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Autore: _Lightning_    23/03/2020    5 recensioni
Thanos è stato sconfitto e la metà scomparsa dell'universo è tornata, andando a rioccupare i vuoti di cinque anni d'assenza. Anche Peter Parker è tornato, nonostante a volte si senta ancora su Titano e non sia certo che il costume di Spider-Man o le vesti di adolescente del Queens gli appartengano ancora. Ad aiutarlo sul suo nuovo cammino di supereroe c'è almeno Tony Stark - vivo per miracolo, anche se segnato da cicatrici insanabili.
Mentre il mondo tenta di rimettersi in marcia, coloro che lo hanno salvato vengono messi di fronte alle conseguenze delle proprie azioni: i superumani sono un aiuto o una minaccia? Non è forse vero che hanno contribuito a sconvolgere il mondo ben due volte?
Una nuova tempesta si addensa all'orizzonte, e Peter sembra destinato a trovarsi nell'occhio del ciclone...
Dal Capitolo IX: "Zona Negativa"«Parker, non te lo ripeterò: lascia perdere.»
«Altrimenti che fa? Mi toglie di nuovo il costume?» Peter allargò le braccia con aria di sfida.
«Non hai più quindici anni,» ribatté freddamente Tony. «Se non sei in grado di seguire le mie direttive, sei fuori.» Indurì le labbra in una piega severa. «E questo non è un bel momento per essere "fuori".»
Genere: Azione, Drammatico, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Peter Parker/Spider-Man, Tony Stark/Iron Man
Note: Otherverse, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'As if it never happened'
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Spider-Man: Back In Black

 

§

 

Capitolo VI

La guerra a casa




“Always I know
You'll be at my show
Watching, waiting
Commiserating
Say it ain’t so, I will not go
Turn the lights off, carry me home”
[All The Small Things – Blink-182]


 
 

 
4 Maggio, Casa Parker
 
Entrò dalla finestra sentendosi incorporeo e atterrò pesantemente sul pavimento. Non si tolse la maschera. Non mosse un passo, non richiuse i vetri. A malapena respirava o deglutiva; ogni battito di palpebre era una schicchera delle ciglia sulle guance. Continuavano a ronzargli in testa le parole di Yuri, insensate.

Task force, sventare l’attentato, non seminare il panico… cos’altro aveva detto? Era tutto un vortice confuso e caleidoscopico, al centro del quale si stagliava nitida l’immagine del proprio volto.

Riflettori, riflettori puntati esattamente su di lui, sulla sua casa, sulla sua famiglia. Su May. Su Happy, e quindi Tony. Quindi Pepper, Morgan. La sua famiglia. La sua priorità.

Ora c’era una ragnatela potenzialmente mortale ad avvolgerla, in cui li aveva intrappolati lui stesso non sapeva nemmeno come. C’era quel cerchio rosso a contornargli la visuale, a restringerla a tunnel fino ad accecarlo, e qualunque pensiero razionale ne veniva risucchiato. C’era quella foto accartocciata nella tasca del costume, sottratta prima che Yuri potesse chiamare la squadra antiterrorismo e iniziasse a ispezionare ogni centimetro quadro di quell’ufficio.

Aveva commesso un crimine, ne era consapevole. Gli scottava la punta delle dita da quando aveva strappato la foto dal muro. Una tutela per se stesso… e agli occhi degli altri? Ostruzione alle indagini? Complicità? Cosa significava quella foto, come si incastrava Peter Parker nel mosaico infernale costruito da Kingpin e Osborn? Perché lui?

Si tolse di scatto la maschera quando si rese conto di essere rimasto in apnea troppo a lungo, con la fibra sintetica incollata alle labbra. Trasse una boccata rumorosa, asfittica. Fu allora che il senso di ragno urlò, così forte da sovrastare tutto il resto e diventare al contempo inudibile: un unico, assordante berciare che gli intersecò i sensi. La nausea gli contorceva lo stomaco – gli premeva nelle orecchie a ondate e sentiva il freddo in gola, sentiva il suono del proprio respiro sotto la pelle, la penombra della stanza che gli impastava la lingua. Il coacervo di stimoli gli si appuntava nel petto, strangolante.

Gliel’aveva detto MJ, cosa fosse la sinestesia, mentre studiava per il compito di inglese – e ora ci si trovava dentro, a berla a grosse sorsate con ogni respiro, con lo sfasamento dei sensi che gli ingarbugliava le sinapsi, familiare.

Gli ricordava qualcosa. Un vuoto. Il vuoto.

Basta. Basta, pensò, con le mani che erano andate a coprirsi le orecchie senza nemmeno realizzarlo, mentre i pensieri cadevano a spirale nella sua testa, contorcendosi in silhouettes che rimasero confuse anche quando qualcuno premette l’interruttore della luce inondando a giorno la stanza.

«Peter!»

Un ruggito distorto e lontano si infranse sui suoi timpani, mentre qualcuno gli si avvicinava, con mani delicate ma ferme che gli scostarono le braccia dal volto – e se una parte di lui avrebbe voluto rimanere chiuso a riccio per difendersi dal mondo diventato troppo caotico, troppo parte di lui, un’altra riconobbe quel calore e vi si rifugiò, cedendovi istantaneamente con cieca fiducia.

«Zia May…» gracchiò con voce irriconoscibile, sentendosi avvolgere dalle sue braccia esili ma salde, e riconobbe il suo profumo di patchouli e casa che gli solleticò le narici resettando il caos sensoriale in atto.

«Peter? Peter, che succede? Sei ferito? Ti… ti senti male?»

Le domande rimbalzarono sulla sua corteccia cerebrale, troppe e troppo serrate per essere davvero assimilate, ma riuscì comunque a scuotere la testa, sentendo la sua presa farsi più salda, ma non soffocante. Un plaid caldo in una giornata invernale che gli riaccendeva a poco a poco una fiammella in corpo. Si risintonizzò, una tacca alla volta, con lo sfrigolio di frequenze sbagliate che scemava pian piano divenendo semplice rumore di fondo.

E subito venne investito dal senso di colpa, realizzando solo allora che, mentre il senso di ragno gli scampanava nelle orecchie da quando aveva lasciato il magazzino, Karen gli aveva parlato più volte. Forse gli era squillato il telefono e forse l’aveva sentito, forse no – forse l'aveva ignorato. Lo prese ora con mani traballanti temendo di disintegrarlo, senza staccarsi da May, che gli lasciò libertà di movimento. Vi trovò, oltre il velo liquido che gli intasava gli occhi, otto chiamate perse da Tony e più del doppio da lei. Erano le tre del mattino passate.

Rialzò il volto, incontrando gli occhi castani e agitati da gorghi color miele di sua zia, ma in qualche modo ancora saldi, intenti a scrutare ogni millimetro del suo volto. Gli scostò i capelli dalla fronte sudata, premendo le labbra tra loro senza dir nulla, in attesa. Peter sospirò appena, sentendosi febbricitante, e riuscì a interporre un filtro appena sufficiente a contenere l’esubero d’emozioni che si accavallavano dentro di lui. Era zia May: poteva lasciarsi andare, poteva permetterle di capire, poteva rifugiarsi da lei e chiedere consiglio… ma non stavolta. Non del tutto. La foto premeva nella tasca, appuntita, pericolosa.

