Crossover
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Autore: Registe    24/03/2020    4 recensioni
Quarta storia della serie "Il Ramingo e lo Stregone".
La guerra tra l'Impero Galattico e la famiglia demoniaca si è conclusa, ma non senza un costo. Vi è una cicatrice profonda che attraversa mondi e persone, le cambia, rimane indelebile a marchiare i frammenti di tutti coloro che hanno la fortuna di essere ancora vivi. Qualcuno decide che è il momento giusto per partire, cercare di recuperare qualcuno che si è perso. Qualcuno decide di dimenticare tutto e lasciarsi il passato alle spalle.
Qualcun altro decide invece di raccogliere i frammenti di una vita intera e metterli di nuovo insieme, forse nella speranza che lo specchio rifletta qualcosa di diverso.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Film, Libri, Videogiochi
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Ramingo e lo Stregone'
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Capitolo 2- Colpo furtivo







Una Twi'lek











Narratore: “No, Registe, ricominciamo? Sul serio?”
Registe: “Ci hai chiesto di tagliare sui flashback dei nostri personaggi preferiti. Abbiamo accettato la tua richiesta ed invece di scrivere dei flashback abbiamo fatto direttamente una puntata speciale a loro dedicata. Adesso non credi che sia il caso di rientrare nei ranghi con le tue richieste?”
Narratore: “Voi abusate della mia pazienza!”
Registe: “E tu della nostra. Suvvia, stavolta non si tratta di Vexen, non sei felice?”
Narratore: “Beh, è già un passo avanti dalla vostra monotematica senilità, ma c’è ampio spazio di miglioramento. So che avete nel cassetto la questione della genesi di Sephiroth, perché non narriamo quella?”
Registe: “Da quando in qua ha accesso ai nostri cassetti segreti?”
 
 
Tre.
Sì, non si era sbagliata. Un Tarc, due umani.
Il Tarc sarebbe stato il problema, ovviamente.
Zam si strinse contro una roccia, trattenendo il respiro. I suoi inseguitori dovevano conoscere bene quel posto, perché procedevano molto più spediti di quanto avesse fatto lei; non usavano distorsori acustici per celare i loro passi ed uno degli umani doveva portare più armi di un droide IG, almeno a giudicare dal fracasso che faceva ogni volta che saliva su un masso.
Rimase in ascolto.
Il clangore metallico dell’umano arrivava in anticipo rispetto agli altri suoni. Anche i grugniti del Tarc, che superavano i commenti dei suoi compagni di almeno una decina di toni, le giungevano con qualche secondo di ritardo. Poteva trattarsi un effetto acustico di quelle grotte, ma Zam aveva trascorso troppi anni nel sottosuolo di Zolan per non accorgersi di quel dettaglio ed in quel momento aveva bisogno di tutte le informazioni possibili.
Entrare lì dentro era stata la sua unica possibilità. Se non fosse stato per i suoi riflessi sarebbe rimasta coinvolta nell’esplosione dello speeder che aveva rubato nella fuga, e la scelta era stata tra vagare allo scoperto lungo la sabbia del deserto di Tatooine o buttarsi in quella caverna rocciosa nella speranza di non lasciare tracce e convincere i suoi inseguitori che fosse morta nella distruzione del veicolo. Speranza vana, senza dubbio. I bastardi non erano le guardie svogliate da due soldi che aveva atterrato per uscire dalla fortezza.
Erano cacciatori di taglie al servizio quasi esclusivo di Dreddon de Hutt. In poche parole, i migliori.
Si concentrò sui suoni, le mani strette contro calcio del blaster. Le parole del Tarc, biascicate in un Basic difficilmente comprensibile, le giunsero ovattate, come se il loro proprietario avesse cambiato percorso rispetto ai suoi compagni. Era rimasto indietro, ma l’eco la avvisò che si era spostato verso destra, forse in uno dei passaggi laterali che aveva ignorato quando era entrata lì dentro e le fessure nella roccia le avevano portato una zaffata di animali in decomposizione. Tatooine era famoso per le centinaia di creature senza nome che affollavano i suoi deserti e lei non era sicura di preferire la tana di uno di quei mostri alla canna del blaster dei suoi inseguitori; l’idea di inoltrarsi ancora un po’ tra quegli spazi angusti la sfiorò, ma se i tre mostravano tutta quella sicurezza voleva dire che quella grotta all’apparenza piuttosto estesa si sarebbe trasformata dopo pochi passi in un vicolo cieco. Le rocce krayt che componevano la caverna erano in grado di schermarla dai più semplici rilevatori termici, ma non aveva dubbi che quei tre possedessero scanner da migliaia di crediti ciascuno.
