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Autore: manpolisc_    25/03/2020    14 recensioni
•Primo libro della trilogia•
Sharon Steel è una ragazza di diciassette anni che vive a Ruddy Village, una cittadina tra il Nevada e la California. La sua vita non è mai stata semplice: è stata definita pazza per le cose che vede e alle quali la gente non crede, che l'hanno portata a sentirsi esclusa. Solo l'arrivo di una persona come lei riuscirà a farle capire di non essere sbagliata, ma solo diversa. Scoprirà la sua vera natura e dovrà decidere del proprio destino.
Dal testo:
- È solo un bicchiere che è caduto. - Mormoro. Mi guarda, accennando un sorriso divertito.
- E la causa della sua caduta è solo qualcosa alle tue spalle, che brancola nel buio, pronto ad ucciderti. -
Genere: Azione, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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Capitolo 2

Tutto intorno a me è bianco. L'unica cosa visibile è un cancello nero. Non riesco a controllare me stessa. Ho la mente della me di diciassette anni, ma il corpo della me di dieci. Nonostante la mia mente sia più matura, è il corpo a dettare le regole. Non posso fare niente se non essere trascinata in questo viaggio. Ingenua e curiosa di sapere cosa nasconda quel bianco, che assomiglia tanto a una fitta nebbia, mi avvicino al cancello abbastanza arrugginito, intenzionata ad aprirlo. Quando lo tocco, dietro di esso appare gradualmente una grande casa abbastanza vecchia. Essa è costruita completamente in legno, ormai marcio. Infatti diventa più scuro in alcune zone e più chiaro in altre. In    quelle più buie mancano anche alcuni pezzi. Forse sono stati mangiucchiati dalle termiti. Nonostante la visione inquietante dinanzi a me, apro il cancello ed entro, chiudendomelo alle spalle. La prima cosa che attira la mia attenzione è un grosso albero, i cui rami sono scossi dal vento. Questi si sporgono sul vialetto, facendo ombra su di esso e rendendolo scivoloso a causa del muschio: quest'ultimo continua sul muro, dopo essersi fuso con delle piante rampicanti, fin sopra la finestra del secondo piano. A questa manca addirittura un'anta, finita chissà dove. Nell'aria c'è un odore acre, di sporco. L'unico suono udibile è il lieve fruscio del vento che mi scompiglia i capelli, spostandomeli davanti al volto. All'improvviso la visuale cambia: mi ritrovo seduta sotto l'albero e, sebbene voglia muovermi, non ci riesco. Sembro essere legata al tronco da catene invisibili, anche se effettivamente non c'è nulla. L'anta della finestra al secondo piano inizia a sbattere violentemente a causa del vento, ora molto più forte. Le risate di due ragazzi rimbombano in lontananza. La prima persona che vedo è un ragazzo dai capelli biondi che continua a chiamare la sua ragazza, incitandola a sbrigarsi. Lei appare subito dopo. I capelli ricci di un arancione ramato, quasi rosso, danzano a ogni suo movimento. Non riesco a vedere i due ragazzi perfettamente: la vista mi si sta cominciando ad annebbiare. Non sono sicura se sia colpa della "nebbia" intorno, è ancora presente (non mi mostra nient'altro se non la casa), ma il problema forse è nei miei occhi.
- Vuoi entrare? - Chiede lei, fermandosi di botto a osservare con sguardo perplesso la casa. Alcune foglie si sono staccate dai rami, come se volessero scappare via da questo posto. Il ragazzo fissa l'edificio, poi si gira verso la ragazza e sogghigna. La preoccupazione di lei è naturale: chiunque davanti a una scena del genere ci penserebbe due volte prima di aprire anche solo il cancello. Il ragazzo, però, non ci sbatte più volte la testa. Vuole solo mostrarsi coraggioso e intrepido davanti alla propria ragazza, ma anche lui sa di non esserlo.
- Non avrai paura di un po' di vento. - Il biondo apre il cancello mentre i rami sopra di lui sono sbattuti dalle folate di vento. Alzo lievemente il volto, osservandoli. C'è una strana energia nell'aria che si sta caricando sempre di più. Riesco a sentirla.
