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Autore: futacookies    24/03/2020    4 recensioni
{Longfic • Duncan/Courtney • accenni Trent/Gwen e Alejandro/Heather • commedia romantica}
Duncan Nelson, scapestrata rockstar, nota al pubblico e ai paparazzi per l'eccesso con cui conduce la propria esistenza, viene citato in causa dal direttore dell'Ottawa Royal Palace, di cui - si dice - avrebbe distrutto numerose stanze durante la propria permanenza.
Al suo agente non resta che rivolgersi allo studio legale Fleckman&Fleckman&Strauss&Cohen, per cui toccherà alla sua storica ex, Courtney, tirarlo fuori dai guai.
Dal capitolo 5:
Ma la voleva davvero, la sua attenzione? Oppure era unicamente uno stupido capriccio, l’ombra semisvanita di quello che una volta era stata, con lui? Non lo sapeva, ed era terrorizzata dall’idea di scoprirlo – non ci sarebbe ricascata in alcun modo, le ci erano voluti anni per liberarsi completamente di lui e adesso, che ci era finalmente riuscita, avrebbe fatto qualunque cosa per proteggersi.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Courtney, Duncan, Gwen, Heather, Trent | Coppie: Alejandro/Heather, Duncan/Courtney, Trent/Gwen
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale
Capitoli:
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NdA: salve! Finalmente torno ad aggiornare! Il mio rapporto con questa fic, nel corso degli anni, è stato decisamente costellato da alti e bassi – il solo fatto che mi ci sono voluti quasi quattro anni per produrre otto capitoli è abbastanza vergognoso. Ma sento che questa è la volta buona che riesco a finirla. Il prossimo capitolo dovrebbe uscire per la fine di maggio. Vorrei ringraziare di cuore tutti colori che mi hanno lasciato una recensione, so di averlo detto molte volte, ma è estremamente stimolante sapere di non scrivere solo per me stessa, ma anche per quanti si sono appassionati alla mia storia!
Buona lettura ♥

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«And every gambler knows that to lose is what you’re really there for.»
 
 
  • Capitolo VIII
 
 
Duncan Nelson era un uomo disperato. Cioè, non necessariamente disperato, perché nel caso peggiore avrebbe potuto permettersi il miglior psicanalista della nazione, ma comunque un uomo provato. Ecco, Duncan Nelson era un uomo provato.

Il problema era pensare. Cioè, non proprio l’atto in sé, del pensiero, a cui come essere umano non avrebbe comunque potuto sottrarsi, ma era l’oggetto dei suoi pensieri. Il problema era Courtney. O meglio, il problema era pensare a Courtney, attività che ormai occupava il sessanta per cento delle sue giornate – gli faceva piacere pensare che il restante quaranta per cento fosse occupato da azioni assolutamente necessarie quali dormire, mangiare, pisciare e scolarsi tutte le lattine di birra a cui aveva accesso.

In realtà non voleva pensare a Courtney, di questo ne era sicuro. Ma era anche tristemente sicuro del fatto che nelle ultime settimane non fosse riuscito a combinare molto altro: da ben prima della sua chiacchierata con Gwen – che aveva sortito un effetto opposto a quello sperato – non faceva altro che arrovellarsi il cervello su quella ragazza e sul perché si stesse arrovellando il cervello su di lei.

La soluzione era in realtà lineare, tant’è che perfino lui l’aveva suo malgrado capito, ma preferiva comunque ignorarla e sforzarsi di trovare di un motivo secondario. Voleva convincersi di star analizzando la situazione per sferrare poi qualche tipo di attacco – non aveva ancora ben chiaro che tipo di attacco, né tantomeno perché avrebbe dovuto attaccarla, ma era così. Certamente era così.

L’aspetto peggiore era che anche Gwen sembrava aver trovato la soluzione, per cui ogni tanto ammiccava in maniera complice quando li lasciava soli: Courtney era convinta che fosse un loro modo per torturarla ulteriormente, e Duncan non poteva essere più che d’accordo, anche se quello torturato a conti fatti era lui.