O forse non avevano alcun rilevatore attivo e stavano solo sentendo i battiti del suo cuore che pulsava all’impazzata; l’incavo in cui si era rannicchiata era ben nascosto, ma sapeva che sarebbe stata questione di minuti e doveva restare lucida se avesse voluto uscire di lì intera. Valutò l’ipotesi di trasformarsi in una razza diversa per guadagnare velocità -un Dug, ad esempio- ma aveva eseguito l’ultimo cambio di forma pochi minuti prima per salvarsi dall’esplosione e la pelle le bruciava ancora così tanto che sarebbe crollata a metà percorso per il dolore. Si sporse lentamente, gli occhi fissi sulla luce che filtrava dall’uscita: un paio di stalattiti avrebbero dovuto fornirle la copertura necessaria dalle armi dei due umani, ed in velocità avrebbe potuto battere il Tarc senza grossi problemi. Controllò ancora una volta le celle energetiche dell’arma, poi contrasse ogni singolo muscolo del corpo ed attese.
I due umani passarono a meno di un braccio da lei. Quello armato di tutto punto aveva persino un cannone laser portatile attaccato dietro la schiena, e non aveva bisogno del documento di identità per riconoscerlo come un fottuto corelliano. Abbaiava nel comlink senza preoccuparsi di passare inosservato, guadagnandosi sguardi furiosi dal suo compagno, un altro umano dai capelli chiari che gli arrivava alla spalla. Non aveva armi a vista, ma l’insegna nera e verde sul lato destro della cintura non necessitava di ulteriori introduzioni.
I cacciatori di taglie del Sindacato Salaktori spesso non avevano bisogno nemmeno di un’arma per staccare la testa alle loro prede.
Si accorse di aver smesso di respirare.
“Vieni fuori, puttana!” gridò il corelliano. Il blaster che impugnava nella mano sinistra emise il normale ronzio di attivazione; l’attimo successivo l’aria intorno al cacciatore di taglie vibrò del colore azzurrino di uno scudo deflettore portatile che distrusse la sua unica possibilità di emergere dal proprio nascondiglio e sparargli un colpo nella nuca prima di venire fermata dai suoi due compari. Il Tarc non era in vista, ed il corpo le implorava di uscire da lì il prima possibile, rubare lo speeder che i suoi inseguitori avevano parcheggiato fuori e cercare di raggiungere lo spazioporto di Mos Eisley. Cercò di concentrarsi sull’uscita e sul dimenticare quanto i corelliani fossero famosi per colpire un garsmelt a più di duecento passi senza un mirino.
Poi iniziò a correre.
Nelle sue orecchie non fece in tempo ad arrivare la bestemmia del cacciatore del Sindacato che la stalattite verso cui era diretta esplose in centinaia di pezzi. L’odore di aria ionizzata le salvò la vita, spingendola ad evitare l’area dell’esplosione, ma anche così il pulviscolo le andò negli occhi, accecandola. Alle sue spalle il blaster del corelliano vomitò altri cinque colpi nella sua direzione, e se non fosse stato per le rocce frammentate della stalattite distrutta uno di quelli le si sarebbe piantato nelle spalle trasformandola in carne carbonizzata. Si portò le mani alla faccia nel tentativo di vedere, ma un altro colpo esplose ad un palmo dalla sua testa e continuò a correre verso la luce dell’esterno. Senza rallentare né voltarsi sparò a caso alle proprie spalle per darsi copertura, ma a giudicare dalle voci capì che nessuno dei suoi colpi era andato vicino agli assalitori. Corse col cuore in gola, si accasciò contro una stalattite e sparò di nuovo. Si voltò nella speranza di scorgere il luccichio dell’artiglieria del cacciatore corelliano, ma l’aria era satura di polvere e sarebbe stata una follia rallentare la corsa. Riprese fiato una seconda volta e scattò in avanti.
Un dolore folle le partì all’altezza del ginocchio sinistro e l’attimo dopo si ritrovò a terra, la faccia immersa nella sabbia.