- Sì. E non è il vento. Mi mette i brividi questo posto. Andiamo via. - La casa, infatti, è molto vecchia. Non mi ci vuole molto a riconoscerla: è la casa abbandonata. Al ragazzo non sembra importare il luogo in cui si trovano. Eppure, dovrebbe.
- È solo un po' di vento. - Ribadisce lui. Vuole entrare a tutti i costi, quasi forzato da questa energia, come se lo stesse attirando poco a poco a essa. Io, ancora sotto l'albero, alzo lo sguardo verso l'alto non appena mi accorgo che uno dei rami, il più grande, viene agitato più degli altri. A tratti sembra che abbia vita propria, ma usi il vento come scusa per muoversi liberamente. Non mi ci vuole molto a capire cosa succederà, ma non posso urlare, non posso avvertirli. Sono impotente. Anche se apro la bocca, l'urlo mi si strozza in gola. Sono schiava della mia stessa mente. La ragazza, nel frattempo, prova ancora una volta a convincere il ragazzo ad andare via, inutilmente. Ha il volto contratto dalla paura e dalla preoccupazione mentre si tortura le mani e cerca nuovamente di persuadere il biondo a uscire fuori. Lui non le dà retta e continua ad avanzare verso la porta, passando sotto quel ramo. In una frazione di secondo, quest'ultimo si spezza, la ragazza urla, il terreno sotto i miei piedi sanguina.
 
 
Mi sveglio di colpo. Nella mia testa è ancora viva l'immagine del corpo immobile e schiacciato del ragazzo. Le sue unghie che piangono sangue, quel suono orribile e sordo di ossa che si spezzano, quel braccio (l'unica parte non schiacciata dal ramo) che diventa violacea mentre le vene dentro di lui esplodono...
Scuoto la testa per allontanare quell'immagine il più possibile. È solo un brutto sogno. Controllo il cellulare sul comodino: le otto. Mia madre deve essere già al lavoro poiché questa mattina non mi ha svegliata. Mi alzo di corsa dal letto: non ho nessuna intenzione di fare tardi anche gli ultimi giorni di scuola.
Esco di casa in tutta fretta e per poco non inciampo sui gradini. Parcheggiata al bordo della strada c'è la macchina di Delice, una Mini Cooper S decappottabile blu. Lei dentro si aggiusta i capelli, oggi mossi. Io, invece, non mi sono neanche pettinata.
- Sei in ritardo, come sempre. - Alza lo specchietto, una volta finito, per spostare lo sguardo su di me.
- E tu ti specchi, come sempre. Rimani da me nel pomeriggio? - Salgo a bordo mentre Delice annuisce, accende la radio, poi non perde tempo a partire. Trasmettono 'Chandelier', di Sia, e per tutto il tragitto sono costretta a sentire la voce "melodiosa" della mia migliore amica. Acuti, bassi, voci in sottofondo... fa tutto lei, perfino gli strumenti. Ecco un'altra sua passione: la musica. Non che non mi piaccia, ma per lei è una fissa. Nel frattempo, abbasso lo specchietto e cerco di aggiustarmi i capelli. Passo le dita fra diverse ciocche, cercando di sciogliere quei nodi che si sono creati durante la notte.
Dopo qualche minuto arriviamo nel parcheggio della scuola, nello stesso istante in cui suona la campanella. Giusto in tempo. Infatti molti studenti che sono rimasti qui a fumare cominciano a spegnere le sigarette per raggiungere le proprie classi.
- Questa è una delle ultime volte che ti sento. - Ringhia Delice alla campanella, ormai stanca del suo suono, mentre scende dalla macchina e io la seguo a ruota. Come biasimarla? È il più fastidioso del mondo.
- Per quest'anno. - La correggo e la tiro per il braccio per incitarla a muoversi. Non voglio arrivare tardi in classe e, conoscendola, salteremmo sempre la prima ora se non le mettessi fretta. Basta la benché minima cosa affinché si distragga. Una volta entrammo alla seconda ora perché non riusciva a trovare una cosa definita da lei di "vitale importanza". Dopo un'ora di ricerca, la trovò: il suo lucidalabbra.