Si era innamorato di Courtney? Sì.

Era disposto ad ammetterlo, anche solo nei suoi pensieri? Assolutamente no.

Per cui continuava a guardarla imbambolato, come in quel momento, mentre lei gli spiegava puntigliosamente tutti gli appunti della sua agenda, motivi per i quali lui avrebbe dovuto collaborare con la non più tirocinante Lizzie per risentire alcune testimonianze che non erano chiarissime o risultavano discrepanti.

«Duncan? Ti prego dimmi che hai capito qualcosa di quello che ti ho detto!»

«Sabato devi andare dalla sarta a ritirare il vestito, martedì alle sei devi essere dall’estetista, l’addio al nubilato di Gwen è venerdì per cui migrerò da Trent – onestamente avrei preferito fare da badante alla vecchietta qui affianco – e la parrucchiera sarà qui alle sette all’alba del grande giorno. Ah, il mio appuntamento con la tua segretaria è giovedì alle due e mezza.»

Aveva risposto senza neanche rifletterci, sciorinando la serie di informazioni che aveva appresso pendendo dalle sue labbra e forse era stato fin troppo incauto, perché adesso Courtney lo guardava come se gli fosse spuntata una seconda testa.

«Ho… detto qualcosa di sbagliato?», le chiese, pregando che la sua seconda testa e l’espressione sconvolta di Courtney sparissero al più presto.

«No- be’, sì- Lizzie non è la mia segretaria, ma-. Mi stavi davvero ascoltando?»

Certo che la stava ascoltando. Non faceva altro che ascoltarla: aveva pazientemente sopportato tutti i commenti alle notizie del telegiornale, aveva quasi origliato le noiosissime chiamate con sua madre, aveva definitivamente origliato le molto meno noiose conversazioni con Heather, che dimostrava di aver ampliato notevolmente la sua conoscenza sulla tortura. L’aveva sentita anche borbottare nel sonno, ma onestamente erano più un miscuglio di mugolii che parole vere e proprie, per cui non poteva contare come ascoltare.

Questo però ovviamente non gliel’avrebbe detto, perché lui non era innamorato di lei e quindi non c’era bisogno di indulgere nella questione un istante di più.

E qualunque divinità governasse il karma doveva essere d’accordo con lui, perché l’arrivo di una Gwen assonnata e stropicciata, ma estatica come lo poteva essere qualunque futura sposa, gli risparmiò l’atrocità di doverle davvero rispondere.

«Ehi, Courtney, alla fine hai chiesto ad Edward se potev- se poteva lasciarti venerdì prossimo libero?»

Courtney aveva iniziato a gesticolare violentemente, tentando di camuffare il tutto con un improvviso colpo di tosse e Gwen aveva evidentemente appena cambiato argomento. Duncan cercò di cogliere qualche indizio sul perché ci fosse qualcosa che Courtney chiaramente non voleva fargli sapere, ma dopo aver mandato giù una tazza di caffè Gwen si chiuse in bagno – senza nemmeno alludere al fatto che li stava lasciando soli! – e Courtney aveva rapidamente chiuso agende e recuperato documenti per dirigersi fulminea verso la porta.

Probabilmente Duncan avrebbe trascorso il resto della giornata interrogandosi su quel nuovo mistero – sì, era annoiato, sì, era colpa della noia se aveva iniziato a trovare Courtney interessante, sì, non vedeva l’ora che quel processo finisse per riappropriarsi della sua ben più elettrizzante vita – se l’arrivo di John non l’avesse salvato.

John Smith, suo agente da più di tre anni, era effettivamente un dono dal cielo. Duncan sapeva perfettamente riconoscere i momenti in cui la sua vita colava a picco da quanto fosse contento dell’esistenza del suo agente, che si prendeva tutte le rogne e gli permetteva – di solito – una vita in cui le sue azioni non avevano alcun tipo di conseguenze.