«Scusa,» mormorò in un soffio, affondando il viso nella sua spalla. «Non ho sentito il telefono. Non… non ero attento, mi sono–»

«Va tutto bene,» lo interruppe lei, e la sentì scuotere la testa a scacciar via ogni giustificazione superflua. «Va tutto bene, calmati. Sei qui, sei a casa.»

Non gli chiese nulla: si limitò a stringerlo e ad accarezzargli i capelli scomposti, in un gesto calmante che lo riportò ai pomeriggi domenicali a Flushing Meadows, quando lo consolava dopo essersi rotto di nuovo gli occhiali per una brutta caduta. Lo riportava anche altrove, a una sera di novembre in un grigio corridoio d’ospedale, ma si tirò via di peso da lì: spinse con foga le doppie porte d’uscita e le lasciò sbattere dietro di sé, a barricare quel momento nel ripostiglio della memoria.

Si raccolse semplicemente nel tepore di quelle coccole che, forse, si concedeva troppo poco spesso e concedeva altrettanto di rado a lei. Adesso sentiva che ogni carezza districava un poco i pensieri e le preoccupazioni che affollavano la sua scatola cranica, comprimendogli il cervello con una pressa idraulica. Una parte di lui si sentiva sotto l’edificio crollato, con le ossa sul punto di cedere; un’altra era segregata nel vuoto cosmico e ambrato che l’aveva fatto sentire incorporeo così a lungo – cinque anni nascosti nella sua coscienza, troppo a fondo per essere davvero percepiti – e l’altra era racchiusa nelle mani di zia May come un uccellino ferito.

Non aveva nemmeno bisogno di parlargli, per far sì che i suoi battiti cardiaci triplicati si calmassero pian piano: era come se avesse una connessione diretta con lui, come se fosse in grado di intingere gentilmente la punta di una stilografica al centro del suo cuore per poi scrivere lei stessa un elettrocardiogramma pulito, regolare, a tempo col suo. Lo avvolse un senso di sonnolenza, mentre la cacofonia esterna scemava pian piano diventando un chiasso attutito che lo cullava.

«Stai meglio?» gli chiese May dopo qualche minuto, e percepì le vibrazioni calde della sua voce nel timpano premuto contro di lei.

Peter notò la scelta di parole, affatto casuale. Non disse “bene
, ma “meglio”. Perché lei sapeva che non stava bene, e che chiederglielo sarebbe stato come pretenderlo – lo conosceva, e sapeva quanto fosse incapace di mentire e quanto comunque ci provasse per nascondere ogni suo turbamento. Si limitò ad annuire, temendo che anche quel piccolo movimento fosse sufficiente a mandarlo in frantumi come una delicata bolla di vetro soffiato.

«Allora chiamo Tony,» concluse lei, strofinandogli la schiena. «Era molto preoccupato, non…»

«Non gli ho fatto sapere nulla e sono sparito, lo so. Mi aveva chiesto di vederci, stasera,» la anticipò lui, annuendo di nuovo senza scoprire il volto.

May sospirò appena, un soffio che gli agitò capelli e pensieri.

«Vuoi parlarci tu?»

Peter compresse le labbra, conficcandovi i denti fino a sentire una stilettata di dolore.

«No. Non ora,» decise infine, con un nodo ad arricciargli le corde vocali. «Non dirgli… di questo. Non… non farlo preoccupare troppo, poi si agita, e lo sai che…»

«Lo so, tesoro: non gli fa bene,» lo placò subito lei. «Gli dico soltanto che hai avuto una nottataccia e che ti sei dimenticato di avvertirlo.» Si scostò da lui, con una mano premuta sulla sua guancia bollente. «Va bene?»

Era una bugia fragile, ma avrebbe acquisito autorevolezza se pronunciata da lei, così Peter annuì, forzando un minuscolo sorriso appena intuibile che fece rilucere gli occhi di May. Amava averla sempre dalla sua parte.

«Tu intanto cambiati e mettiti sotto le coperte.»

Gli schioccò un bacio sulla fronte, lasciandolo seduto per terra – non si era nemmeno reso conto di essere scivolato in ginocchio, e batté le palpebre confuso. May gli sorrise, incrollabile anche in quel pigiama di pile celestino oversize, e uscì dalla stanza col telefono già premuto sull’orecchio. Rimase in corridoio, e Peter poté captare anche da lì la risposta affannata dall’altro capo della cornetta, che arrivò dopo il primo mezzo squillo.

«È lì? Sto per attivare il tracciamento, se non…»

«È qui, Tony, sta bene… sì, si è dimenticato… no, ti ho detto, sta bene, te lo giuro…»

Peter chiuse le orecchie, e si immerse in una bolla di ronzii e gorgoglii che rimasero in sottofondo. Si alzò con le gambe di gelatina e si tolse la tuta impostando il pilota automatico, sobbalzando nell’avvertire le lievi contusioni che si tendevano assieme ai suoi muscoli, e l’escoriazione sul polso che bruciava leggermente. Ignorò qualunque input fisico, sentendo che anche il semplice prenderlo in considerazione avrebbe potuto scatenare un’altra ondata di sfasamento sensoriale.

Si premurò unicamente di chiudere la foto nel cassetto della scrivania. Non la guardò: la mise a faccia in giù sotto un libro di algebra, sentendosi imperlare la fronte solo a quel gesto. Si forzò a togliere anche gli spara-ragnatele, rischiando di farseli sfuggire dalle dita tremanti. Nelle ultime settimane aveva provato a rinunciarvi, almeno per la notte.

Quando May rientrò in camera, si era già imbozzolato a letto. Aveva indossato quei ridicoli pantaloni di Hello Kitty rosa, quasi a punirsi per aver mentito a Tony, e una vecchia maglietta di zio Ben – quella scolorita di Woodstock che metteva orgoglioso nelle uscite fuori porta per “sentirsi un po’ più giovane”. Era impossibile, ma ogni volta che la metteva aveva l’impressione di sentire quel lieve sentore di giacche di cuoio, vernice e caffè che lo riportava alle periodiche grandi ristrutturazioni del loro minuscolo appartamento. Non la metteva spesso, col timore recondito di consumare l’odore di quei ricordi; con la consapevolezza che era in questi esatti momenti, che avrebbe avuto bisogno di Ben lì con lui assieme a May.

Sua zia si sedette sulla sponda del letto, rivolta verso di lui, e gli scostò la ciocca ribelle e ondulata che gli ricadeva sempre sugli occhi, in quel modo scherzoso ma dolce che gli suggeriva silenziosamente un taglio di capelli ogni sei mesi. Peter sorrise appena, senza nemmeno volerlo.