- Hai sentito del ragazzo nuovo che si è trasferito? -
- Dovrei? - Controllo lo zaino mentre entriamo nell'edificio. Mi sono di certo dimenticata qualcosa. Infatti non trovo il mio libro di biologia. Chiudo lo zaino e sbuffo, ricordandomi di averlo lasciato sulla scrivania. Lei mi guarda in modo annoiato, sapendo già che mi dovrà spiegare tutto, come sempre. Non sono mai aggiornata sugli ultimi avvenimenti, non m’interessano più di tanto. Specialmente se ci saranno degli Hunger Games per conquistare il ragazzo nuovo. Anzi, vederli non mi dispiacerebbe. Cosa c'è di meglio da vedere se non ciocche di capelli volare, extension comprese?
- Non si sa molto, in realtà. Oh, folletto con la pentola d'oro alla fine dell'arcobaleno, fammi un regalo di fine anno: fammi incontrare questo figo! - Urla con tono potente (come se stesse davvero invocando dei folletti) per i corridoi mentre ci dirigiamo alla lezione di Mr. Douglas, il nostro insegnante di storia. E poi parte sempre con l'idea che sia figo a prescindere. Come l'anno scorso, e ricordo ancora le facce demoralizzate di tutte le ragazze dell'istituto.
- Sai che non esistono. - Rido tappandole la bocca dato che alcuni ragazzi si sono girati a osservarla, divertiti. Anche questa mattina ha dato spettacolo. È normale per lei attirare l'attenzione in questa maniera e con i suoi modi di dire che forse ha appreso da suo nonno o suo padre, i quali sono entrambi inglesi, provenienti dalla zona Nord-Est del paese, ma non ne sono sicura. Andiamo, chi mai parlerebbe in questo modo? Lei, comunque, è nata a Ruddy Village, quindi è una cittadina americana.
Apro la porta della classe ed entriamo. Il mio sguardo cade su June Edwards e le sue amichette (animali da compagnia) Summer e Karen, gemelle. Entrambe capelli neri e occhi scuri. L'unica differenza è nel fisico: Summer, infatti, è più bassa di Karen mentre quest'ultima è più formosa della sorella. La nostra classe è la più brutta di tutto l'istituto. Le pareti sono grigie e il pavimento da verde è diventato giallo. Il come è per tutti noi un mistero. C'è perfino un buco nel muro che è stato coperto con una cartina geografica. I banchi sono vecchi e pieni di formule di matematica e fisica. Quelli in prima fila sono più puliti, poiché gli insegnanti li controllano più spesso, a differenza di quelli in fondo all'aula. Su un banco c'è perfino un'intera lezione di scienze sui batteri. Altri, invece, sono pieni di disegni, come il banco di Albert Sanchez, l'artista della scuola. Ha perfino fatto un murale vicino al campo da calcio, che però gli è costato due mesi di punizione. Anche lui è considerato un po' strano da tutti, perfino da me. Passa la maggior parte del tempo a disegnare l'oceano o qualunque cosa riguardi l'acqua. La gente spesso tende ad allontanarlo e lui si ritrova a parlare solo con le persone del club di chimica e della squadra di nuoto, le quali condividono le sue stesse passioni. Ha la pelle abbastanza scura e le labbra grandi e rosee. Un po' di peluria è presente sul suo viso. Ha gli occhi di un castano scuro e i capelli molto neri e ricci, nonostante siano cortissimi. Le spalle sono larghe per lo sport che pratica e non esce mai senza un orologio al polso destro: oggi ne porta uno nero. Le orecchie sono molto piccole e ha uno sguardo accattivante, che sembra nascondere qualcosa d’incomprensibile.