Dopo essere entrato, esordendo su come tutte le testate scandalistiche non stessero facendo altro che parlare di lui – Courtney se ne era profusamente lamentata un paio di giorni prima, se chiudeva gli occhi poteva ancora sentirla sbraitare –, gli annunciò che era il caso di iniziare a pensare al prossimo album – e soprattutto al prossimo tour, il tour era fondamentale per cercare di raddrizzare la sua immagine.

«John, non diciamo cazzate: i miei fan non hanno bisogno che la mia immagine venga “raddrizzata”, semmai dopo tutto questo trambusto mi toccherà dare scandalo per due mesi di fila pur di non perdere popolarità!», protestò, conoscendo perfettamente il suo target.

John scosse la mano, come a voler cancellare tutto quello che aveva appena detto: «Non hai idea della pubblicità che ti ha fatto questa situazione. Ormai tutto il Canada conosce il tuo nome, non c’è un singolo talk show che non abbia almeno un segmento riguardante il caso. Sulle piattaforme di streaming i tuoi singoli hanno subito un’impennata di ascolti che la tua etichetta non si sarebbe aspettata nemmeno in cinque anni: devi pensare che il tuo target è cambiato, si è ampliato e non a tutti piace l’immagine di “cattivo ragazzo a tutti i costi”.»

Duncan sbuffò contrariato. Lui non era un cattivo ragazzo, almeno non a tutti i costi. Sapeva però che se una direttiva veniva dai piani alti, era difficile ignorarla senza conseguenze.

«Inoltre», aggiunse molto contrariato, «sono riuscito a contattare quella benedetta ragazza, come mi avevi chiesto: attualmente è in Europa, la sua segretaria non ha la minima idea di quando rientrerà in Canada, ma ho lasciato il mio numero e chiesto di contattarmi non appena fosse possibile. Ti toccherà dire alla povera Courtney di riorganizzare la sua strategia.»

Povera Courtney. Pff.
 

 
***

 
La povera Courtney stava passando un brutto quarto d’ora. Un terribile quarto d’ora. Probabilmente il quarto d’ora peggiore della sua vita da quando Scott le aveva praticamente distrutto casa nel tentativo di uccidere Alejandro.

Non si sarebbe mai aspettata un tradimento del genere: questo era un voltafaccia allo stato puro.

«Eddie», piagnucolò, cercando di sembrare allo stesso tempo minacciosa, «non puoi farmi questo.»

Edward Fleckman, che conosceva da più anni di quanti le piaceva ammettere e che avrebbe dovuto essere suo amico, la guardava serenissimo, come se non l’avesse appena presa metaforicamente a calci.

«Courtney, carissima.», le rispose, e Courtney seppe che le sarebbe pure toccata un’arringa difensiva per giustificare lo scempio che aveva appena permesso accadesse. «Non credere che ti abbia detto no per pura cattiveria. Siamo nel ventunesimo secolo, abbiamo sdoganato la parità dei sessi – circa -», aggiunse, vedendola alzare gli occhi al cielo, «e mi sembra assolutamente inadeguato che una donna così forte e sicura di sé debba ricorrere a certi mezzucci per non fare la figura della zitella!»

«Non ho mai detto che avrei fatto la figura della zitella!», protestò livida. «Vorrei solo evitare che la damigella d’onore attirasse l’attenzione più per l’assenza di un accompagnatore che per altro!», specificò, trascinando nelle sue parole l’ombra del piagnucolio precedente.

Che cosa ridicola.

Non aveva dato peso alla questione finché Heather non aveva annunciato che si sarebbe presentata senza accompagnatore, per dimostrare che si era finalmente sbarazzata di suo marito e che non aveva bisogno di un uomo per sentirsi realizzata. Ora, sia be chiaro, nemmeno Courtney aveva mai avuto bisogno di uomo per sentirsi realizzata – questo era il motivo per cui aveva troncato la relazione con Scott quasi a cuor leggero, dopo anni di alti e bassi – ma semplicemente- semplicemente- semplicemente non voleva fare la figura della zitella.