«Non è per l’università, vero?» esordì May, limpida ma senza alcuna durezza.

Lui scosse la testa e affondò la guancia nel cuscino, prima ancora di poter raggruppare tutte le bugie dell’ultimo periodo, sapendo di non poterle comunque gestire tutte. Ce n’era solo una da dire, adesso, e tutto il resto scivolava in secondo piano. Priorità. Aveva finalmente la priorità che tanto aveva cercato – e non avrebbe mai voluto trovarla.

«È… anche per quello,» aggiunse poi, schiarendosi la voce arrochita. «Ma questo… no, non è per quello.»

La pausa successiva fu densa, e temette di annegarvi dentro finché May non la spezzò, in un incalzare gentile:

«Mi vuoi dire cosa sta succedendo?»

«Perché, Tony non te l’ha detto?» si lasciò sfuggire di getto, incapace di nascondere la punta di risentimento che gli strizzò la frase in gola.

May sospirò a labbra chiuse, e la vide corrugare strettamente la fronte, con gli occhi illuminati da ombre cangianti nella luce soffusa dell’abat-jour.

«Mi ha detto che c’è stata una proposta, o meglio, una… minaccia di schedare i potenziati da parte del governo. Che tu sei coinvolto, e che devi prendere una decisione in tempi brevi. Ma non mi hai detto cosa hai deciso, né come la pensi; e mi ha raccomandato di aspettare che fossi tu a parlarmene.»

Peter assorbì in silenzio quell’informazione, a pugni stretti. Tony gli aveva davvero dato tempo, anche se a modo suo, e sotto tutto il conflitto che sentiva in corso tra loro, gli fu grato. Gli voleva bene, a dispetto di tutto ciò che faceva, allo stesso modo in cui non si può fare a meno di amare un parente problematico; e forse in quel caso anche di più, visto che non c'era nemmeno un legame di sangue a giustificare quel fatto.

«Hai già deciso cosa…»

«Lo sai, cos’ho deciso, e sai anche perché,» replicò lui, in un modo troppo duro di cui si pentì subito. «Insomma… puoi immaginarlo.»

La sentì inspirare a fondo, troppo a fondo, e la vide distogliere lo sguardo, lasciandolo scorrere sullo spazio ristretto della sua caotica stanza. Portò una mano a stringergli il braccio da sopra le coperte, quasi disattenta, con la mente altrove.

«N-non sei d’accordo?» tartagliò lui, nel riconoscere il dubbio che si addensava sul suo volto marcandone i lineamenti decisi.

«Non si tratta di essere d’accordo,» scosse la testa lei, mordicchiandosi le labbra. «Tony è stato chiaro: rifiutarsi di essere identificati vorrebbe dire entrare in clandestinità.»

Fu Peter a sfuggire il suo sguardo, stavolta. Tony non gliel’aveva ancora detto chiaramente: era stato un timore che lui stesso aveva esitato a esternare, ma quel fatto era stato nell’aria già dal momento in cui avevano messo piede fuori dalla Casa Bianca. E adesso... adesso era peggio. Molto peggio. Gli sembrava di camminare in un campo minato.

«Lo sono già,» replicò, con un brivido che gli increspò la pelle al solo pensiero che la sua identità non fosse ora così protetta come avrebbe voluto. «Ma mi ha detto lui di “non espormi”, per il momento.»

Si costrinse a non guardare verso il cassetto in cui aveva nascosto la foto, come se così facendo avesse potuto prendere fuoco e rivelare la propria presenza al mondo. Come se farlo potesse riaprire il vuoto e tutto ciò che continuava a precipitarci dentro – o in cui lui continuava a gettare pensieri a caso per non ritrovarsi con la testa troppo affollata.

«Forse l’ha detto… ma non vuol dire che sia la scelta più saggia. Neanche tornare ad essere Iron Man è una scelta saggia, ma dubito che se ne renda conto… Tony non è lucido, in questo momento. Sì, mi ha detto anche di quello che vuole fare, ma lo sapevo già da Pepper,» rispose poi, alla domanda muta che gli risalì agli occhi.

Peter deglutì di nuovo a fatica, con la disturbante immagine di Tony che si affannava a fare il giocoliere con troppe situazioni delicate che gli lampeggiò brevemente davanti agli occhi. Era fin troppo simile alla propria.

«Cos’altro ti ha detto? Prima, cosa ti ha detto?»

«Voleva venire qui: ha capito che c’è era qualcosa che non andava. Gli ho detto di no,» lo rassicurò subito, quando lui ebbe un fremito nervoso e si raddrizzò un poco contro la testiera del letto. «Ma vuole parlarti il prima possibile. Credo che sia successo qualcosa e sembrava in ansia; mi ha detto solo che… che sta ricevendo pressioni importanti dall’alto, ed è preoccupato. Non lo dà a vedere, ma…»

«Lo dà a vedere benissimo,» sbuffò Peter, con un’ombra di riso amaro e un pensiero più consapevole ai messaggi insistenti di quel pomeriggio. «May, io so cosa voglio fare. Lo so io, lo sai tu, lo sa Tony e lo sanno i Vendicatori! Non cambierò idea solo perché siete preoccupati per me, visto che siete sempre preoccupati per me.»

«E allora perché prima eri ridotto così?»

Peter ammutolì, dirottando lo sguardo oltre il vetro della finestra, verso le luci lontane di Manhattan che non offrivano rifugio a lui. A Spider-Man, forse, in grado di raggiungerle con un tiro di ragnatela… ma non a Peter Parker rannicchiato nel proprio letto troppo piccolo, con uno spiffero sul collo e un poster scolorito di Iron Man sopra la testa.

Prese un grosso respiro, sentendo il peso di un blocco di marmo triturato nei polmoni, e un lampo doloroso lungo le sinapsi scosse dal senso di ragno. La bugia gli salì alle labbra e venne poi respinta, smussata, levigata e sostituita dalla risposta a un’altra domanda. Una che, in fondo, non si discostava molto dalla realtà, e che le aveva nascosto fin troppo a lungo. Assecondò le parole che gli aveva detto Tony quella sera, già una vita prima, e fu sincero:

«Perché… perché ho chiuso gli occhi per un attimo e sono passati cinque anni. Perché sono… morto, e non sono morto. Perché a volte ci penso, anche se non dovrei, e… e allora mi rendo conto che non m’importa né dell’università, né di quello che mi succede se non rivelo chi sono. Né di nient'altro.»

Il suo mormorio fu un tutt’uno con la federa del cuscino. Desiderò subito che soffocasse del tutto quelle parole troppo egoiste, troppo puntate su di sé e allo stesso tempo volte a sviare l’attenzione dall’altro sé. Era un gioco d’incastri che non sarebbe durato a lungo, lo sapeva.