- Se esistessero, chiederei anche di farle esplodere. - Sussurra Delice, riferendosi al "Trio delle Streghe", ovvero June e le sue amiche. Ci avviamo ai nostri posti. Spesso la gente dice che il quartiere è infestato, addirittura stregato, abitato da creature malvagie, ma l'unica cosa malvagia che conosco bene ha un nome: June Edwards. Andiamo a scuola insieme fin da piccole e ogni giorno rende la mia vita un inferno. La sua famiglia è molto ricca ed è rispettata da tutti, quindi si può concedere anche il lusso di comportarsi come vuole, senza aver rispetto di nessuno. Inoltre suo padre è il vicesindaco, dunque ogni volta la passa liscia. Nonostante ciò, devo anche ammettere che è una ragazza davvero bella. Ha dei lunghi e ricci capelli rosso rame che lascia sempre sciolti. Non quei ricci intensi, però. I suoi occhi sono di un verde così scuro che sembra volerti trasformare in pietra ogni volta che ti guarda. Devo anche ammettere che un po' assomiglia a Medusa, la Gorgone della mitologia greca. Non le sono ancora cresciuti dei serpenti al posto dei capelli, ma mai dire mai. Non è una ragazza alta, ma i tacchi le permettono comunque di superarmi. Anche in questo senso, deve farmi sentire inferiore. Ha spesso atteggiamenti regali, direi arroganti. Inoltre, indossa sempre una piccola collana a forma di ellisse che va a chiudersi in una punta verso il basso. Vicino a essa ce ne sono altre due, arrotondate, sui lati. I ragazzi vogliono stare con lei e le ragazze vogliono essere lei. Io, invece, non capisco cosa ci trovino tutti a stare o anche solo a desiderare di essere Satana.
L'intera classe non sembra fare attenzione a noi mentre ci dirigiamo ai nostri posti poiché impegnata nei gossip quotidiani. Delice è seduta nel banco dietro il mio. Poggia lo zaino a terra e ricomincia a parlare. - Kaboom. - Dice indicando June con un ghigno.
- Non indicare. - La rimprovero, lanciandole un'occhiataccia. - Comunque, come fai a sapere di questo ragazzo nuovo? Anzi, come fai a sapere sempre tutto? -
- Esiste una scatoletta magica che si chiama pc, e dentro ci trovi Facebook. - Dice con un sorriso beffardo, quasi da stronza. Non ci faccio molto caso conoscendola: so che è il suo modo di comportarsi e non posso di certo cambiarlo, anche se a volte vorrei davvero.
- So cos'è Facebook, ma nessuno qui sta parlando di quello nuovo, eccetto te. - Guardo Delice con sospetto, assottigliando lievemente gli occhi mentre lei si morde il labbro inferiore in modo colpevole. Sembra una bambina che è stata colta a rubare le caramelle che la mamma le ha proibito di mangiare. - Non dirmi... -
- È come una malattia! In segreteria ci sono tante cose interessanti! -
- Non puoi entrare e frugare nei documenti ogni volta! - La rimprovero di nuovo, abbassando però il tono di voce: non vorrei causarle guai. Questo vizio l'ha dal secondo anno e non l'ha mai perso. Non capisco perché continui a fare così. Forse si sente superiore, quasi onnipotente, a sapere cose di cui gli altri non sono ancora al corrente. - Ecco perché in palestra non ci sei mai. -
- Hey! Conosci la mia filosofia: Delice non suda... -
- ... Delice è felice. - Concludo la frase alzando gli occhi al cielo, divertita. Non è mai stata un'amante dello sport, o anche solo di un movimento che implichi una camminata veloce. Da piccola, infatti, lei rimaneva sempre seduta su una panchina mentre tutti noi altri rincorrevamo una palla o semplicemente giocavamo a nascondino. Spesso leggeva le riviste che rubava alla madre di nascosto, come Cosmopolitan o Vogue.
- L'orgoglio di una madre... - Commenta Delice mentre finge di asciugarsi una lacrima, falsamente commossa. Accenno una lieve risata e prendo il libro di storia dallo zaino, lanciandole un'occhiata contemporaneamente. Delice controlla le notifiche sul cellulare e io sfoglio il libro, non sapendo cosa fare per passare il tempo. Questo è tutto evidenziato in verde e giallo e, accanto al testo, c'è anche qualche appunto scritto qua e là.
