avrebbe questo aspetto. Eppure, nonostante tutta la bellezza che gli si presentava davanti agli occhi, ciò che davvero lo colpì furono gli occhi: di un colore tra il castano e il verde, erano ricolmi di un orgoglio, di una fierezza, che avrebbe messo in soggezione chiunque, tanta che, se l'altro non si fosse trovato in ginocchio, Antonio si sarebbe sentito in dovere di inchinarsi e obbedire a qualsiasi ordine. Aveva sentito parlare dell'orgoglio degli Antichi Romani, delle loro espressioni fiere; ne aveva visto busti di marmo, ne aveva letto libri, ne aveva tradotto versioni dal latino. Eppure mai, mai avrebbe immaginato quanto potesse essere potente e soprattutto mai avrebbe osato immaginare che negli occhi di un ragazzo che non sembrava avere altro che la vita, avrebbe trovato un orgoglio maggiore a quello visto nel viso e nella regale posa di Sua Maestà il Re.
Antonio si chinò davanti all'italiano e sorrise.
-ciao, io sono Antonio. Hai fame?- chiese con gentilezza, prendendo una delle sue mani e liberandolo dalla presa della guardia -non voglio farti male, rilassati.
-che stai facendo, Carriedo?- lo interruppe l'alto ufficiale, spazientito.
-nella Bibbia è scritto di fare l'elemosina, no? Per me, questo povero ragazzo ha sprecato un pomodoro. Voglio ripagarlo- si voltò verso il ribelle -quanto vuoi che ti dia?
-Carriedo...- sbuffò il generale -tuo padre mi aveva avvertito del tuo buon cuore, ma non pensavo non avessi neanche un minimo di amor proprio...
-oh! Ci sono! Non parli spagnolo, vero?- domandò all'italiano, ignorando il suo superiore -uhm, qualcuno qui potrebbe trad... -si bloccò quando il ribelle allungò le mani, lunghe e sottili, mani da musicista, verso il suo viso. Una guardia fece per fermarlo, ma ad un cenno del generale Carriedo si bloccò. La mano, lentamente, si posò sulla guancia di quello strano ma gentile spagnolo e raccolse parte della polpa del pomodoro ancora spiaccicato sul suo viso, portandola poi alla bocca dell'affamato proprietario.
-oh, allora mi ha capito! Credo, o forse ha solo fame...- si voltò verso l'italiano -mi capisci? Parli spagnolo?
Quello rimase in silenzio, guardandolo torvo.
-qualcuno ha del pane? O... uhm, dovrei avere qualche moneta da qualche parte, valgono anche qui a Napoli no?- iniziò a frugarsi nelle tasche dell'uniforme, ma quando allungò la mano con qualche moneta dentro verso il ragazzo, quello si liberò con uno strattone dell'altra guardia e gli tirò una testata nello stomaco che fece cadere l'altro sul terreno polveroso, salendogli poi addosso furioso.
-non voglio la tua carità, bastardo di uno spagnolo!- gli ringhiò, in uno spagnolo perfetto, prima che le guardie gli fossero addosso e lo riportassero in ginocchio, mollandogli uno schiaffo che gli fece girare la testa e che, per il ferro dell'armatura, gli aprì un taglio sulla guancia.
-stai al tuo posto, poveraccio!- gli intimò l'alto ufficiale, prima di aiutare Antonio ad alzarsi e spolverargli l'uniforme -la carità è una santa cosa, ma con questi poveri non c'è niente da fare- lo consolò con un sorriso.
"Ma che senso ha?" si chiese "che senso ha la carità se non aiutare i poveri? Gesù si avvicinò persino ai lebbrosi, perché io non mi posso avvicinare a un ragazzo che non ha altro che orgoglio e fame?"
-allora? Che ne vuoi fare, Carriedo? Prigione o impiccagione?
Il generale Carriedo guardò l'alto ufficiale, abbassò lo sguardo sul petto sulla sua divisa sporco di pomodoro e infine sul ragazzo, sulla cui guancia si stava formando un livido. Posò la mano sul livido, accarezzandolo con attenzione, e lo sentì tremare sotto il suo tocco. Gli tolse il sangue uscito dal graffio e lo osservò bagnare i suoi polpastrelli, riflettendo.
Cos'aveva di diverso quel sangue da quello che gli scorreva nelle vene? Cosa rendeva il suo sangue degno di decidere con uno schiocco di dita della vita di un ragazzo, di un'altra persona? Che cosa differenziava lui, loro, i nobili, dall'altro, dagli altri, dalla plebe? Erano tutte persone, tutte creature di Dio.
Che cosa li differenziava?

La fortuna
Guardò il ragazzo, che in qualche modo sembrava aver capito i suoi dubbi. Lo osservava curioso, quasi divertito, l'ombra di un sorriso sulle labbra spaccate e pallide, così diverse da quelle morbide e curate di Antonio.
La fortuna, è questa la differenza tra te e me.
