Noël
non sapeva come aveva avuto il coraggio di farlo.
Forse,
ne aveva semplicemente sentito il bisogno, quella notte in soffitta.
La
luna splendeva nel cielo e la illuminava nel suo minuscolo angolo
dietro la porta.
Stette
soltanto qualche minuto, poi tornò al piano di sotto, nella
sua
camera, preparando uno zaino in silenzio.
Poi
tornò in soffitta per prendere il suo diario, ma
improvvisamente le
cadde dalle mani, sbattendo violentemente a terra, aprendosi in due.
La
ragazza rimase immobile qualche secondo ma, non sentendo alcun
rumore, lo raccolse e cercò di ripiegare la pagina rovinata.
Nell'angolo
piegato c'era una piccola scritta blu, minuscola ma leggibile: non
mi avete mai conosciuto.
Lo
chiuse violentemente, riponendolo di nuovo a terra, esattamente al
centro della stanza; non lo avrebbe portato con sé, ma
lì sarebbe
stato al sicuro.
Poi
scese le scale a passi felpati, afferrò delle banconote dal
portafoglio della madre e uscì silenziosamente di casa.
Non
ci ripensò nemmeno un secondo. Non si volse.
La
luna piena illuminava il suo viso serio e determinato, e gli occhi
brillavano; quell'espressione, per chi la conosceva, poteva fare
persino paura.
Era
un'espressione pericolosa.
L'espressione
di qualcuno che ha tutta l'intenzione di prendersi ciò che
vuole, a
qualsiasi costo.
Passò
davanti al cimitero, davanti al locale, alla casa di Denis, ma non si
volse mai.
Sapeva
che avrebbe soltanto trovato persiane serrate e un tavolino solitario
al centro dell'ampia balconata.
Percorse
silenziosamente la strada degli artisti e quando arrivò alla
Basilica, non si trattenne a guardarla.
Sapeva
che sarebbe stata sempre la stessa, bianca e imponente davanti a
Montmartre.
Osservò
la città illuminata dall'alto: il fiume da lì
sembrava infinito e
la notte donava una luce particolare alla torre.
Parigi
sembrava non dormire mai. Niente in quel posto avrebbe mai avuto
fine.
Ma
lei sarebbe presto andata via da lì. Era l'unica soluzione
concepibile.
Prima
però, avrebbe fatto un ultimo viaggio: avrebbe visitato
ciò che le
interessava e l'avrebbe fatto da sola. Era elettrizzata da questo
pensiero.
Un
sorriso quasi malvagio si allargò sulle sue labbra.
Finalmente era
libera, libera e sola, come non lo era mai stata prima.
~
Non
avendo fatto colazione quel giorno, dopo essere usciti dalla bottega,
Denis e Samira si diressero al locale di fronte alla casa della
ragazza.
Il
giovane ordinò una tazza di cappuccino e, mentre addentava
un
biscottino alla cannella, Samira gli fece delicatamente notare un
fatto interessante.
«La
scorsa settimana sono venuta qui con Noël e mi ha chiesto di te».
Denis
smise di masticare e fissò la ragazza negli occhi.
«Sembrava
molto preoccupata. Innervosita da qualcosa, direi».
Effettivamente,
non parlavano più come una volta e anche lui aveva notato
dei
cambiamenti in lei.
«Io
non so niente»
si affrettò a rispondere,
ingoiando rumorosamente.
Denis
aveva intuito che la ragazza aveva altro per la testa: si erano
allontanati moltissimo l'uno dall'altra e, anche se non glielo aveva
detto espressamente, mai come allora aveva sentito la sua mancanza.
«Credo
che tu le piaccia»
sussurrò
Samira
all'improvviso.
Lui
continuò a mangiare, senza particolare stupore.
Non
ci aveva mai pensato prima e stentava a crederci.
Ma
il discorso terminò lì e Denis vide la ragazza
stringere gli occhi,
come se le dolesse qualcosa.
La
vide toccarsi il petto. Il
pomeriggio lui la portò fino alla Basilica e lei
lasciò scorrere il
fiume sotto il suo sguardo che, per un attimo, tornò a
brillare.
Ormai era sera ed era ora di tornare a casa.
Solamente
qualche ora dopo, su quella collina sarebbe tornata una giovane in
fuga.
Avrebbe
preso il traghetto e avrebbe attraversato la Senna in solitudine,
così come aveva programmato, abbandonando Montmartre per
sempre.
O
almeno così credeva.
~
Quando
arrivò davanti alla Torre Eiffel, Noël rimpianse di
non aver preso
il suo diario.
Avrebbe
voluto scrivere, disegnare osservando i turisti camminare incerti e
ammirare il panorama anche a quell'ora della notte.
Sapeva
che quella era soltanto una torre di ferro rimasta lì per
sbaglio,
par
hasard,
avrebbe voluto dire.
Sapeva
che avesse addirittura negato l'accesso a Hitler.
E
improvvisamente, davanti ai suoi occhi scorsero veloci delle
immagini, le grida, il caos della storia che la Francia aveva
ospitato, come sul nastro di un film: la belle époque, la
Prima
Guerra Mondiale, la Seconda e i deportati ebrei, il Velodromo dove
vennero rinchiusi, le sfilate,
come le chiamavano i nazisti, nelle strade verso i campi.
E
se fosse stata una di quegli ebrei? Quanti bambini e ragazzini della
sua età erano morti in quei campi? E nei treni? E per le
strade?
Aveva
soltanto avuto fortuna, era nata nel momento giusto.