Ecco, l’aveva ammesso.

E Edward, che era praticamente la sua ultima speranza, un’ancora di salvezza, le aveva detto che la domenica del matrimonio di Gwen voleva partecipare ad una conferenza a Montréal e non ci avrebbe rinunciato nemmeno per tutto l’oro del mondo – figuriamoci per lei.

Adesso le toccava tornare a casa, sconfitta, e ammettere che sarebbe stata sola al matrimonio della sua migliore amica, che avrebbe fatto la figura della zitella, della donna in carriera che nessuno avrebbe mai amato e alla fine, in fondo, era giusto così. Perché lei forse non era ancora una vecchia zitella, ma di certo si sentiva una persona che aveva sacrificato la possibilità di una relazione per amore della ben più soddisfacente carriera.

La carriera non l’avrebbe mai tradita, non avrebbe mai avuto ripensamenti sul loro rapporto, non sarebbe scomparsa per mesi per poi presentarsi alla porta di casa sua con un mazzo di fiori e delle scuse a cui non credeva nessuno. La sua carriera era lì per ricordarle il suo valore di avvocato e per permetterle di raggiungere fama e successo.

Certo, pensò leggermente infastidita, per colpa della sua carriera adesso stava convivendo con Duncan.

Duncan che in quel momento stava sonoramente russando sul suo divano, circondato da pacchi di patatine vuoti e lattine di birra – e, ecco, se ci fosse stato qualcuno che amasse Duncan, forse quella persona avrebbe trovato la scena quanto meno adorabile. In fondo poteva essere considerato adorabile. Oltre che disgustoso. Assolutamente disgustoso.

«Duncan!», strepitò, lasciando cadere la sua borsa con un tonfo. Lui rotolò giù dal divano prima di scattare in piedi, borbottando qualcosa che assomigliava molto a “Ti prego, John, altri cinque minuti”.

«Ah, Courtney, sei tu.», notò con disappunto. Si avviò verso il tavolo della cucina e le passò una serie di note che John Smith aveva lasciato per lei.

«Ti prego, dimmi che sono buone notizie. Se dovessi ricevere anche solo un’altra cattiva notizia potrei tirar giù questo palazzo a forza di imprecazioni.», spiegò sconsolata.

Duncan fermò il braccio a mezz’aria e ritirò i fogli.

«Questi è meglio se li leggi domani, allora.»

Sbuffò esasperata e si lasciò cadere sul divano, stando attenta ad evitare le briciole.

«Pulisci questo disastro e fammi un riassunto di quello che dovrei sapere.»

Duncan roteò gli occhi e iniziò a raccogliere il disastro ai suoi piedi, spiegandole come la sua speranza di una via diretta alla vittoria fosse attualmente in vacanza in Europa e non si aveva la minima idea di quando sarebbe tornata.

Se non fosse stata una donna forte e indipendente – giusto per vederla come Edward – probabilmente sarebbe scoppiata a piangere. In realtà era da un po’ che aveva voglia di piangere e forse le avrebbe fatto anche bene, sfogarsi così. Sicuramente le avrebbe fatto bene, sfogarsi. Forse doveva piangere davvero.

Quando iniziò a singhiozzare, Duncan sospirò rumorosamente. Avrebbe voluto urlargli contro, dicendogli che tutto quel pasticcio era colpa sua – verissimo – e che quindi non aveva alcun diritto di sospirare.

Ma. Ma sapeva perfettamente che avere a che fare con lei e i suoi isterismi e le sue ripicche non doveva essere stata una passeggiata, perciò restò in silenzio e aspettò che lui le dicesse qualcosa.

Invece Duncan girò le spalle e andò in cucina. Non che fosse poi così lontano: riusciva ancora a distinguere chiaramente la sua figura e a sentire perfettamente tutti i rumori che stava facendo; quando tornò, pochi minuti dopo, aveva in mano un bicchiere d’acqua e una pila di fazzoletti. Sprofondò sul divano, accanto a lei, e per un attimo ebbe il terrificante istinto di buttarsi tra le sue braccia e piangere ancor più forte.