Senza nemmeno guardare tirò la gamba contro il proprio petto, ma al contrario venne trascinata indietro e un sasso le ferì il labbro. Sollevò il blaster e tentò un colpo alla cieca, poi qualcosa di acuminato le si strinse intorno al polso e fu costretta a mollare la presa; la mano libera scattò sul manico della vibrolama mabari che teneva al fianco e la fece saettare in avanti verso qualsiasi cosa la stesse inchiodando a terra. La lama luminosa mandò un ronzio quando impattò contro l’obiettivo, eppure non affondò come Zam aveva sperato. Quando la sabbia le si diradò davanti agli occhi, però, l’unica cosa che riuscì a vedere furono le ultime scintille della sua arma guizzare per poi svanire sul carapace del Tarc.
Mollò la presa sull’arma e tentò di divincolarsi. Il ginocchio ed il polso erano bloccati dalle enormi chele della creatura, e se non fosse stato per i propri bracciali probabilmente avrebbe perso anche la mano. Con la gamba libera tirò un calcio, ma per poco non si sfracellò il piede sul carapace nemico. Fece appello a tutte le proprie energie per trasformarsi in un Dug e scivolargli dalla presa, ma il dolore le corse contro tutta la spina dorsale e il Tarc le piegò il braccio oltre la schiena in modo così innaturale che le strappò un urlo.
“Ottimo lavoro, Fascyn”.
L’uomo del Sindacato Salaktori fece un cenno con la testa.  Il Tarc grugnì qualcosa nella sua lingua natale e la rivoltò con la schiena a terra senza nemmeno sentire i suoi calci di protesta. Zam provò a divincolarsi ed usare una delle rocce a portata di mano come arma contundente, ma la punta di un elettrobisento le mandò una scarica violenta all’altezza della gola e fu costretta ad abbandonare la stretta sul sasso. Cercò di afferrare con la mano libera l’estremità dell’elettrobisento, ma una seconda scossa partì dal manico e retrasse le dita in tempo. Dall’altra estremità il ghigno del cacciatore Salaktori fece capolino da sotto la pesante sciarpa. “Secondo me Dreddon ci darà anche un piccolo extra se gli riportiamo questo scherzo di natura prima del tramonto”.
“Uno scherzo di natura davvero singolare. Giuro sul culo del capo che questa è la prima cambiapelle che vedo così da vicino”.
Il corelliano si chinò su di lei incurante della punta sfrigolante del bisento. Puzzava di sudore e di keela. “Niente in contrario se l’extra me lo prendo adesso?”
“Dreddon non ha detto nulla al riguardo. Basta che non la ammazzi” disse il Salaktori. La punta dell’arma abbandonò il suo collo e Zam fece per divincolarsi, ma la fermò la canna del blaster del corelliano che le premette contro la guancia. “Tu adesso ti trasformi in una Twi’lek, puttana. Una blu, come piace a me. E se farai la brava giuro che ti faccio anche divertire!”
“Scordatelo”.
Se avesse potuto gli avrebbe sputato dritto in un occhio, ma al suo rifiuto la chela del Tarc le torse la gamba.
Zam non riconobbe la propria voce nel grido che ne seguì, ma esplose in tutta la caverna ed anche nella sua testa quando il dolore partì dal ginocchio divelto e dalla gamba piegata in modo del tutto innaturale. Pregò di svenire, ma il corelliano le afferrò la testa e tra le lacrime fu costretta a fissare di nuovo la sua faccia butterata. “Ripetilo, cambiapelle. Ma ti ricordo che Fascyn può ancora spaccarti un’altra gamba”.
Il dolore non si fermava più.  Provò a stringere i denti ed a smettere di gridare, ma in tutta risposta la chela strinse ancora.
Non l’avrebbero ammazzata in nessun caso.
Il pensiero la attraversò come un coltello gelido, più forte del dolore alla gamba. Il corelliano non avrebbe fatto partire un colpo dal blaster nemmeno per errore, neanche se lo avesse mandato su tutte le furie.
Lentamente, ignorando le proteste del suo corpo, iniziò a mutare.
“Te lo avevo detto, Nall” disse il corelliano. “Le donne per me fanno qualsiasi cosa”.
Cambiare forma richiedeva concentrazione.
La prima cosa che iniziava a bruciare era la pelle, indipendentemente dalla trasformazione. Mutare il colore, far crescere squame o peli, la pelle iniziava a tirare come se gliela volessero strappare di dosso, talvolta sembrava come se le avessero infilato a forza il viso nelle pozze acide di Mustafaar. Poi le ossa iniziavano a stridere, a torcersi, ed occorreva rimanere lucidi e avere il coraggio di mutare fino alla fine, perché interrompere la trasformazione a metà avrebbe bloccato il clawdita in una forma indefinita, spesso con una gabbia toracica informe o un cranio incompleto che avrebbero significato morte certa. Occorreva sentire il collo mandare rumori indescrivibili per reggere la trasformazione della testa, più di una volta Zam aveva avuto bisogno di antidolorifici per non perdere il controllo o svenire; ed in quel momento non poteva permettersi nessuna delle due alternative.