- Oddio! - Mi afferra la spalla, che stringe, per cercare di girarmi. Non riuscendoci, mi mette il cellulare in faccia, letteralmente. - Harry Styles si è tagliato i capelli! -
- Non vedo niente se me lo butti in faccia! -
- Buongiorno! - Saluta Mr. Douglas, entusiasta, appena entra in classe, sorridendo e interrompendo (e lo ringrazio per ciò) me e Delice, che nasconde subito il cellulare in tasca e molla la presa sulla mia spalla. Mi stava conficcando le unghie nella pelle. La classe ricambia il saluto mentre ognuno si siede nei propri posti. Mr. Douglas è uno di quei professori che tutti vorrebbero avere. Beh, quelli a cui interessa non rimanere ignoranti, ovviamente. Insegna con passione e riesce a far appassionare alla sua materia senza renderla pesante. Ha i capelli scuri, con la solita riga di lato e una parte di essi spostata verso destra, e una peluria scura in contrasto alla pelle abbastanza chiara. È un uomo sulla trentina, è sposato con una fioraia e solo una cosa ama più di sua moglie: i suoi gilet. Ha solo quelli nell'armadio. Vanno dal grigio e tutte le sue sfumature ad altri colori più vivaci. Si porta sempre dietro la sua valigetta beige. Si leva il giubbotto di pelle e lo poggia sullo schienale della sedia. Dopo si siede sul bordo della cattedra e ci guarda. - Bene! - Esclama sorridente. - Anche quest'anno è andato. Molti di voi andranno in vacanza, ma nonostante i divertimenti estivi pretendo anche voglia di studiare, un pochino almeno. - Si sente già un brusio di sottofondo in segno di protesta, colmo di voci scocciate a quelle parole. Lui continua a parlare nonostante tutto. - Alla fine delle vacanze, quando la scuola riaprirà, voglio tutte le vostre relazioni su un argomento di storia a vostra scelta. -
- Professore, ma come avete detto voi, molti di noi saranno in vacanza. - Osserva June, portando l'attenzione su di lei. È seduta compostamente, con le gambe accavallate, la schiena dritta e le mani unite sul banco di fronte alla cattedra. Naturalmente lei sarà una di quelle che andrà in vacanza.
- Niente giustificazioni. Chi non me la porterà sarà rimandato nella mia materia a prescindere. Avete l'esame l'anno prossimo e vi voglio già carichi per affrontare in modo eccellente quello che sarà il vostro diploma. - Prende il gessetto in mano dopo essersi alzato dalla cattedra, pulisce la lavagna sporca col cassino e poi comincia a spiegare le elezioni del 1860 e la Secessione. Quando spiega, la lavagna si riempie di mappe concettuali e geroglifici.
Dopo ben venti minuti di lezione, proprio quando la mia attenzione sta per calare, essa è attirata dal gesso che si frantuma nelle sue mani, da solo. Solo i pochi che lo stanno seguendo guardano la scena confusi. Mr. Douglas apre il palmo, stupito, mentre la polvere bianca cade sul pavimento. Per un attimo non sento alcun suono, come se una puntina mi avesse perforato il timpano. Mi giro a guardare Delice per assicurarmi che abbia avuto la mia stessa sensazione, ma sembra non aver sentito nulla. Infatti sta scarabocchiando tranquillamente sul suo quaderno. Mi rigiro per osservare il professore. Nonostante l'accaduto, si pulisce la mano con la fronte ancora aggrottata e prende un altro gesso per riprendere a spiegare, come se non fosse successo nulla. Io non riesco a sentire la spiegazione, però: odo solo dei passi rimbombarmi nella mente, nelle orecchie. Porto le mani su queste cercando di bloccare quel suono, inutilmente. Qualcuno mi guarda stranito, ma non ci do peso più di tanto: non è la prima volta che faccio qualcosa di strano. Sembra che la mia testa stia per esplodere. La porta della classe, fortunatamente, si apre proprio quando il rumore di quei passi si fa così acuto da non riuscire più a sopportarlo. Gradualmente, la voce grave del professore ricomincia a essere di nuovo chiara alle mie orecchie, dandomi addirittura sollievo. Fa il suo ingresso in classe il nostro preside, Mr. Scott, una persona insopportabile. Il suo unico pensiero è il denaro. Farebbe di tutto per la buona reputazione della scuola, ma odia i suoi studenti. Si arrabbia molto facilmente e se pensate che il suo aspetto sia migliore, vi sbagliate. Ha forse sessant'anni, ma ne dimostra di più. Ha una barba folta e bianca, lunga fino al collo; i capelli che gli sono rimasti in testa sono ben pochi e neanche il peso è a suo favore, una cosa positiva per noi dato che possiamo scappare facilmente da lui. La sua voce è profonda e roca, segno evidente delle sue continue urla contro gli studenti, specialmente quando corrono via da lui.
