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Autore: Elisewin Ci    24/03/2020    0 recensioni
Nina arriva a Roma perché ha una storia da dimenticare. Niccolò ha dei sogni da inseguire.
Lui è schivo ma con lei è semplice parlare.
Si avvicinano, si prendono e si dimenticano, per poi tornare e non sapere dove andare.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Niccolò

 

Tre sere su tre che bevo fino a dimenticare chi sono. Non male.

Non c’è un motivo particolare, forse la noia o l’abitudine, o l’uscire di casa verso le cinque e raggiungere gli altri al solito marciapiede, farci un giro da Gigi e poi perdere il senso del tempo al  parcheggio, la chitarra e le mie canzoni appena abbozzate, sottovoce, con Adriano e Alessandro che restano fino all’alba e ascoltano, un poco commentano, sorridono.

 

“La nostra vita sembra un patto col diavolo. Tutto al contrario. In attesa del colpo di scena che ci salverà tutti.”

 

L’ho detto ad alta voce senza rendermene conto. Adriano mi spintona, barcollo e per fortuna riesco ad appoggiarmi allo sportello aperto della mia auto evitando di cadere.

 

“Vaffanculo Nic. Stasera hai esagerato. ‘Sti discorsi macabri alle 3 de’notte, ma come te viene in mente.”

 

“Adrià qua è sempre tutto uguale, non cambia mai niente” scivolo lento per terra, appoggiandomi alla ruota incurante di rischiare di sporcare la felpa pulita che mi sono messo prima di uscire. Scuoto la testa, una due tre volte. Fa male. Un indolenzimento che aumenta ogni volta che mi muovo.

 

“No regà così no.. me la state a mette’ male. Vado a casa.” Alessandro si alza di scatto dal sedile posteriore, mi sembra che faccia un salto ma credo che siano gli effetti dell’alcol che mi disturbano la vista “non possiamo finire così ogni volta. Vorrei...”

 

“Che vorresti? Eddai sbilanciate per una volta” lo pungola Adriano, che continua a giocare con le corde della mia chitarra.

Finirà per scordarla di nuovo, non mi arrabbio solo perché non ne avrei le forze.

 

Alessandro sposta il peso da una gamba all’altra, prende tempo, poi respira a pieni polmoni l’aria fresca della notte.

 

“Me pari un bronzo de Riace” lo canzona Adriano e scoppio a ridere, un sensazione liberatoria che allevia un po’ il peso che sento nel petto. Ansia, maledettissima ansia, compagna di sogni e paure.

 

“Non stiamo poi così male ragazzi. Ci siamo trovati, siamo amici. Non ci lasciamo mai soli. Le nostre famiglie ci vogliono bene. Non saremo pieni di soldi, ma chi se ne fotte. Siamo ricchi dentro...”

 

Alessandro parla lentamente, soppesa lo sguardo su di noi e lo sento forte, quelle parole sono tutte per me.

 

“Nic...” continua “arriverà il momento, qualcuno crederà nella tua schifosissima musica” e mentre mi lancia quelle parole addosso si siede su una panchina poco lontana da noi “il cielo de Roma ragazzi, è tutto nostro stasera”

 

È ubriaco, è decisamente ubriaco anche lui.

 

“È nostro tutte le sere” lo segue Adriano.

 

Restiamo in silenzio e apriamo l’ennesima birra, quella che abbiamo comprato al supermercato dietro al bar di Gigi perché finisce che ci butta sempre fuori urlandoci dietro che ha cura del nostro fegato.

 

“Ma voi... che volete fare un giorno? Quando smetteremo di venire qui, al parcheggio, quando ci saranno altri al posto nostro, quando la vita ci chiederà il conto... ce l’avete un sogno?” 

 

“Noi siamo i Miserabili Nic, ci sarà qualche bella notizia anche per noi” mi rassicura Adriano, stringendomi una spalla e sedendosi per terra anche lui.

 

Guardo le mie mani piene di tatuaggi e penso che da ubriaco, sporco dell’asfalto su cui mi piace tanto stare, nessuno crederebbe che nella mia vita niente conta come scrivere canzoni. 

Non mi crederebbe nessuno, potrebbero solo pensare che sono l’ennesimo ragazzo di San Basilio che ha perso la strada, ma io lo so - e loro lo sanno, Adriano Alessandro e tutti gli altri - che la vita che mi trascino dietro è solo una maschera con cui mi nascondo.

Oltre gli occhiali, quelli scuri, con cui mi proteggo sempre gli occhi, per fingere di non avere paura di tutto quello che potrebbe sconvolgermi.

 

“Se ci vedesse qualcuno ora penserebbe che siamo solo dei disperati” puntualizzo più a loro che a me stesso.