Anche senza guardarla, intuì le lacrime negli occhi di May; le percepì, ne avvertì la scia salata nell’aria. E sentì anche il suo silenzio, lo spazio che gli stava lasciando per fargli riversare fuori ogni pensiero e ogni stilla di preoccupazioni che gli intossicava l’anima – quella vera e reale che metteva nel costume ogni giorno, non quella persa a mezza via nel tempo.

«Sai – non te l’ho mai detto – ma ho questo… potere, io,» continuò quindi, di nuovo di getto, con un tremolio a inibirgli la voce. «Di avvertire i pericoli, credo, o le brutte situazioni, non… non so nemmeno io come funzioni esattamente. È un campanello d'allarme, diciamo. Lo chiamo “senso di ragno”… anche se forse non è così fantasioso. Ma, insomma, ultimamente è impazzito. Sente pericoli ovunque, perde colpi, non si spegne un attimo e mi confonde e… e prima è andato in tilt completo,» riuscì a dire infine, a frasi smozzicate che non volevano saperne di superare la barriera dei suoi denti. «Sono un disastro, May. Sono vivo, ma non… non funziono più. Non riesco a funzionare.»

Sentì che gli passava una mano tra i capelli, quasi impalpabile.

«Pete,» disse poi, e c’erano lacrime piene anche nella sua voce; non volle guardarla. «Noi, e intendo chi è rimasto qui e vi ha aspettato, non riusciamo nemmeno a immaginare cosa vi passi per la testa o cosa significhi quello che avete vissuto. È inconcepibile, nessuno sarebbe in grado. E tantomeno posso farlo io con te, anche se ti conosco da quando sei nato, perché ora sei un supereroe, e io no. Vorrei conoscerti così bene anche adesso,» disse, con un rammarico che gli stritolò lo stomaco.

«Mi conosci ancora bene,» la fermò con impeto, alzando un poco il busto e costringendosi a sorridere appena nel guardarla; sentì comunque una lama sotto il cuore nell’incontrare le sue iridi calde e velate. «Nascondi ancora i Choorios nel terzo sportello dietro alla farina per non farmeli finire tutti. E lasci ancora lo straccio a pois sulla scrivania quando devo assolutamente pulire la mia stanza. E... e… ah! Mi metti ancora il post-it verde sul frigo per le chiavi di casa, così non rischio di battere il record di dieci volte chiuso fuori di zio Ben. Anche se adesso in effetti potrei arrampicarmi…» concluse, portando una mano al mento e fingendo una posa pensosa un po’ traballante.

May rise appena, leggera, e fece traboccare una lacrima che si affrettò ad asciugare prima che superasse il bordo degli occhiali. Gli posò una mano sulla guancia, sfiorandogli più volte lo zigomo con pollice. Sospirò attraverso un sorriso che gli colmò il petto.

«È questo, quello a cui volevo arrivare: non potrò capirne nulla, di… di ciò che hai passato o di cosa significhi avere un superpotere. Ma so che tenerti tutto dentro e fingere che non esista non risolve il problema. Non devi forzarti a parlarne, ma non devi nemmeno forzarti a non farlo. Parla con me, con Ned e MJ, con Tony, con chi vuoi… ma non permetterti di “andare in tilt” solo perché credi di dover essere di essere Spider-Man anche con chi ami. Perché è a Peter, che noi vogliamo bene, con o senza maschera. Non te lo dimenticare mai,» concluse, con quella sua schiettezza che rendeva meno complesso il mondo.


E lui si sentì meschino, schiacciato da quelle parole e allo stesso tempo sollevato verso l’alto da un vapore soffuso che lo scaldò dall’interno cogliendolo di sorpresa – essere amato era una sensazione conosciuta che faceva parte della sua essenza sin da quando riusciva a ricordare, sulla quale però si soffermava troppo poco spesso. Annuì appena, soverchiato da troppe emozioni che si confondevano tra loro, come se dell’acqua in eccesso avesse inondato un acquerello mischiandone i colori e rendendo irriconoscibili i contorni. Ma erano sfumature soffuse, delicate, che lenirono quella faglia interna che slittava e smottava e si allargava ogni giorno.

«Va bene,» mormorò in punta di labbra, e May gli diede un buffetto a suggellare quella promessa.

«Ora dormi,» gli intimò, stringendo le labbra severa. «E domani, voglio che tu vada a parlare con Tony subito dopo scuola, intesi?»

Peter si sentì sprofondare un po’ il cuore appena risollevato. Ma sapeva di doverglielo, per lo meno per l’ansia che gli aveva provocato quella sera; non riusciva nemmeno a immaginarsela senza provare un blocco allo stomaco. E lo doveva a se stesso, per ribadire la propria posizione e chiedere che venisse rispettata, ora più che mai. Senza trucchi e senza compromessi.

«Non c’è quella riunione del FEAST, domani? Avevi bisogno di aiuto, non ti…»

«Martin l’ha rimandata. E comunque, questo è più importante.»

«Va bene, allora. E dirò a Tony cosa voglio fare. Insomma, lo sa già, ma… ma ha sempre così tante cose per la testa che a volte penso che non mi ascolti nemmeno,» sbottò infine, frustrato e col ricordo della riunione dei Vendicatori che ancora lo punzecchiava.

«Ti ascolta, Pete. A modo suo, ma lo fa, credimi,» sospirò May, scuotendo la testa, e poi si adombrò all’improvviso, socchiudendo le ciglia. «Ricordati sempre che sono stati cinque anni anche per lui.»

Glieli lesse tutti quanti in volto con un vuoto al petto, esattamente quello che glielo faceva contorcere nel pensare ai propri – o al momento in cui aveva creduto di perdere per sempre Tony, lì, tra polvere, sangue e macerie non molto dissimili da quelle tra le quali si era dissolto lui, e poi su quel letto d’ospedale con la vita attaccata a un elettrocardiogramma sussultante. Annuì e basta, lasciando che i loro occhi intersecati si privassero a vicenda di quell’assenza reciproca e ancora non del tutto riempita.

E in quell’istante, desiderò di poter vedere Tony adesso e fare lo stesso con lui: fargli capire che era tornato per restare, e che non gli sarebbe sparito davanti nel momento in cui avesse abbassato lo sguardo. Che erano al sicuro, che poteva smettere di preoccuparsi e rispolverare armature credendo di dover sempre salvare tutti – di nuovo. Gliel’avrebbe detto domani, in qualche modo. Assieme a tutto il resto.

Accolse intorpidito il bacio della buonanotte di May – così frequente, da quando era tornato – e rimase a fissare quel cassetto chiuso di fronte a lui, custode di segreti e angosce che continuavano a mordicchiargli e rodergli la mente coi loro bordi frammentati.
Chiuse gli occhi sul buio che lo circondava, ma non sui suoi pensieri, che continuarono ad agitarsi con un fitto brusio di fondo dietro il sipario delle sue palpebre.
 
 
 
 

 4 Maggio, Stark Tower


 
L’ufficio di Tony alla Stark Tower non gli era affatto familiare. E ancor meno gli era familiare l’immagine del suo proprietario che lo occupava, abituato com’era a vederlo indaffarato in laboratorio, al Complesso o nell’attico, vuoi per un progetto in corso o per tenere a bada Morgan.