I maschi umani adoravano le femmine Twi’lek. Tutti, senza eccezione. Anche i benpensanti che si riunivano nei salotti di Coruscant per combattere la schiavitù ancora praticata nei barbari mondi dell’Orlo Esterno diventavano sempre meno accaniti sulla questione quando nei loro ricchi bordelli arrivavano ragazze Twi’lek chiaramente senza alcun permesso regolare. Impazzivano per i loro colori, per le loro gambe perfette, per quei corpi che sembravano soddisfare qualsiasi gioco lussurioso.
Impazzivano per l’odore afrodisiaco che mandavano i lekku, le loro protuberanze mobili che le strapparono un ultimo grido quando le fece crescere ai lati della testa. Il corelliano gliene afferrò subito uno e se lo strofinò contro la mano, ma il cervello di Zam era concentrato su un solo dettaglio, l’unico particolare che le importasse e che la travolse nel momento in cui lo replicò nel proprio corpo.
Le donne Twi’lek attraevano gli uomini per la loro natura remissiva unita ad un corpo perfetto. Natura che nella maggior parte dei casi ne limitava il potenziale e che impediva loro di usare nel modo corretto una parte letale del loro organismo. Zam si lasciò toccare entrambi i lekku mentre serrava le labbra, stordita dal dolore che le provocò la comparsa di ventotto denti acuminati come lame di coltelli che le tagliarono le gengive ed annegarono la sua bocca nel sangue. Focalizzò ogni suo sforzo solo su quelli, ignorando anche la fitta al ginocchio ed il disgusto del corpo del corelliano praticamente su di lei.
Poi scattò.
La gola dell’uomo si aprì in due ed esplose in uno schizzo di sangue. Zam sentì la presa del Tarc allentarsi per la sorpresa e si sollevò sull’unica gamba buona, il cuore che le martellava in testa; il natura equilibrio delle Twi’lek le venne in aiuto e rimase per qualche secondo in attesa con il corelliano agonizzante tra i denti, il pulsare del suo sangue schifoso ancora in gola e la mano che aveva abbandonato la presa sui suoi lekku. Con una mano gli sfilò un blaster dalla fondina ed iniziò a sparare alla rinfusa per allontanare gli altri, e sputò via il corpo del suo assalitore solo quando fu certa che il cuore avesse smesso di battere. Il cadavere perse sangue a schizzi anche quando lo scagliò lontano da sé, appoggiandosi ad una roccia per non cadere.
Non poteva correre né muoversi, ma aveva un’arma in mano e non avrebbe concesso a nessuno degli altri due bastardi di portarla da Dreddon de Hutt viva. Piuttosto avrebbe tenuto l’ultima cella energetica del blaster per sé.
Cercò goffamente riparo, e vide che sia il Tarc che l’umano avevano fatto altrettanto.
Evitò un paio di colpi per pura fortuna, e non appena si accorse di essere focalizzata sulla battaglia tutto il suo corpo tornò alla forma umana, alla ricerca di un sollievo per lo sforzo fatto; si mise di nuovo in ascolto, ma entrambi i cacciatori di taglie non davano cenno di muoversi o di accerchiarla, probabilmente ancora stupiti dalla sua reazione. La gamba sinistra non resse e si chinò sulle ginocchia, ma da quella posizione la visuale sui suoi nemici diventò limitata e nonostante la paura capì che tutti i suoi arti stavano lentamente perdendo le forze. Si morse il labbro, con il sangue del corelliano ancora in gola, estese il braccio e sparò ancora, diretta all’enorme forma del Tarc.
Fu in mezzo alle grida dei suoi nemici che sentì l’inequivocabile sensazione di freddo della punta di un blaster puntata dietro la nuca.
“Che ne direste di stare tutti un po’ più calmi?”
Dalle sue spalle venne una voce metallica forte, alta, come se si trovasse dietro un sintetizzatore vocale. Fece per girarsi, ma la canna puntata alla testa aumentò la spinta, facendola desistere.
L’unico elemento positivo fu che anche i suoi aggressori smisero immediatamente il fuoco. Il Tarc grugnì qualcosa che non riuscì a comprendere, ma si fermò lo stesso. L’arma della persona alle sue spalle la spinse ad abbassare ancora di più la testa e dunque non vide la reazione dell’uomo del Sindacato Salaktori. Sentì solo la sua voce gracchiante oltre il costone “Dacci un buon motivo per non ridurti in un ammasso fumante di ferraglia, mandaloriano!”