 

“Nic... smetti di sentirti così” è dura la voce di Alessandro “hai bevuto troppo. Domani cerca di evitare” poi si alza e senza aggiungere altro si allontana per raggiungere casa sua.

 

Non c’è mai bisogno di convenevoli tra noi, sono i fratelli che mi sono scelto nella vita, possono andare dritti al punto, rischiare di farmi male. A loro lo posso consentire, è dagli altri che cerco di proteggermi.

Mi lascio conoscere solo cantando, per il resto parlo poco, osservo molto, sono uno di quelli che va alle feste, ma resta in un angolo con la sua cerchia ristretta.

Mi stanno sul ca**o gli esibizionisti, i tipi di Roma Nord che non parlano d’altro che di soldi e profili Instagram in crescendo e quelli che tifano la Lazio, per quelli proprio non c’è speranza.

 

“Con Federica come va?” azzarda Adriano, andando a scavare nelle mie debolezze.

 

“Sei proprio uno stronzo. Me lo chiedi perché sono ubriaco”

 

“No, te lo chiedo perché oggi hai bisogno di parlare” è il mio migliore amico, non ci sono mai stati dubbi su questo.

 

“Con Fede va” gli rispondo alzandomi in piedi e sfilandogli la chitarra dalle mani.

Accenno qualche accordo e lui mi ascolta in silenzio, suonare è il mio modo per estraniarmi e riprendere a respirare regolarmente, ma Adriano incalza, stasera non vogliono darmi tregua.

 

“Da quanto la rivedi, Nì? Non è una delle tante, è Federica: l’amore della tua vita, la protagonista di tutte le tue canzoni. Ci ricaschi sempre”

 

“Eh... quindi? Dove vuoi arrivare?” tento di tergiversare, ma so che sarà impossibile.

 

“Aó Nì li mortacci! Già me sento uno psicologo, risponneme! Che te devo togliè le parole de bocca?” poggia la testa all’indietro contro l’auto e Adriano guarda le stelle, l’ho fatto spazientire di nuovo; mi alzo in piedi, poggio la chitarra sui sedili posteriori dell’auto e faccio segno al mio amico di seguirmi. Camminiamo insieme, tra un sorso di birra e uno sguardo alla notte che rende tutto più placido.

 

“Mi ha chiamato la settimana scorsa, voleva parlarmi, forse scusarsi per essersi allontanata di nuovo, non so... poi non ce n’è stato bisogno. È sempre lei. Non riesco a dì de no” confesso sentendomi improvvisamente più leggero.

 

Adriano sorride, lo so che capisce.

 

“A Nì, la sai una cosa? Me vorrei proprio innamorà anch’io come te sei innamorato te de lei”

 

“Guarda che te registro.. poi la faccio ascoltà agli altri!” scoppiamo a ridere, e continuiamo a camminare senza meta - e senza paura - per le strade del nostro quartiere.

Casa mia.

Che bello il silenzio di casa e il respiro di un buon amico accanto.

Così, la vita sembra fare meno schifo.

Manca solo una canzone in sottofondo.

Magari Vasco, oppure... oppure una delle mie, una di quelle che ho appena scritto.

 

 

Nina

 

Leggo distratta il messaggio che la nonna mi ha inviato sul cellulare qualche ora prima mentre tento di finire di lavarmi i denti:

 

"Tesoro mi manchi tanto. Lo sai, quando vorrai tornare io ti aspetterò a braccia aperte. Com’è Roma?"

 

La mia nonna.

Lei che non so quanto abbia capito di quello che ho fatto, ma forse più di quanto io creda, ma sceglie di amarmi comunque.

Forse di perdonarmi, come nessuno è riuscito a fare e come non riesco a fare neanche io.

Sento ancora nelle orecchie il silenzio assordante prima del frastuono causato dalla scrivania rovesciata per terra da mio padre mentre il telegiornale nazionale continuava a passare la notizia alla tv, le urla di mia madre che invocava a ripetizione un Dio che non conosco.

 

“Una figlia disonorata. La nostra famiglia non può accettarlo... no, no, no. Mi sembra di spronfondare come quando Lorenzo ci ha lasciato.”

 

Mio fratello che è morto per un male incurabile. Mio fratello Lorenzo a cui ho tenuto la mano fino all’ultimo secondo.

Mio fratello che se ne è andato col sorriso, uccidendo completamente la felicità in casa nostra e dentro di me.

 

“La tv, ne parlano anche al telegiornale. Il Joy’s, quel locale maledetto, anche tu Nina, come hai potuto farci questo, come... come... come... sarebbe stato meglio perdere te!”

 

Le parole di mia mamma che mi rimbombano dentro senza darmi tregua.

La figlia sbagliata.

La figlia svergognata.

La poco di buono.

L’errore che è stato meglio allontanare.