Era proprio patetica. Sbuffò infastidita dal suo stesso comportamento – da quando le andava bene mostrarsi così debole di fronte ad una persona che avrebbe dovuto essere un completo estraneo, con cui avrebbe dovuto avere un semplice rapporto lavorativo? Da quando le andava bene accettare la pietà di Duncan?

Tentò di alzarsi, ma Duncan le posò una mano sulla spalla e si accertò che restasse seduta.

«Bevi.», le disse, piazzandole il bicchiere in mano. «E non pensare che vederti così mi faccia piacere.», aggiunse, notando come stesse effettivamente esitando nell’accettare quelle sue attenzioni.

Courtney non riuscì a trattenere un moto di rabbia. «Smettila di fare così!», gli ordinò, scattando in piedi. «Smettila di comportanti come se di me ti importasse qualcosa!», gridò, preparandosi a barricarsi in camera sua.

«Ma di te m’importa!», sbottò Duncan, alzandosi a sua volta.

Courtney crollò sul divano, mentre Duncan iniziò a camminare avanti e dietro per il minuscolo soggiorno. 

«Duncan…», lo chiamò stancamente, mentre sorseggiava la sua acqua. Lui si fermò e sembrava molto indeciso, molto confuso e forse addirittura più stanco di quanto non lo fosse lei; si grattò la nuca, indugiò qualche altro secondo e poi si decise a parlare.
 

 
***

 
«Non è come-», come pensi, avrebbe voluto dirle, ma a cosa stava pensando Courtney in quel momento? Non aveva idea del perché avesse iniziato a piangere e di certo non aveva idea del perché in quel momento stesse ferma e zitta e lo stesse guardando come se si aspettasse che calasse la spada di Damocle sulla sua testa. Avrebbe dovuto sbraitare. Se c’era una cosa che lo rassicurava, era sentire Courtney sbraitare – perché quella Courtney gli era familiare, sapeva come gestirla e soprattutto gli confermava che non aveva davvero fatto nulla di irreparabile.

«Non è come sembra.», si decise infine.

Courtney rise appena.

«E com’è che sembra?», gli domandò, fissando ostinatamente il bordo del suo bicchiere.

Guardami, avrebbe voluto chiederle. Guardami e leggimi in faccia quello che non ho le palle di dire.

Invece Courtney non lo stava guardando.

«Sembra che io sia innamorato di te.», cacciò fuori.

«E non lo sei?», gli rispose caustica.

«No.»

Courtney sembrò tirare un sospirò di sollievo.

«Bene.», commentò, alzandosi.

«Bene.», concordò Duncan, e doveva davvero sembrare un idiota colossale, lì in piedi mentre annuiva con vigore ad una delle più grandi panzane che fosse mai stato in grado di produrre.

«Allora io vado a dormire.», gli annunciò, urtandolo appena mentre si allontanava.

Forse avrebbe dovuto fermarla. Avrebbe dovuto fermarla e ammettere la verità. Ma quale verità? Che era innamorato di lei? Che non voleva essere innamorato di lei? Che non aveva nemmeno la faccia tosta di ammetterlo?

Restò in silenzio, fissando il punto del corridoio in cui Courtney si era infilata scomparendo alla sua vista.
 

 
***

 
«Sei un codardo.», affermò Gwen dopo che ebbe finito di raccontarle lo scambio di qualche ora prima con Courtney. «Sei un codardo, sei un idiota e sei un disastro ambulante.»

Duncan, che si era rivolto a lei un in moto di disperazione, sperando di cavarsi fuori da quella storia facilmente e facendo meno danni possibili, non poté fare altro che annuire pazientemente. Dopo tutti quegli insulti, forse, Gwen sarebbe stata di grande aiuto.

«Come speri di risolvere una situazione del genere?», lo accusò poi.