Era uno spazio ampio, con una parete a vetrate affacciata a picco sulla città e le altre adorne di quadri e pezzi d’arte con tutta probabilità selezionati accuratamente da Pepper: tutti evocavano un’idea di movimento e chiassosità che ben si addiceva al suo proprietario, senza per questo risultare molesti all’occhio. Da quest’ultimo punto forse Tony si discostava un poco, pensò tra sé Peter mentre bussava alla porta già aperta.

Il suo mentore alzò di scatto gli occhi dai documenti che stava compilando, sul chi vive, per poi ammorbidire subito la sua espressione nel vederlo – vi lesse un netto sollievo e si sentì scrutare da capo a piedi in cerca di ferite visibili.

«Ma guarda, allora è vero che il ragnetto del Queens arriva sempre in tempo per salvare la situazione,» lo accolse, facendogli cenno di entrare e gettando da parte la penna con un guizzo delle dita. «Mi hai risparmiato un tunnel carpale alla mano buona.»

«Buongiorno, signor Stark,» replicò lui, forse eccessivamente formale, ma aggrappandosi a quel saluto e alla spallina dello zaino come fossero tangibili ancore per mantenere una parvenza di stabilità. «Beh, allora sono contento di essere arrivato al momento giusto,» aggiunse, notando come ora Tony stesse aprendo e chiudendo la mano sinistra con una linea di fastidio a indurirgli il volto.

Peter arricciò appena le sopracciglia, stringendo le labbra, e dedusse che quel giorno stesse accusando più del solito quei piccoli deficit che gli aveva inciso addosso il Guanto. Non si alzò nemmeno dalla scrivania per venirgli incontro, preferendo inclinarsi contro lo schienale con le gambe allungate ad alleviare la tensione muscolare. Anche la sua espressione rimase adombrata a dispetto del sorrisetto che la inclinava, attenuato dalla piega all’angolo delle labbra che lasciava intuire quanto in realtà fosse forzato. Si chiese se non fossero strascichi dell'agitazione di ieri sera e non volle rispondersi, avvertendo una morsa al cervello al solo pensiero.

«È una delle “giornate no”,» lo anticipò Tony, con una scrollata di spalle noncurante nella giacca gessata, elegante e stemperata da una delle sue buffe magliette – questa con l
irriverente scritta BRAT nero su bianco. «Nulla che un po’ di yoga o pilates non possa gestire… fermatemi solo se dovessi iniziare a indossare tuniche da santone o a bere quegli intrugli indigesti per bruciare calorie,» concluse, tendendo la voce assieme alle braccia mentre si stiracchiava un poco.

Tony gli strappò un sorriso, per quanto anch’esso teso. Rimase fermo dall’altro lato della scrivania con fare impacciato, conscio che i convenevoli fossero finiti e che, adesso, non poteva evitare l’argomento che gli pendeva tra capo e collo dalla sera prima. Inghiottì aria e ragionevolezza prima di parlare:

«Scusi per ieri,» esordì, incrociando i suoi occhi e sostenendo il suo sguardo fattosi attento. «Per averle dato buca e averla ignorata. E mi dispiace se si è preoccupato. Avrei dovuto rispondere, ma… mi sono lasciato distrarre, ed ero molto impegnato con…»

«Lo so,» lo fermò Tony, senza la minima increspatura nella voce, né sul volto. «O meglio, lo immagino: Karen mi ha mandato un update medico per l’utilizzo dei nanobot rimarginanti. Sei ferito?»

Peter incassò l’informazione, umettandosi le labbra in bilico tra il risentimento e il senso di colpa. Scosse appena il capo, tirando su la manica quel tanto che bastava per scoprire il segno già rimarginato sul polso, quasi invisibile se non in controluce. Tony sembrò trattenere un sospiro contratto, per poi lasciar sfarfallare lo sguardo dalla cicatrice al suo volto, come se stesse cercando di estrapolare col pensiero le dinamiche di quella ferita senza dovergliele chiedere. Lo vide rassettarsi la giacca, tirandola con un gesto secco, ma non gli sfuggì il modo in cui si lambì il fianco sinistro, quello rimasto più sensibile. Gli si seccò la bocca e si affrettò a parlare, badando bene a tenersi sul vago:

«I nanobot sono fantastici, davvero, anche se era solo un graffio… una piccola disattenzione, tutto qui.»

«Vediamo di non compierne troppe, di disattenzioni,» bofonchiò Tony, con un ultimo scatto delle iridi nocciola verso di lui che parve trafiggerlo. Sai di che parlo, comunicò in muto.

Peter si obbligò a mantenere un’espressione distesa, ma il suo volto si scurì comunque e soffiò piano aria dal naso. Di colpo non gli sembrava più una discussione amichevole, quella. Nell'ultimo periodo Tony sembrava provar gusto nel cambiare continuamente il piano del loro rapporto: da Tony a Peter, da Iron Man a Spider-Man, da Tony Stark a Peter Parker… e tutte le varianti intermedie, creando di volta in volta una barriera o un passaggio tra loro due a seconda del suo umore o delle sue mire.

Lui dal canto suo, non riusciva nemmeno più a scindersi del tutto nei suoi due se stesso: era costantemente Spider-Man, sempre al vertice di un’oscillazione con le ragnatele nel momento in cui lasciava la presa per lanciare quella successiva – costantemente alla ricerca dell’appiglio successivo.

«Quindi… ora sono qui. Di cosa voleva parlarmi?» chiese, tendendo la mascella come a prepararsi a un colpo in arrivo.

Se possibile, Tony s’incupì ancor di più, accentuando delle occhiaie violacee che non gli vedeva addosso dai tempi della Guerra Civile, quando l’aveva reclutato col sorriso sulle labbra, uno zigomo livido e sonno perso a frammentargli lo sguardo. Adesso a rafforzare di quei segni scuri c’era anche un sottile reticolo di rughe che gli arricciava gli angoli degli occhi, più visibili sul lato intaccato. L’uomo lo fissò, stringendosi il mento con la mano ferita, per poi passarla sovrappensiero sullo sfregio che gli marchiava il volto.

«Del fatto che dovrei seriamente cambiare numero di telefono,» proferì infine, con un mezzo sospiro che gettò di lato. «Mi ha chiamato Norman. Quel Norman.»

Peter non poté fare a meno di sgranare gli occhi, sentendo il respiro che gli si raggomitolava in gola, occludendola. Aspettò un continuo, mentre Tony si obbligava a smetterla di stuzzicarsi le ferite e piantava con fermezza il palmo sulla scrivania, a trovare un appoggio solido. C’era un lieve tremito ad attraversargli le dita.

«A quanto pare, anche lui ha preso posizione rispetto all’Atto. Riesci a indovinarla?»

«Credo… credo di sì,» scandì, lentamente. «È favorevole? Ci vuole schedati, vero?»