 

Lascio lo spazzolino nel bicchiere vicino al lavandino e lego le scarpe da ginnastica più strette che posso. Sembra che con tutta la rabbia che sento dentro abbia deciso di rompere le stringhe delle mie Nike.

Mi lascio scivolare sul cuore il ricordo di Lorenzo, e penso ancora al messaggio di mia nonna. Dovrei risponderle, ma cosa potrei dirle.

 

Certo che è bella Roma, nonna.

Ma io vivo a San Basilio, dalla finestra vedo solo palazzi scoloriti e la Nomentana sullo sfondo, della Roma immensa che immagini tu non c'è traccia.

 

Qui non ci sono arte e fascino, ma solo palazzi di due o tre piani con i vestiti stesi alle finestre. Qui non ci sono prati e fiori, Villa Borghese è lontana. Qui c’è solo un parcheggio e un campetto per tirare due calcio ad un pallone. C’è un unico bar e nessun locale alla moda.

Ma forse è meglio sai, non voglio più pensare a quella vita. Le luci, le discoteche, la gente che balla, lustrini che brillano. 

Ho voglia di vomitare, nonna.

 

Nonna non so neanche da dove cominciare. Questa settimana lontano da te, è stata dura.

Ma come te lo spiego nonna?

Come te lo racconto?

 

Come ti dico che quella Roma che immagini tu non è casa mia. Che casa mia non esiste più, perché io non mi sentirò mai più a casa in nessun luogo. Casa mia, nonna, casa mia era Lorenzo. E Lorenzo se ne è andato via portando con sé tutta la mia ingenuità.

 

Questo però non voglio dirtelo, va tutto bene nonna, va tutto benissimo.

Ho la compagnia dei miei libri.

Ma non ti dico neanche questo, all’università non ci ho ancora messo piede. Ho paura di trovare persone, dover parlare, confrontarmi, fingermi qualcuno che non sono.

Ma sono partita per questo, no?

Per costruirmi una nuova me in mezzo a chi non sa niente di Nina.

 

Potrei dirti dei fiori che coltivo sul terrazzo, nonna. Ho messo anche delle margherite. Di loro, non so perché, ho voglia di prendermi cura.

E sai cosa c'è di simpatico?

La voce squillante della ragazza che abita nel palazzo accanto.

Ride e urla così tanto che ormai mi sembra di conoscerla.

A volte mi affaccio alla finestra e la guardo, ma riesco a vederla solo di schiena: è bionda. E suona la chitarra. 

Da casa sua esce una musica dolcissima che mi fa compagnia. A volte mi culla.

E poi ride, ride sempre.

Solo una volta l'ho vista piangere.

Ieri mattina, quando sono uscita dal portone insieme a lei. Aveva la testa bassa e una sciarpa nera piena di brillantini intorno al collo.

Si è asciugata una lacrima sbrigativa, poi è tornata a darmi le spalle.

Non lo so, nonna, non lo so come sto davvero.

E non so neanche se questa città sia così bella come dicono.

Dovrei scoprirla, forse, ma mi sento troppo piccola per riuscirci adesso.

O anche solo per tentare di farlo.

Scusami nonna, adesso devo andare davvero, sono in ritardo, non posso più parlarti nei miei pensieri: la mia corsa notturna mi aspetta.

Si, perché vado a correre di notte, così non rischio di incontrare nessuno e no, nonna, non ho paura. Non ho paura di niente perché ormai non ho più nulla da perdere, neanche me stessa. Mi sono persa ormai un bel po’ di tempo fa.

 

Digito veloce una risposta che sappia di gioia e amore, di entusiasmo e nuove avventure. La rassicuro, alla fine è l’unico contatto che ho scelto di mantenere con la mia vecchia vita, poi spengo il cellulare, afferro il marsupio dove ho messo le chiavi di casa e chiudo la porta con un tonfo sordo.

 

Corro veloce, incurante delle stringhe troppo strette e dei mattoncini delle case, quelli su cui mi soffermo quando esco di casa, quelli che conto per non pensare, mi passano accanto come un flash sfumato di rosso.

Non ho la testa per soffermarmi sui particolari. 

Mi stancano.

Mi sembrano futili e inutili.

Rincorrere un particolare: perché farlo quando il cuore non sente più niente?

 

Siamo solo io e il mio respiro che si fa pesante, ho l’affanno, ma continuo, un passo dopo l’altro, slancio dopo slancio, iniziano quasi a fischiarmi le orecchie dalla fatica ma il mio obiettivo è solo quello di tornare a casa sfinita e crollare in un sonno senza sogni.

 

Nelle ultime sere ho ripetuto sempre lo stesso tragitto allontanandomi poco dal mio palazzo, non avevo nessuna voglia di perdermi e passare poi troppo tempo a cercare il portone del mio appartamento, ma stasera ho definitivamente spento il cervello e continuo a correre senza una meta precisa.