«Speravo che me lo dicessi tu.», brontolò in risposta.

Gwen gli rivolse uno sguardo che lo fece sentire come un lattante – piccolo e stupido.

«Speravo che me lo dicessi tu.», lo scimmiottò in risposta. «Cosa ti sembro, la fata madrina?»

«Magari la fata turchin-», tentò, ma Gwen gli tirò un pugno nello stomaco.

«Ascoltami, Duncan. È molto importante che tu capisca quello che ti dico. Sei un adulto, giusto?»

Duncan annuì.

«E sai comportarti come un adulto?»

Duncan esitò, poi riprese ad annuire.

«E cosa fanno gli adulti in questi casi?»

Duncan continuò ad annuire. Gwen gli tirò un altro pugno.

«Gli adulti parlano in questi casi! Non si fanno i dispetti come i sedicenni!», sbottò contro di lui.

«Facciamo una cosa:», gli propose. «Domani mattina parlerai con Courtney e le dirai che vuoi una seconda? Terza?», lo guardò dubbiosa, contando sulle dita, «Un’altra possibilità. E dille anche che vorresti accompagnarla al mio matrimonio, già che ci sei.»
 

 
***

 
Chiedile un’altra possibilità e accompagnala al matrimonio di Gwen.

Chiedile un’altra possibilità e accompagnala al matrimonio di Gwen.

Chiedile un’altra possibilità e accompagnala al matrimonio di Gwen.

Quanto poteva essere difficile?

Forse più del previsto. Era sicuro di volergliela chiedere, un’altra possibilità? Era sicuro di volerla in primo luogo? Si trattava probabilmente della più grande stronzata che avesse mai fatto. Certo, magari le cose avrebbero potuto funzionare, per una volta, ma non era sicuro di riuscire a sopportare il momento in cui tutto sarebbe andato a rotoli – perché sarebbe andato a rotoli, lo sapeva, era solo questione di tempo prima che lui compisse un passo falso o che Courtney svalvolasse come suo solito.

Forse era meglio starsi zitto. O magari si sarebbe pentito anche di non aver parlato. Com’era possibile che ogni volta che sperava che Gwen risolvesse i suoi problemi, finisse solo per peggiorarli? Erano adulti, certo, e avevano esaurito il loro arsenale di dispetti, sicuro, ma non erano capaci di comunicare come due persone normali. Non tra di loro, almeno.

Forse avrebbe potuto soltanto proporsi di accompagnarla al matrimonio di Gwen e vedere com’era la situazione. Se avesse accettato, tanto per dirne una. Se fossero riusciti a starsi accanto amichevolmente in un contesto esterno rispetto alle quattro mura a cui ormai si erano abituati. Senza pensare al fatto che entro una settimana non ci sarebbe stata più Gwen a mediare i loro litigi e i loro musi lunghi.

, pensò, magari dovrei solo chiederle se l’andrebbe che l’accompagnassi. Avrebbe potuto misurare la sua reazione, magari capirci un po’ di più, trovare un momento migliore per parlarle e-

«Dio, Duncan, sei così rumoroso quando pensi.», lo riprese Courtney, appena sveglia.

«Non sto pensando.», le rispose indispettito.

Gli adulti non si fanno i dispetti. Gli adulti non si fanno i dispetti.

«Infatti tu non sai pensare.», lo assecondò Courtney. «Ma se sapessi farlo, saresti fastidiosamente rumoroso.»

Se chiudeva gli occhi, Duncan riusciva a vedere lo sguardo pieno di rimprovero di Gwen.

Doveva parlare.

«Riguardo ieri sera…», iniziò titubante, ma Courtney lo fermò prontamente.

«Non ti preoccupare.», gli annunciò agguerrita. «So che può sembrare una fase negativa, per noi, ma ne usciremo.», concluse.

Duncan la fissò come se le fosse uscita un’altra testa. Che avesse già capito che le aveva mentito? Che provava qualcosa per lei? Che fosse addirittura disposta a ricominciare senza prima costringerlo all’umiliante prova di strisciare proclamando i suoi sentimenti?