“Senza dubbio”.
Un meccanismo si mise ad emettere un fischio lungo e ritmico alle sue spalle, qualcosa che doveva emettere una luce intermittente blu e rossa. Zam si irrigidì, riconoscendo l’attivazione di un detonatore al plasma a meno di un braccio dal suo corpo. Ed i suoi assalitori dovevano chiaramente aver fatto altrettanto. “Il motivo principale per cui adesso tu ed il tuo compare butterete a terra tutte le vostre armi, Gradress Nall, è che la mia armatura è fatta di beskar. Le vostre no.” disse il nuovo arrivato “Dunque se mi dovesse accidentalmente cadere questo detonatore credo proprio che ne uscirei senza nemmeno un’ammaccatura, ma sarebbe seccante dover recuperare i vostri pezzi e portarli a Dreddon. Immagino sarete d’accordo con me”.
Il pavimento della grotta riflesse le luci del detonatore. I movimenti diventarono più veloci, ed il fischio di fece ogni secondo più alto.
Chiunque la stesse minacciando doveva essere un pazzo.
Il Tarc ringhiò di nuovo, stavolta più a lungo. Zam riuscì solo ad intuire un dialogo tra lui e l’umano, ma non riuscì a capire altro. Il blaster si spostò dalla sua nuca al lato del capo, come a farsi ben vedere. E con un lieve cenno del metallo capì che avrebbe dovuto buttare a terra l’arma che aveva sottratto al corelliano; esitò qualche istante, ma cedette e la buttò in avanti.
Sentì che anche i suoi avversari avevano fatto altrettanto, perché tutta la grotta tremò quando il grosso elettrobisento atterrò tra i massi insieme a quella che doveva essere una cintura a bandoliera. “Sei un bastardo, Fett” fu l’unico commento del Salaktori.
“Fa parte del nostro lavoro, Nall. Niente di personale”.
Poi Zam si sentì sollevata di scatto, ed un braccio coperto da larghe piastre di beskar le si strinse intorno al collo.
“Ovviamente la mutaforma viene con me”.
 
 
Erano passati tanti anni dall’ultima volta che era stata così debole. Sdraiata su del pagliericcio che gli attendenti del Cavaliere del Drago avevano cambiato per lei, Zam osservò nel buio le proprie mani.
Nel tempo aveva imparato a sopportare il dolore. Aveva appreso come mutare forma in ogni condizione, ad assumere l’aspetto di creature enormi o minuscole violentando qualsiasi sua cellula esistente. Aveva imparato a convivere con quel dolore, a non avere nemmeno più bisogno di aiutarsi con antidolorifici o stordenti per reggere il peso delle trasformazioni. Eppure in quel momento, alla ricerca di un modo per recuperare al più presto le energie perdute, anche alterare l’aspetto delle proprie dita le mandava delle fitte atroci. Si forzò, ma capì che non poteva abusare della vita che i suoi stessi nemici le avevano restituito.
Si morse le labbra fino a sentirne bene il sapore.
Non poteva permettersi di tornare la donna debole di un tempo. Mai più.
 
 
 




 
 
 
Il turno pomeridiano si era protratto due ore più del previsto.
Vexen si era già sfilato il camice e stava rapidamente guadagnando l’uscita delle Case di Guarigione, quando Girion lo aveva letteralmente placcato per affibbiargli un caso spinoso che lui non era evidentemente in grado di risolvere: un ragazzo con la mano destra prossima alla cancrena e la febbre talmente alta che lo scienziato aveva dovuto ricorrere al suo potere di elementale del ghiaccio per abbassarla almeno di un paio di gradi. Alla fine era riuscito a salvargli l’arto, amputando solo due dita invece che tutta la mano, ma quando finalmente si era richiuso alle spalle la porta del suo alloggio e aveva recuperato lo zaino già pronto per il viaggio e nascosto sotto il letto, il tramonto già incendiava i Campi del Pelennor a ovest di Minas Tirith.
La nave di Camus sarebbe partita in sole tre ore, dallo spazioporto oltre la settima cerchia di mura.
Il che non sarebbe stato un problema, se Vexen non avesse avuto un’altra formalità decisamente importante da sbrigare prima dell’imbarco.