- Buongiorno ragazzi. - Mentre ci saluta, dalla porta entra una seconda persona: un ragazzo, un po' più alto di lui. Ha uno zaino su una spalla e subito studia la classe con lo sguardo. Ha sbarazzini capelli biondo scuro, più castani vicino alle orecchie e sulla nuca, che sembrano non essere stati pettinati da anni. Osserva per bene tutta la classe, spostando lo sguardo su ogni alunno presente in quest'aula, incontrando anche il mio per un attimo. Noto i suoi piccoli occhi di un raro colore, di un blu chiaro che, vicino alla pupilla, diventa più scuro. Anche le sue labbra sono piccole e carnose. Il volto è completamente liscio, a differenza di molti ragazzi della sua età; non ha neanche un accenno di peluria sulla pelle pallida. Il suo abbigliamento è casual. Indossa una maglia bianca e, sopra di essa, una camicia di jeans a maniche corte, un paio di skinny neri, strappati sulle ginocchia, e delle Converse dello stesso colore.
Ricambiamo il saluto del preside, alzandoci in piedi in segno di rispetto. Ci risediamo appena ci fa cenno di metterci seduti, non amando lui certe formalità. - Lui è Jackson Mitchell, un vostro nuovo compagno di classe. Fatelo sentire a suo agio, fate amicizia e tutte le altre cose di cui siete ormai a conoscenza. Buona giornata. - Apre la porta e se ne va abbastanza scocciato, lentamente. Davvero, lentamente. Il professore lo guarda sia divertito sia perplesso dopo averlo cordialmente salutato. Magari sta pensando a quanto sia stato sfortunato questo ragazzo a essere accompagnato dal preside in persona, dal momento che non si muove mai dal suo ufficio, e con quanta lentezza abbiano raggiunto l'aula.
- Ehm... bene, benvenuto nella nostra scuola. - Dice Mr. Douglas nel modo più accogliente possibile. Il ragazzo nuovo getta lo zaino a terra con aria menefreghista, si siede comodamente e allunga le gambe sotto il banco, picchiettando su di esso con la punta delle dita. Due ragazze davanti a lui lo guardano estasiate, bisbigliando tra loro. Non oso neanche immaginare i loro commenti. Il professore si siede nuovamente sulla cattedra. - Allora, cosa la porta qui? - Chiede al nuovo arrivato, girandosi il gesso tra le dita.
- Diciamo che Winchester è diventata noiosa perfino per me. - Dice con voce limpida e magnetica, ma allo stesso tempo forte. Una voce che vorresti ascoltare per sempre, senza mai stancarti. Lo guardo attentamente mentre parla, memorizzando i suoi lineamenti. Doveva essere molto popolare nella sua vecchia scuola. Ha un atteggiamento e dei modi di fare completamente diversi da quelli che adottano i ragazzi qui, sembra un vero duro, come se avesse visto e affrontato cose che non possono neanche essere immaginate. Non so perché, ma mi dà questa impressione.