Antonio era nato in una famiglia nobile, ricca, famosa. Il suo bisnonno era un torero, si era guadagnato una fortuna con i tori e si era fatto un nome. Suo nonno era poi andato in guerra come soldato semplice, con un cavallo comprato con i soldi del padre; aveva vinto numerose battaglie e aveva fatto carriera, rendendo il nome dei Fernandez importante e stimato in tutto il regno: sua madre gli raccontava sempre che l'unica volta in cui avesse visto suo padre piangere era stata quando era bambina, e gli fu data una medaglia all'onore dal re in persona. Sua madre aveva sposato un importante generale, da cui erano nati lui e suo fratello.
E Antonio?
Antonio era cresciuto di rendita, gli era stato insegnato come comportarsi, cosa fare, come vestirsi, cosa dire e come dirlo. Aveva osservato confuso sua madre coprire la carnagione scura, che aveva ereditato anche lui, con creme e polveri. Era un'eredità del bisnonno, gli aveva spiegato, il bisnonno è nato senza niente, e aveva la pelle così: ma noi abbiamo tutto, e per noi non va bene.
Ma comunque, si era sempre rifiutato di mascherarsi. Antonio aveva il sangue dei conquistatori nelle vene, la corrida nel cuore. La sua vita era stata programmata prima ancora che nascesse, dai suoi stessi geni: aveva indossato la vecchia tenuta del suo bisnonno, e si era ritrovato nello stesso titolo di suo nonno, con la nobiltà di sua madre e il buon nome di suo padre, quello che tutti usavano per riferirsi a lui, nonostante lui fosse Antonio Fernandez Carriedo. Lui però non si era guadagnato niente: né la divisa da torero che al suo bisnonno era costata tutta l'eredità dei suoi genitori, né il titolo che suo nonno si era guadagnato dopo anni e anni di battaglie, né il prestigio di sua madre in società, ottenuto nascondendo la sua pelle e sposando un uomo che non aveva mai amato. Lui, Antonio, non aveva fatto altro che nascere nella famiglia giusta.
All'italiano, invece, era andata male. Era nato in una famiglia che evidentemente non aveva niente, o aveva perso i genitori, o era stato abbandonato; insomma, aveva avuto sfortuna.
Ma nessuno dei due aveva avuto scelta.
Il ribelle era nato e cresciuto in strada, Antonio tra gli sfarzi e gli agi.
Antonio aveva ereditato il destino e le regole, l'altro il bisogno di cercarsi il cibo ogni giorno.
Eppure, il ribelle, nonostante non ne avesse i mezzi, aveva scelto. Aveva lanciato quel pomodoro. Gli aveva tirato quella testata. Aveva rifiutato la sua elemosina. Tutte cose che non avrebbe dovuto fare, ma aveva scelto e le aveva fatte comunque. Aveva mandato a quel paese il suo destino e aveva scelto per conto suo: le conseguenze sarebbero state disastrose, ma le avrebbe accettate, pur di avere una scelta, una dignità, una vita degna di essere chiamata tale; magari non lunga, magari non felice, ma una vita, e non una serie di conseguenze, di scelte altrui o del passato. Antonio aveva un amico, un conte francese di circa la sua età, che lo aveva riempito di discorsi sulla libertà e sull'amore. Tuttavia, in quel momento Antonio capì cosa fosse la libertà vera: scegliere.
E capì di non essere mai stato libero, di scegliere cosa fare, con chi stare, chi amare.
Non aveva mai scelto niente in vita sua, ma voleva cambiare.
-lo assumerò come mio servo- dichiarò, poi si rivolse all'italiano -non hai un lavoro, immagino.
Quello scosse la testa, sbalordito.
-hai una famiglia? Qualcuno che si prenda cura di te o, non so, una moglie...?
-mio... mio fratello- balbettò quello, con un adorabile accento, nuovo per Antonio ma a cui presto si sarebbe abituato -non posso lasciarlo, è un bambino, non può prendersi cura di sé.
-verrà anche lui. Se è troppo piccolo non lavorerà, ma rimarrà con te. Ti va bene come sistemazione?
-come... quanto mi pagherà?- domandò esitante. In effetti, notò Antonio, il suo spagnolo era piuttosto buono, ma era chiaro che non fosse la sua lingua madre.
-vi darò da mangiare tutti i giorni e un tetto sopra la testa. Sei magrolino, e se tuo fratello è piccolo non dovreste occupare molto spazio.
-io... va bene- in teoria avrebbe dovuto ringraziare, ma non lo fece. Antonio sorrise ancora di più.
-Carriedo, si può sapere che diamine stai facendo?
-ottimo. Domani fatti trovare qui con tuo fratello, a quest'ora. Verrà una carrozza a prendervi. Come vi chiamate?
-mio fratello si chiama Feliciano- rispose lui, come se fosse l'unica cosa degna di nota.
-e tu?- a quella domanda sembrò stupirsi ancora di più, come se non riuscisse a capacitarsi di tutta quell'attenzione su di sé.
-il mio nome è Lovino.
   
 
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