Grazie al cielo, il congegno procurato dal bardo Eldoth funzionò. Vexen premette il pulsante e contò tre lunghissimi battiti del suo cuore prima che la cavigliera elettronica si sganciasse con un sonoro clack, rimbalzando sul pavimento con la luce rossa del rilevatore di posizione ancora perfettamente accesa e in funzione. Raccolse il dispositivo con cura e lo nascose sotto le coperte del letto. Adesso, se i Ribelli avessero controllato la sua posizione, lo avrebbero creduto placidamente addormentato nella sua stanza.
Prima di uscire, un ultimo controllo al suo stipatissimo bagaglio: la fedele tracolla di cuoio ormai consunto con gli strumenti da medico, accuratamente ripiegata sul fondo dello zaino; qualche boccetta di distillati e sonniferi e disinfettanti di vario tipo; una scatolina di latta con i gessetti da alchimista; abiti anonimi procurati di seconda mano al mercato della quinta cerchia (farsi vedere in territorio imperiale con una tunica dell’Organizzazione addosso era la via più breve verso il plotone d’esecuzione); taccuino e penne; e, per finire, una morbida sciarpa di lana grigio-azzurra che Camus gli aveva regalato il giorno prima, evidentemente ignorando che il clima su Coruscant era controllato in modo artificiale e dunque la probabilità di sbalzi termici assolutamente inesistente. Infine, raggomitolati tra le pieghe della sciarpa, il portafogli di pelle con il suo prezioso carico di crediti imperiali e il dispositivo olopad personale.
Manca solo un ultimo oggetto, e Vexen stava andando a procurarselo.
Le Case di Guarigione si trovavano nella prima cerchia di mura, la più piccola, in cima all’alta collina su cui era edificata la città di Minas Tirith. Il palazzo reale, cuore del governo del pianeta e quartier generale dell’Alleanza, distava appena pochi passi.
La lingua di fuoco disegnata dal sole morente lungo l’orizzonte si spegneva poco a poco, le ombre si allungavano tra gli alberi del vasto cortile del palazzo. Quel luogo aveva un valore storico e simbolico per gli abitanti della città, perciò le luci elettriche erano sapientemente celate tra la vegetazione e spandevano tutto intorno una luminosità lattiginosa, gentile, quasi ad imitazione della luce lunare. Tra una macchia illuminata e l’altra, Vexen si aggirava come uno spettro, sfruttando le zone d’ombra. Oltrepassò la sagoma sinuosa e imponente dell’Albero di Gondor, che la corteccia e le foglie candide facevano apparire come uno spirito che danzava sulla cima della collina, le fronde mosse dalla lieve brezza della sera. Ascoltando i discorsi dei ribelli aveva appreso che anche quell’arbusto millenario era un simbolo per la popolazione di Minas Tirith, ma cosa rappresentasse esattamente, o chi lo avesse piantato e quando, erano informazioni che ignorava. Né, per la verità, gli interessavano.
I pochi gruppetti di ribelli che incrociò lungo la sua strada non fecero caso a lui. Cavigliera elettronica a parte, non aveva mai ricevuto veri e propri divieti dai suoi carcerieri se non quello di lasciare la città; ma, all’interno delle sette cerchie di mura, era libero di muoversi come desiderava.
Per questo il giovane soldato di guardia a una delle porte di servizio, con lo stemma dell’Albero Bianco in campo nero cucito sul petto, non ebbe nulla da obiettare quando Vexen gli disse di essere venuto a cercare Camus per via di un’urgenza alle Case di Guarigione. Il sacerdote si trovava effettivamente all’interno del palazzo per l’ultimo briefing pre-missione e, in un periodo in cui le Case di Guarigione rigurgitavano profughi da territori imperiali messi a ferro e fuoco dai demoni e dai villaggi del mondo del GSB rasi al suolo dall’Impero, non era raro che i medici venissero richiamati a tutte le ore del giorno e della notte per svolgere il loro dovere.
Una volta dentro, Vexen non imboccò la rampa di scale che lo avrebbe condotto direttamente alla volta sigillata dove i Ribelli custodivano gli oggetti magici più preziosi in loro possesso. Si diresse invece a colpo sicuro verso una scaletta a chiocciola di servizio e percorse un paio di giravolte verso il basso, dove le pareti erano sbozzate nella roccia viva e l’aria odorava di umidità e di decine di botti di vino lasciate al buio a invecchiare. Si fece luce con una piccola torcia tascabile e raggiunse il magazzino dismesso che stava cercando, poco più che un rettangolo scavato nella roccia come una cripta, invaso dalla polvere e dalle ragnatele.