«Che c’è?», gli chiese, guardandolo a sua volta come se gli fosse spuntato un terzo occhio. «La mia brillante difesa non poteva basarsi certo su una sola, labile coincidenza. Mi inventerò qualcos’altro e ti tirerò fuori dai pasticci.»

Eh?

Eh?

«Eh?», le rispose, confuso. Non stavano parlando della stessa cosa, questo era certo. Ovviamente, Courtney aveva pensato che stesse mettendo in dubbio le sue capacità e si era prontamente difesa. Forse non sarebbero mai riusciti a capirsi. Per questo doveva parlare.

«No, in realtà io volevo chiederti un’altra cosa.», le disse, pregando di essere abbastanza rapido e coinciso da farle arrivare il messaggio in modo meno confuso possibile. «Volevo chiederti se-», iniziò e poi si fermò per guardarla e aveva un’adorabile espressione da ebete, come se stesse a malapena seguendo le sue parole. «Volevo chiederti se potevo accompagnarti al matrimonio di Gwen.»

 
***

 
«Volevo chiederti se potevo accompagnarti al matrimonio di Gwen. Perché, sai, alla fine ha invitato anche me e io proprio non conosco nessuno, quindi speravo che potessi farmi compagnia, ecco.»

Courtney percepiva l’arrivo di un forte mal di testa. In realtà, era almeno dalla sera precedente che riusciva a sentire una terribile pressione nella zona frontale e almeno adesso sapeva dare un nome, un cognome e anche un volto, al suo incipiente mal di testa.

Duncan semplicemente non poteva uscirsene con frasi del genere. Non dopo averle sbattuto in faccia che non era innamorato di lei, non dopo che aveva fatto pace con se stessa e il suo essere una donna single e indipendente. Non dopo che aveva origliato mezza conversazione con Gwen, la sera prima, in cui la sua migliore amica gli suggeriva di parlare – per dirle cosa? – e di fungere da accompagnatore.

Non era una buona idea, se lo sentiva nelle ossa: come quando Gwen comprava una vaschetta di gelato troppo grande, ma la finivano comunque in una sola serata, come quando Scott le aveva chiesto di riprovarci, un’ultima volta, e lei gli aveva detto sì, come quando Edward aveva iniziato a prometterle un aumento e il lunedì libero e aveva accettato quel benedetto caso.

Non era una buona idea e avrebbe dovuto dirgli di no. Immediatamente. Avrebbe dovuto gettargli un metaforico secchio di acqua gelida in testa e dirgli che era un buzzurro e un idiota e che non avrebbe dovuto giocare con i suoi sentimenti e poi inventarsi una scusa ancora più idiota di lui per farle un favore. Che lei non gli aveva neanche chiesto, per inciso. Perché era una donna forte e indipendente.

Ma anche lei aveva diritto a sentirsi insicura, no? Anche lei aveva diritto a darsi una seconda possibilità. A provare sentimenti che fossero diversi dall’odio e l’autocommiserazione. Aveva il diritto di accettare, di farsi del male e di guardarsi allo specchio ripetendosi: “Te l’avevo detto.”

Sbuffò, per fingersi almeno un po’ scocciata della situazione: non avrebbe finto di avere un accompagnatore, per quando l’idea potesse essere allettante e non avrebbe rifiutato. Non era una buona idea, certo, ma forse era troppo presto per deciderlo.

«Sì, Duncan.», gli disse. «Va bene.», aggiunse, più per se stessa, per abituarsi all’idea. «Puoi accompagnarmi al matrimonio di Gwen. Come amico.», specificò, sentendosi ancora ferita dalle sue parole della sera precedente – perché ci aveva sperato, per un solo momento, ci aveva sperato e ancora non accettava il modo in cui aveva frantumato le sue speranze.

«Come amico, certo.», concordò lui.

«Bene.»

«Bene.»

Non andava bene per niente.






 
  
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