Suo
padre era un mezzo alcolizzato, suo madre una donna depressa e
infelice e lei una ragazzina a metà strada, incerta sul
proprio
futuro come tutti gli adolescenti e incapace di realizzare i propri
desideri: ma che cos'era questo davanti alla devastazione di una
guerra, magari a causa di una bomba, oppure di una pallottola di
qualche cecchino?
Niente.
Niente,
pensò.
Un
vuoto le si formò in gola, e gli occhi le si fecero lucidi.
Avrebbe
voluto riabbracciare la madre e il padre, chiedere loro scusa per
ciò
che aveva fatto, per ciò che era e non era stata.
Si
sforzò di non piangere e le lacrime non scesero.
Si
chiese che cosa stessero facendo in quel momento, se fossero
preoccupati o sollevati.
Forse
non si erano nemmeno accorti della sua assenza.
Prima
o poi ci si accorge della mancanza di chiunque,
le disse una volta Denis.
Oh,
Denis.
Era
scappata soltanto da qualche ora e già le mancava
così tanto.
Istintivamente,
se lo immaginò da bambino, un bambino biondo, debole e
fragile e le
venne un'immensa voglia di abbracciarlo, di piangere tra le sue
braccia, di consolarlo.
Lui
era sempre allegro e spontaneo con lei e lei era sempre stata quasi
arrogante con lui.
Ma,
nonostante tutto, lui aveva deciso di restare.
Avrebbe
tanto voluto dirgli che gli voleva bene, che non lo voleva lasciare
andare.
Ma
sapeva che non ne avrebbe mai avuto il coraggio.
Così
rimase lì, accovacciata su una panchina di fronte alla
Torre, con le
lacrime a pungerle gli occhi, in una notte senza luna che sarebbe
stata presto dimenticata.
~
Quando
prese il pennello in mano, Denis non resistette alla tentazione di
toccarne la liscia peluria.
Era
morbida e delicata sotto i suoi polpastrelli e quasi gli dispiacque
intingerla nella pittura.
Ma
aveva un progetto in mente.
Aveva
raccolto un po' di colori e dell'acqua e si era seduto su una sedia
davanti alla tela bianca del laboratorio nascosto della bottega.
Come
al solito non c'era nessuno e la porta era aperta.
Così
Denis si mise comodo e cominciò a dipingere.
Intinse
il pennello nel bianco, cominciando dal fondo: dipinse un sottile
margine, poi immerse il pennello sporco in un colore grigio scuro,
dipingendo i due estremi inferiori della tela: ne uscì un
colore
simile a quello di una nuvola carica di pioggia.
Fu
quando intinse il pennello nel colore rosso che la porta del
laboratorio si spalancò scoprendo una figura esile dai
capelli grigi
e gli occhi chiari.
Le
rughe erano visibili sul suo viso e sembravano cedere al peso della
pelle.
Lo
sguardo era stanco e la chioma unta ma, quando lo notò, le
labbra
gli si aprirono in un debole sorriso.
Denis
si alzò bruscamente con il cuore in gola, prima di essere
fermato:
«Resta
pure»
gli disse
lo sconosciuto,
dirigendosi verso il grande tavolo al centro della stanza. «Non
sapevo proprio che cosa dipingere su quella tela.
È
come se le immagini
avessero smesso improvvisamente di trasmettermi la loro poesia»
aggiunse, afferrando un piccolo pennello.
Denis
era rimasto sbigottito e immobile per tutto il tempo, fino a quando
l'uomo non prese la maniglia della porta, con l'evidente intenzione
di andarsene.
Allora
ebbe il coraggio di parlare.
«Posso...?»
Il
ragazzo non riuscì a terminare la frase e lui rimase sulla
soglia,
con la mano ancora stretta alla maniglia.
Si
guardarono per qualche istante, quando l'uomo si diresse verso il
giovane, fermandosi a pochi centimetri dal viso, con aria minacciosa.
Denis
notò che impugnava il pennello come un'arma.
«Non
permettere mai a nessuno di fermarti quando vuoi fare qualcosa»
sussurrò.
Il
ragazzo lo guardò perplesso, sempre più confuso
da quell'assurda
situazione.
Quella
frase sarebbe valsa anche davanti ad una violazione di
proprietà, a
un omicidio oppure una rapina? Era questo che credeva quell'uomo?
Poi
lo vide distogliere lo sguardo, puntandolo sulla tela bianca.
«Non
capisco»
disse calmo, «che
cos'è?»
«Non
l'ho ancora finito».
Denis
si passò una mano fra i capelli dorati.
L'uomo
lo guardò con l'espressione di un matematico che ha appena
trovato
la soluzione all'enigma a cui lavora da giorni.
«Lei
è il padre di Samira?»
osò
poi il ragazzo.
Il
corpo dell'uomo si tese bruscamente e Denis vide il suo sguardo
vagare da una parte all'altra della tela: avrebbe giurato che, in
realtà, sapesse bene che cosa dipingere.
«Tu
conosci mia figlia?»
Lo
guardò finalmente negli occhi e Denis quasi si
pentì di averlo
domandato.
Il
giovane asserì, osservandolo dirigersi nuovamente verso la
porta.
«Aspetti,
mi dica almeno come devo chiamarla!»
«Non
avrai bisogno di chiamarmi. Quando avrai bisogno di me, io
sarò qui»
rispose lo sconosciuto, chiudendosi la
porta alle spalle.
E
Denis rimase lì, con un pennello ormai secco tra le mani, in
una
bottega che aveva il volto di quell'uomo.