Sapeva che quel posto si trovava esattamente al di sotto della stanza degli oggetti magici. Sapeva che lì nessuno sarebbe mai venuto a cercarlo. Sapeva che i Ribelli non si erano presi la briga di proteggere quel buco perché la volta degli oggetti era sigillata magicamente e difesa da tutti i migliori dispositivi tecnologici che l’Alleanza potesse permettersi.
Per procurarsi quelle preziose informazioni aveva dovuto giocare d’astuzia. Era genuinamente fiero del suo piano. Se ne sarebbe vantato davanti a Camus con indiscusso piacere, ma quella parte del suo progetto di fuga era l’unica che non poteva assolutamente permettersi di condividere con il sacerdote.
Erano bastati tre millilitri di veleno di helior: insufficiente per uccidere un uomo adulto, ma abbastanza da spedirlo dritto alle Case di Guarigione in preda a fortissimi crampi allo stomaco. Aveva versato il veleno in una scodella casuale del cibo destinato alle guardie di palazzo e, quando lo sfortunato soldato gli era capitato tra le mani, aveva diligentemente guarito la sua intossicazione… accompagnando ai farmaci mezzo grammo di altair in polvere, nota tra gli erboristi del suo mondo per la sua incredibile capacità di sciogliere anche la lingua più reticente e indurre l’intorpidimento dei sensi. A quel punto, interrogarlo era stato un gioco da ragazzi.
Il soldato aveva descritto con dovizia di particolari le difese magiche e tecnologiche della volta, ma nessuna aveva impensierito più di tanto Vexen. Perché l’Alleanza poteva vantare tra le sue fila incantatori provetti e ingegneri di prim’ordine, ma neanche un solo alchimista.
Vexen non dovette bypassare nessun codice di sicurezza o scan retinico, non ebbe bisogno di traforare scudi magici, o di schivare le scariche di dardi incantati attivate dai globi arcani ai lati dell’ingresso principale. Entrò nel modo più stupido e semplice del mondo: bucando il pavimento con un cerchio alchemico. Disgregò gli atomi del soffitto di pietra del magazzino abbandonato, mutandoli in polvere; e aprì uno squarcio nella calotta di duracciaio che si trovava al di sopra con la stessa facilità con cui un grissino si insinua in una scatoletta di tonno. Il tutto senza far variare la temperatura nella stanza di neanche mezzo grado, cosa che avrebbe immediatamente fatto suonare gli allarmi collegati ai sensori termici posizionati lungo tutto il perimetro.
Meno di un quarto d’ora dopo, con il prezioso carico stretto al petto sotto la tunica, dove poteva sentirne la presenza rassicurante, Vexen correva giù per la collina di Minas Tirith da una cerchia di mura all’altra, assaporando il vento sulla faccia insieme a un senso di euforia che lo faceva sentire vivo come non credeva più possibile da mesi. Da anni, forse.
Allontanarsi dalla sommità della collina e dagli edifici governativi era come viaggiare indietro nel tempo: la tecnologia spariva poco a poco, l’illuminazione elettrica lasciava il posto a interi quartieri rischiarati da comunissime torce a olio, il ronzio degli speederbike e delle navette utilizzate dall’Alleanza per facilitare gli spostamenti all’interno del quartier generale veniva inghiottito dal nitrito dei cavalli, sempre più numerosi all’interno delle stalle che costeggiavano le strade del centro abitato. Oltre la quarta cerchia iniziò a diminuire anche la gente in giro: le botteghe avevano chiuso con il tramonto e dalle finestre di quasi tutte le case fuoriusciva la luce traballante di caminetti e candele insieme al profumo delizioso di tavole imbandite per la cena.
Vexen attraversò Minas Tirith come la brezza della sera, senza mai fermarsi né guardarsi attorno.
Giunto in prossimità dei cancelli della cerchia più esterna, si nascose nel retrobottega di un fabbro, estrasse l’olopad dallo zaino e lo accese. La luce azzurrina sfarfallò per qualche attimo prima di stabilizzarsi, facendo fluttuare sopra il palmo della sua mano le specifiche della sua nuova identità.
 
Arjen Summerwind
Data di nascita: 4.12.28BE
Pianeta di nascita: Riosa
Specie: umano
Altezza: 1.89 m
Peso: 79 kg
Capelli: biondi
Occhi: verdi
 
Insieme al documento falso, Camus gli aveva caricato sull’olopad il codice ribelle di autorizzazione a lasciare il pianeta. Gli bastò passare il dispositivo sotto lo scanner dei soldati a guardia del cancello per essere finalmente libero di lasciarsi alle spalle Minas Tirith e confondersi tra la folla che anche a quell’ora animava il principale spazioporto della Terra II.