Tony annuì impercettibilmente, storcendo le labbra come se avesse appena assaggiato qualcosa di molto amaro.

«L’avevo previsto,» affermò, per poi far scattare appena di lato la testa. «Non così presto, ma l’avevo previsto. Normie è un opportunista con legami con la malavita… avere dei protettori dell’ordine pubblico a zonzo gioca a suo sfavore. E faremo tutti finta di non sapere chi si nasconda dietro la figura di Kingpin, anche se è abbastanza massiccia da poterne nascondere quattro, di alter ego.»

A quel punto sollevò le sopracciglia in modo eloquente, in quello che fu chiaramente e senza mezzi termini un rimprovero e un te l’avevo detto neanche troppo tra le righe. Peter se lo lasciò scorrere addosso, ma deglutì a fatica. Adesso iniziava a scorgere le singole fila sottili della ragnatela e i punti in cui erano agganciate. Si chiese se davvero non avesse sottovalutato la situazione – e si rispose di sì.

L’impulso di distruggere la foto non appena avrebbe messo piede in casa si fece impellente, insopprimibile, anche se era consapevole che farlo non avrebbe cambiato assolutamente nulla. Era comunque nel mirino, poco importava se di Osborn o Kingpin-Fisk: occhi diversi, stesso fucile.

Tony schioccò la lingua, a richiamare la sua attenzione, e si rese conto di essersi distratto, lasciandosi sopraffare dagli impulsi incrociati inviati dal senso di ragno. Riportò di scatto gli occhi sul suo mentore, che lo fissava in un modo che, d’istinto, ritenne spiacevole. Sospettoso. Si trovò a ricambiare nello stesso modo suo malgrado.

«Quello che non avevo previsto, Spidey, è la… veemenza con la quale intende far rispettare l’Atto quando – perché ormai è un “quando” definitivo – entrerà in vigore...»

«Quando?» lo interruppe Peter, senza poter evitare che la propria voce s’impennasse. «Un momento, ma voi non dovevate contrattare col governo? Con Ross e tutti gli altri?»

Tony bloccò il movimento della mano a mezza via verso il telefono, evadendo deliberatamente il suo sguardo.

«Il governo ha troncato le trattative giusto ieri, dicendo che “stavamo temporeggiando troppo”. Non si fida di noi e in particolare non si fida di me. Non posso dargli torto, visto che neanch’io mi fido di me stesso,» sbuffò, con un gesto rassegnato che smosse l’aria. «Certo, si fidava di Rogers… questo ovviamente prima che cedesse lo scudo a un ex-pregiudicato,» concluse, tirando un sorriso amaro che gli risalì agli occhi, inacidendoli.

Peter si agitò sul posto, trattenendo ogni domanda e commento, ma pensando che quella fosse una frecciatina gratuita e vana, scagliata verso un bersaglio che non gli riusciva di identificare. Eppure… Tony aveva detto a Steve di aver fatto la cosa giusta, nel nominare il Sergente Barnes suo successore, anche se sempre con quell’astio malcelato.

Si morse in silenzio le labbra, col senso di ragno che gli si contorceva sottopelle. Non capiva a che pro Tony stesse rifilando versioni rimaneggiate di ciò che pensava a destra e a manca, ma quello fu l’ennesimo e definitivo sprone a non confidarsi rispetto alla sua presupposta fuga d’identità. Non ancora, almeno.

«Cosa intende con “veemenza”?»

«Guarda tu stesso,» lo invitò Tony, tendendogli il proprio telefono su cui aveva appena aperto una pagina web.

«Sable International?» lesse Peter, spostando gli occhi dal logo squadrato di una S che campeggiava sulla homepage a Tony

Questi lo scrutava in attesa di reazioni e lo invitò a continuare a leggere con un cenno del mento.

«Sicurezza internazionale, task force d’emergenza, servizio di scorta privata…»

«Mercenari,» tagliò corto Tony, con lampi di fastidio che gli balenavano sul volto. «Mercenari organizzati, ricchi e con una divisa futuristica su cui io e la Xbox dovremmo chiedere i diritti [2], ma pur sempre mercenari.»

Peter deglutì, continuando a scorrere col pollice sul touchscreen e trovandosi davanti delle foto che gli addensarono sangue e respiro: militari in corazze bianche integrate schierati rigidamente, fucili alla mano; armamenti bellici su larga scala; la foto di una donna compita dai capelli grigio ferro e i lineamenti scolpiti nella roccia che fissava inespressiva le sue truppe.

Riconobbe lei e i suoi soldati da qualche telegiornale che aveva intravisto, impegnati in operazioni militari a supporto di questo o quell’esercito – e con metodi che erano stati spesso criticati e condannati. Chiuse secco la schermata, restituendo il telefono a Tony, che sembrava non avere alcuna intenzione di rilassare i lineamenti del proprio volto.

«Ti presento la task force di “contenimento” per i potenziati e vigilanti che si rifiuteranno di aderire all’Atto di Registrazione,» annunciò poi, pomposo e con un gesto vagamente teatrale che assunse un sottotono fin troppo funereo.

Peter si mosse di scatto sul posto, coi piedi improvvisamente irrequieti che lo portarono dall’altro lato della scrivania, a un passo da Tony, che dal canto suo si limitò a ruotare sulla sedia da ufficio per continuare a fronteggiarlo.

«Non può farlo,» asserì, additando il telefono con forza, come a frantumarne lo schermo e il contenuto a distanza. «L’Atto non è nemmeno stato reso pubblico, non può minacciare di…»

«Norman non mi ha chiamato per minacciare,» lo interruppe Tony, tetro. «Mi ha chiamato per mettermi al corrente di questa sua decisione per “mantenere l’ordine pubblico a New York” quando sarà sindaco. Li ha già assoldati. Il che vuol dire che la decisione più grossa, lassù,» e puntò un indice verso l’alto, «è già stata presa alle nostre spalle. Stanno solo aspettando il momento giusto per renderla pubblica, e sospetto che sarà dopo la sua elezione. Parliamoci chiaro: qual bamboccio di Campbell tutto sorrisi e brillantina non ha speranze contro di lui.»

Peter scosse la testa e la girò di lato con un colpo di frusta, iniziando a sentire un senso di soffocamento, una cappa viscida che gli si posava addosso affaticandogli il respiro.

«Osborn… Osborn voleva avere lei dalla sua parte,» riuscì a dedurre, deglutendo a fatica più volte e continuando a tenere in moto i pensieri, evitando che deragliassero. «Voleva… cosa? Finanziamenti? Appoggio politico?»

«No, e sì,» rispose rispettivamente Tony, con due piccoli movimenti del capo. «I soldi non gli mancano. Voleva consenso pubblico rispetto a questa sua nuova politica, visto che ormai sono “in pensione”. Nada, ecco cosa gli ho offerto. Non faccio affari con la Oscorp, né tantomeno con Norman come singolo. E gli ho ricordato che la faccenda della Tower non mi è andata ancora giù, e che dovrebbe astenersi dal contattarmi ancora, a meno che non voglia rivedermi alla sua porta con un’armatura addosso, alla faccia della pensione,» quasi masticò tra i denti, serrando la mascella e battendosi un colpetto sullo sterno, dove un tempo c’era il reattore.