 

“Nina... ma che sei tu? La ragazzetta del bar da Giggi. Ao ma che... te fermi?”

 

Una voce maschile mi riporta alla realtà, sfortunatamente non ho con me le mie cuffie, se avessi avuto la musica alta avrei potuto fingere di non aver sentito e non sentirmi in parte costretta a fermarmi.

 

Indietreggio di un passo ancora col fiatone e mi trovo davanti due dei ragazzi del bar. Uno sorride in modo gentile, l’altro... l’altro è il tipo pieno di tatuaggi, quello con gli occhiali da sole, resta un po’ indietro. Si guarda un po’ intorno. Sembra a suo agio.

 

“Ciao, sono Adriano, ti ricordi?” mi chiede, il primo, sempre lo stesso.  Resta fermo, sembra quasi che non voglia spaventarmi.

 

“Si, si ricordo. Scusatemi ma non credevo di trovare nessuno a quest’ora fuori” mi giustifico, in un modo o nell’altro, come se ne sentissi l’esigenza.

Mi porto dietro l’orecchio una ciocca di capelli sfuggita alla coda, un gesto veloce per mascherare un po’ l’imbarazzo.

 

“Non... non abbiamo cattive intenzioni. Puoi stare tranquilla” continua Adriano.

Mi piace.

In qualche modo i suoi occhi buoni mi fanno simpatia.

Resto comunque in silenzio.

Mi sono ripetuta un’infinità di volte negli ultimi giorni che non ho voglia di fare conoscenze, ma anche se esistesse dentro di me una remota possibilità non la sfrutterei di certo per parlare con degli sconosciuti in piena notte in un quartiere di Roma dimenticato da Dio.

 

“Diglielo Nic, dille che può stare tranquilla” 

Adriano tira una gomitata all’amico, che sembra restare chiuso nel suo mondo, incurante della mia presenza e dell’innegabile voglia del ragazzo di intraprendere una conversazione che in qualche modo superi i normali convenevoli.

 

Alza le mani e per la prima volta accenna un sorriso. Improvvisamente sembra che gli sorridano anche gli occhi.

 

“Non abbiamo mai fatto del male a nessuno” alzo un sopracciglio un po’ stupita, non mi aspettavo questo segno di resa, e quando prova a sorridere con più convinzione gli spunta fuori una fossetta sulla guancia destra “Lo giuro, siamo brave persone” aggiunge, probabilmente per colmare il vuoto dei miei silenzi.

 

Sono illuminati solo dalla luce di un lampione alle loro spalle, così diversi dalla gente che sono abituata a frequentare.

Sono... sono, sono semplici.

Normali.

Naturali.

 

I loro sguardi sono... rassicuranti.

È una sensazione che non provavo da un po’.

Forse mi mancano i contatti umani, o forse è solo la notte che accompagna i miei pensieri deliranti.

Soppeso ancora un po’ lo sguardo sulle loro figure, mi fermo sulla mano tatuata del secondo, non avevo mai conosciuto nessuno che avesse una mano completamente tatuata.

 

“Vi credo. Si... non sembrate avere cattive intenzioni” e improvvisamente scoppio a ridere, forse sembro pazza, ma è una risata liberatoria, di quelle che partono dalla stomaco e arrivano prima agli occhi che alla bocca “restate lì impalati, sembrate voi quelli impauriti”

 

Allora si guardano, scuotono appena la testa e camminano lenti verso di me.

 

“Voi che ci fate qua fuori a quest’ora?”

Ho fatto una domanda.

Ma non volevo farla davvero.

 

“Noi siamo sempre qua. A qualsiasi ora” mi racconta Andriano “viviamo qua e prendiamo sonno tardi”

 

“Allora abbiamo qualcosa in comune” solo dopo aver pronunciato queste parole mi accorgo che possono apparire come un segnale di apertura.

 

“Che fai nella vita Nina? Vuoi camminare con noi in mezzo alla notte di San Basilio e raccontarci un po’ di te?” incalza Adriano.

 

No.

Non voglio parlare di me.

Non saprei cosa dire.

Non mi sono ancora costruita abbastanza scuse per essere una nuova persona, del tutto credibile.

 

“Adesso vado a casa... domattina, domattina devo andare all’università” è l’unica cosa che sanno di me, l’unica cosa a cui ho accennato durante il nostro primo incontro “magari un’altra volta” aggiungo.

 

Adriano.

E il ragazzo con la mano tatuata. 

E il collo.

E un po’ le braccia.

Lo ricordo dall’incontro al bar.

Tatuaggi ovunque.

 

Con la stessa facilità con cui li ho incrociati in mezzo alla notte riprendo a correre nella direzione opposta.

 

Mi auguro solo di raggiungere casa velocemente.

 

Non so ancora il suo nome.

  
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