Fu come mettere piede in un portale diretto verso un altro mondo. Abbarbicato a un lato delle mura esterne come una larva sullo stelo di una foglia, lo spazioporto era stato edificato in fretta e furia quando l’Alleanza aveva scelto il pianeta come base operativa, sfruttando l’ampia pianura che si estendeva a ovest di Minas Tirith e che i locali chiamavano Campi del Pelennor. In quel frangente, per ragioni di praticità ed efficienza, il beato connubio tra tecnologia e tradizione che regnava dentro Minas Tirith non era riuscito nel migliore dei modi: l’agglomerato di container e moduli in plastacciaio, su cui svettava la torre scheletrica del centro di controllo, era un pugno in un occhio accanto all’architettura aggraziata della città antica. Girion amava ripetere che era come mettere un nano accanto a un elfo.
L’appuntamento con Camus era sul retro del modulo 31F.
Vexen arrivò per primo, e ringraziò tutti gli dèi in cui non credeva che il sacerdote fosse vincolato alla sua missione con l’Alleanza e non avesse tempo per abbracci, piagnistei o altre forme di saluto che avrebbero reso il momento decisamente scomodo e imbarazzante. Camus lo condusse in fretta sul lato di quello che sembrava un trasporto mercantile e lo fece salire a bordo da un portello di scarico merci, accompagnandolo fino a un vano deposito su un lato della stiva.
“È un po’ stretto, ma nessuno verrà a disturbarla qui, padron Vexen. Me ne assicurerò io.”
I rumori dell’attività frenetica dello spazioporto arrivavano attutiti adesso, e nella calma improvvisa lo scienziato si rese conto di avere il fiato corto per la lunga corsa. Si sfilò lo zaino dalle spalle e si sedette una cassa di plastacciaio, lasciandosi sfuggire un lungo sospiro di sollievo.
“Vai ora, Camus. Noteranno la tua assenza.”
Il sacerdote annuì, ma le sue gambe esitarono, incollate sul posto.
“Muoviti.”
Da qualche parte nel ventre della nave risuonò una voce squillante che chiedeva che fine avesse fatto il medico della spedizione. Camus si riscosse di colpo, gli rivolse un ultimo sorriso e premette il pulsante per la chiusura del vano. Lo scienziato non aveva bisogno di guardarlo in faccia per sapere che aveva gli occhi umidi di lacrime mal trattenute.
“Buon viaggio, padron Vexen.”
“Anche a te. E… grazie.”
La porta a scorrimento si richiuse del tutto, lasciando Vexen con la sola illuminazione di una barra al neon a basso voltaggio incassata lungo un lato dello stretto soffitto. Sotto i suoi piedi, lo scafo della nave iniziò a vibrare leggermente, segnalando l’accensione dei motori e l’inizio dei preparativi per il decollo.
Solo molto tempo dopo, quando il trasporto era già in volo nella monotona tranquillità dell’iperspazio, Vexen osò gettare uno sguardo alla refurtiva trafugata dalla volta degli artefatti magici dell’Alleanza.
Due oggetti d’oro puro, una sfera a forma di occhio che stava nel palmo di una mano, e una sorta di chiave affusolata lunga metà del suo avambraccio. Gli stessi artefatti che erano arrivati al Castello dell’Oblio quando l’Organizzazione aveva rapito l’Intercessore Kaspar, e che il Grande Satana a sua volta aveva requisito ai membri dell’Organizzazione solo per poi farseli rubare durante l’incursione dei Ribelli sul Baan Palace. Per come la vedeva lo scienziato, “oggetti magici” era una definizione approssimativa e poco pertinente al caso in questione. Non poteva ancora dirlo con certezza, ma quei monili dorati avevano tutta l’aria di dispositivi di natura alchemica. Forse, stavolta, sarebbe riuscito a studiarli degnamente come si era sempre proposto.
Tuttavia, non avrebbe mai corso i rischi del furto se non fosse stato per il terzo oggetto. Uno scettro di legno nero, di fattura semplice, che aveva compiuto lo stesso viaggio della chiave e dell’occhio tra le mani di molteplici proprietari, ma di cui, al contrario di questi ultimi, il potere e le modalità di utilizzo erano già stati svelati.
Lo Scettro dell’Immortalità.
Il dono di riconciliazione che aveva intenzione di portare a Zexion.
 
  
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