«La Tower?» si stupì Peter, schiudendo la bocca senza raccapezzarsi, e Tony scosse la testa con un sonoro sospiro che fece trasparire tutta la sua reticenza, alzando i palmi in un gesto brusco.

«Lunga storia: te la racconterò davanti alla prossima porzione di cibo spazzatura,» deviò il discorso con un ultimo svolazzo della mano.

Peter annuì circospetto, accantonando però all’istante l’argomento.

«Okay. Okay, quindi… Norman ci vuole schedati. O in gabbia. O in pensione. E io non voglio fare nessuna di queste tre cose. Quale sarebbe il piano, signor Stark? Perché ha un piano, vero?»

Tony si morse il labbro in modo impercettibile, con gli occhi che si assottigliarono appena come se stesse mettendo a fuoco un bersaglio.

«Il piano… è cambiare rotta, visto che hanno intenzione di schierare l’artiglieria pesante. La Sable non scherza, e ha anche qualche piccolo rancore post-Sokovia [3]… quindi dubito che andrebbe a braccetto con noi Vendicatori e che la mia opinione, in particolare, conti qualcosa.»

Peter spostò il peso da un piede all’altro: tutto ciò gli ricordava troppi momenti spiacevoli, di piani arrabattati in fretta e furia su un pianeta desertico nella speranza di salvare tutti – solo per fallire.

«Cambiare… rotta,» ripeté, cercando il suo sguardo e trovandovi solo granito, invece del porto rassicurante che aveva sempre offerto.

«Sì, e prendere quella più sicura. Temo un coinvolgimento diretto della RAFT. Oltre a molte altre cose che preferirei non nominare, ma che forse dovrei rivendermi a qualche regista di film horror per arrotondare.»

Tony tacque, dopo quelle parole, e sembrò aspettarsi da lui una reazione con l’aria di chi già l’aveva prevista. Con largo anticipo, anche.

«Mi sta dicendo che la “rotta” più sicura sarebbe rivelare che sono Spider-Man?» scandì, pronunciando ogni parola con intensità crescente e una tensione nella lingua e nei pugni.

«Potrebbe,» replicò stringato Tony, con prontezza sospetta e molleggiando contro lo schienale con un fare a metà tra il nevrotico e il flemmatico. «Non credere che sia contento di dirtelo, o di prendere in considerazione l’ipotesi. Ma…»

«È questo che intendeva con “vagliare tutte le possibilità”. Lei lo sapeva, che saremmo arrivati a questo,» lo interruppe Peter, con durezza, rinfacciandogli le sue stesse parole di quel giorno alla Casa Bianca.

Tony non vacillò nello sguardo, ma lo vide farsi severo. Un Tony che aveva visto raramente e che somigliava più a Iron Man che al suo mentore.

«Ho una discreta abilità, derivata da pessime decisioni, nel prevedere in quanti modi una situazione potrebbe andare a puttane. Credimi quando ti dico che avevo già preso ogni precauzione nel caso fosse andato storto qualcosa.»

«E adesso… adesso è andato storto. E il piano sarebbe assecondarli?»

«La situazione attuale è in linea con altri scenari simili che mi ero prefigurato, Sable a parte. E non ho comunque intenzione di farti esporre prima che tu compia diciotto anni, quello è fuori discussione,» continuò l’altro, in tono saldo.

Si interruppe, per poi lasciarsi sfuggire un sospiro che gli addolcì i tratti, seppur per un attimo. Si abbandonò allo schienale girando leggermente sulla sedia.

«Pete, dirti di tenerti lontano da Kingpin e Osborn per il momento era un suggerimento sensato, per quanto odioso. Adesso hanno un ulteriore motivo per scagliarsi contro di te, oltre all’Atto; ma potremmo mitigare la cosa se deciderai di mostrarti almeno collaborativo fino a…»

«Non posso decidere di rivelarmi volontariamente! O prepararmi a farlo!» sbottò Peter, lasciando che la sua voce esplodesse con molta più forza di quanto si fosse aspettato e prendendo a gesticolare scattosamente. «Non funziona così! Parla come se fosse un qualcosa privo di conseguenze, come se… se non le importasse nulla, di quali potrebbero essere, né per me, né per May e…»

«Peter!» lo richiamò Tony, facendolo ammutolire, ma non c’era rabbia nella sua voce, né rimprovero: suonò addolorato, in realtà, e vide la piega tra le sue sopracciglia incidersi più a fondo. «So quali potrebbero essere le conseguenze e te le ho evitate in tutti i modi per...» s’interruppe, spostando lateralmente gli occhi per un millisecondo, a guardare quel vuoto interposto tra loro. «… te le ho evitate finora. Non ti sto dicendo che devi dichiarare la tua identità segreta, ma di compiere di nuovo la tua scelta, consapevolmente e prendendo in considerazione questo… assetto più problematico. E il tuo futuro, anche.»

Peter trasse un paio di respiri brevi, volti a riprendere un controllo che gli stava sfuggendo sempre più di mano, e non trattenne un’alzata d’occhi al cielo che esasperò, notando il lieve fremito indecifrabile che vibrò nelle dita di Tony.

«Il MIT, quindi. Niente Spider-Man, niente identità da rivelare, giusto?» annuì, sarcastico. «Proprio come voleva lei

A quel punto Peter riconobbe la scintilla che si accese sul volto del suo mentore: la stessa di fin troppi anni prima, quando l’aveva apostrofato così duramente perché, da lui, si aspettava di meglio di così. Ma le parole che pronunciò non furono affatto spigolose come allora, anzi, solo terribilmente frammentate, come se le avesse ricomposte in fretta e furia per pronunciarle ancor più velocemente, deviando a braccio da un discorso preparato:

«Io non voglio nulla, Peter, almeno non per me stesso. L’ultima volta che ho voluto qualcosa per me stesso non…» si interruppe, e lo vide far slittare la mandibola in un riflesso nervoso che gli tirò il volto. «Ho voluto… ho trovato una famiglia. E adesso voglio proteggerla, perché è il motivo per cui sono qui, adesso, nonostante tutto,» concluse quasi con foga, e con un dolore a offuscargli le iridi che lo catapultò con uno strappo allo stomaco a Titano – di nuovo, incessantemente, una cima di sicurezza fissata nel punto sbagliato.

Lo scaraventò davanti agli occhi privi di luce del suo mentore nel realizzare quello che stava accadendo. Al momento in cui si erano fatti liquidi e vivi quando l’aveva rivisto. Assorbì quelle parole, invece di farsele rimbalzare addosso, e le trovò meno pungenti, in grado di adagiarsi accanto al cuore senza infliggergli danni.

Ricordò le parole di May: erano stati cinque anni per tutti, anche per lui. Cinque anni così lunghi da convincere Iron Man ad arroccarsi in una casa sul lago che lui non aveva ancora visto e forse non avrebbe visto mai, perché custodiva ancora troppi ricordi angoscianti. Faceva fatica a crederlo, ma sapeva di essere incluso in quella “famiglia” di cui parlava Tony. E che era proprio Tony, a non voler credere che lui ne facesse di nuovo parte, trattandolo come se dovesse evaporare da un momento all’altro al minimo tocco o sguardo troppo intenso.

«Signor Stark, non ci sono più alieni o Titani folli, là fuori Non c
è nessuno che sta per schioccare di nuovo le dita,» si costrinse a dire, nel modo più morbido che gli riuscì.

Vide quella macchia spenta di assenza e perdita allargarsi sul volto di Tony, che contrasse la mano sinistra con uno spasmo doloroso per entrambi.

«A volte non ci credo neanch’io… ma è così. Abbiamo vinto e ci meritiamo di vivere… e non posso vivere nella paura perché continuo a non crederci, o perché voi avete paura che accada di nuovo. Non posso smettere di essere Spider-Man, come lei non vorrebbe mai smettere di essere Iron Man.»

E smettere di essere Spider-Man voleva dire smettere di essere Peter Parker, perché Peter Parker era morto cinque anni prima e forse non era mai tornato. Ma questo non lo disse, lo inghiottì assieme alle sue paure.

«Lo so, che può capirmi. Che mi capisce

Tony risucchiò un respiro che gli oscillò tra le guance e incrociò le braccia al petto, così strettamente da sembrare soffocante. Reclinò il mento sul petto, fissando le scartoffie sulla scrivania senza vederle.

«Capisco Pepper, piuttosto,» disse a sorpresa, con un sorriso appena accennato e imbevuto di una malinconia difficilmente collocabile. «La prima cosa che mi ha detto, quando ha scoperto che ero Iron Man, è stata…» scosse la testa, schermandosi per un istante gli occhi con le ciglia. «… che voleva licenziarsi. Perché prima o poi mi sarei ucciso a causa della mia scelta. E che lei non voleva rendersi complice di ciò.»

Tony liberò un risolino muto che gli scivolò tra le labbra assieme a un brutto ricordo ormai divenuto dolce.

«La cosa buffa, a parte il fatto che è stata profetica, è che dopo ci è voluto un altro anno per “ufficializzare” tra noi… anche dopo questa dichiarazione piuttosto palese. E io dovrei essere un genio.»

Peter serrò le labbra, le compresse fino a sbiancarle per trattenere un accenno di sorriso che gli venne spontaneo, nel sentirlo parlare a cuore aperto di aneddoti usati come diversivo, era vero, ma pur sempre parte di lui e vicini al cuore. Era raro, che si aprisse così, e a discapito di tutto fece tesoro di quella confidenza.

Gli rivolse uno sguardo meno ostile, meno infuriato col mondo che non girava più a tempo coi suoi passi. Tony ricambiò con un misto di malinconia e scoramento che non avrebbe mai associato a lui. Stava invecchiando, si rese conto con un blocco nel respiro, e sentì una bolla di ansia tremolante risalirgli alle labbra.

«Pepper ha smesso di cercare di fermarmi da molti anni... lo considera il suo
“fallimento migliore”,
» sospirò sorridendo, con una rara tenerezza nella voce sporcata dall'ombra del senso di colpa. «E nonostante questo, adesso neanch’io voglio essere complice,» concluse, piantando gli occhi nei suoi, e sembrò trattenere un continuo che Peter intuì fin troppo facilmente, con una puntura di spillo al centro del cuore: non di nuovo.

Abbassò lo sguardo, schermandolo col capo appena inclinato e rendendosi conto di averlo fatto per la prima volta nel corso della discussione. Fu una boccata d’aria dopo una lunga apnea. Era possibile sentirsi in colpa per il senso di colpa di qualcun altro? Forse no, ma lui ci stava riuscendo e lo sentiva premere nel petto, odioso. E per questo parlare di nuovo fu ancora più difficile e allo stesso tempo indispensabile, così come rialzare testa e occhi.

«Però lei ha comunque continuato ad essere Iron Man
Non ha rinunciato.»

Tony dirottò lo sguardo altrove, divenendo evasivo e nascondendosi dietro un’illusoria cortina metallica; infine lo puntò di nuovo nel suo, e fu come vedere una sovrapposizione perfettamente coincidente tra il suo volto e la maschera di ferro che si era creato. Scosse appena il capo, la voce bassa ma limpida, carica di quello che, alle orecchie di Peter, suonò come orgoglio latente per se stesso e per lui. Sofferto, ma sincero:

«No. Non ho rinunciato.»

E quella, per Peter, fu una risposta sufficiente a scacciare ogni suo dubbio.



 



 
Note:
[1] Le divise della Sable somigliano molto sia ad alcune armature di Tony, sia a quelle del videogioco Halo, sviluppato appunto da Xbox -> qui.
[2] La Silver Sable International e la sua fondatrice, Silver Sablinova. sono originarie della Symkaria in fumetti e videogioco. Visto che questo Stato non esiste (per ora) nel MCU, ho preferito assimilarle alla Sokovia sia perché più familiare, sia per il collegamento più immediato con i Vendicatori e i vari retroscena ad essi collegati.
NB il titolo è un omaggio a quello di un capitolo del Back In Black fumetto originale.



Note dell'Autrice:

Carissimi Lettori!
No, non è uno scherzo: sto aggiornando davvero! E anche il prossimo aggiornamento sarà in tempo record!
Direi che c'è la possibilità che la fine del mondo sia vicina, se non fossimo già in una situazione precaria a livello globale, quindi mi limiterò a dire che l'unico lato positivo di questa quarantena è aver ritrovato la voglia e il tempo per riprendere in mano la storia. Per il resto, come ho già detto in recenti aggiornamenti, spero che tutti voi e i vostri cari stiate bene e spero soprattutto che questo capitolo serva a distrarvi per qualche minuto. O forse dovrei dire qualche ora, data la lunghezza... e vi va bene che ho spostato un pezzo al prossimo, o vi sareste beccati quasi 10.000 parole in un colpo solo! Come sono magnanima, eh?

Deliri a parte, volevo ringraziare tutti, tutti, ma proprio tutti coloro che hanno aggiunto la storia tra le liste, in particolare le seguite: siete tantissimi e mi si scalda il cuore ogni volta che guardo quel numeretto che per me significa tantissim <3 Se mai vorrete lasciare un commento, siete sempre i benvenuti :')
Un grazie a chi ha commentato gli scorsi capitoli, ovvero
_Atlas_, Miryel, shilyss, T612, Eevaa, ichigouzumaki, Paola Malfoy, ed Erika 97. grazie, ogni parola è importante <3

Vi mando un saluto, con la promessa di aggiornare presto,

-Light-

 
   
 
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