- Ah, l'Inghilterra è un posto stupendo. Ci sono stato parecchie volte. - Annuisce mentre parla, continuando a tenere lo sguardo sul ragazzo. - Comunque speriamo che qui non si annoi, allora. –
Guardo l'inglese sorridere abbastanza falsamente. Mr. Douglas non ci fa caso e riprende a spiegare, rimanendo seduto sulla cattedra. Ritorno a sentire la spiegazione mentre mi rigiro la matita tra le dita. Il gesso si sgretola per l'ennesima volta e di nuovo, per un misero istante, mi sembra di aver perso l'udito. Mr. Douglas, però, non ci presta molta attenzione, così come la classe. Forse lo stringe solamente con troppa forza, dev'essere l'unica spiegazione possibile. - Questi vecchi gessi. - Dice imbarazzato mentre si pulisce le mani e la classe scoppia a ridere. Tutti tranne me e il ragazzo nuovo, intento a fissare il vuoto con sguardo vitreo. Gira la testa un po' di lato per squadrarmi con la coda dell'occhio, poi ritorna a fissare la lavagna, non prestando realmente attenzione a cosa ci sia scritto sopra.
 
 
- Ma mi sembra strano. - Commento mentre prendo alcuni libri dall'armadietto per poi metterli nello zaino. Mi conviene iniziare a toglierli dato che non posso lasciarli a scuola. Domani recupererò i rimanenti.
- Cosa? - Chiede Delice mentre si aggiusta il lucidalabbra con un dito all'angolo della bocca e si guarda in un piccolo specchio, appeso all'anta dell'armadietto.
- Che qualcuno si trasferisca qui e la prima cosa che fa è venire a scuola, dai. Non che poi lui abbia l'aria da secchione. - Chiudo l'armadietto. È bello, devo ammetterlo, e misterioso. Per tutta l'ora di storia ho fantasticato su cosa gli piaccia fare: magari suona la chitarra. In effetti ha le mani da musicista. Le dita sono lunghe e magre e, a differenza della loro carnagione pallida, le nocche sono lievemente rosee. Mi giro e incontro lo sguardo del ragazzo nuovo che sta passando proprio in questo momento. Lui gira subito la testa e continua a camminare fino a raggiungere la porta di ingresso ed uscire.
- Ha fatto un'ottima scelta a trasferirsi qui, però. - Afferma Delice mordendosi il labbro e guardandolo andare via. Le do una gomitata mentre lei esclama un "ahia" in risposta, guadagnandosi una mia occhiataccia. Ha la brutta abitudine di osservare per troppo tempo una persona e non rendersi conto dello sguardo da maniaca che assume.
L'ultima campanella è suonata da dieci minuti, ma tra poco andremo a casa. Compiti non ne abbiamo più e l'estate è appena cominciata per noi. Nonostante sia il penultimo giorno di scuola, il corridoio è quasi vuoto, tranne che per alcuni ragazzi che ridono prendendo gli ultimi libri. Di solito è piena fino alla fine. L'interno della scuola è molto migliore rispetto all'esterno. Fuori ha un'aria molto triste e spenta, come se fosse un carcere. È stata costruita con dei mattoni rossi che tendono a scurirsi quando piove. All'interno i muri sono bianchi; solo quelli in palestra e nei bagni sono sporchi, poiché pieni di scritte. Persone che lasciano messaggi ai loro amori segreti, altre che scrivono frasi o citazioni, testi di canzoni e quant'altro. Gli armadietti sono tutti blu. Molti di loro sono anche un po' arrugginiti, poiché abbastanza vecchi. La scuola non è male come edificio, tranne che per i muri, in cartongesso, e i laboratori, non sempre utilizzati. Sopra la porta d’ingresso è presente il nome della scuola: Abigayle Perket High School, in onore della sua fondatrice. Il parcheggio, nonostante sia piccolo, è sempre pieno di macchine e motorini.
Usciamo da scuola e ritorniamo a casa mia. Stavolta in macchina ha dovuto rovinare una canzone di Rihanna. Appena parcheggia usciamo, chiudendoci gli sportelli alle spalle. Mentre Delice si va a sedere sui gradini, io entro in casa per buttare lo zaino sul divano. Il pomeriggio nel mio quartiere è sempre tranquillo anche perché la signora Moore, la mia vicina, non esce quasi mai di casa; se lo fa, sta nel suo giardino con un bicchiere di tè freddo e una rivista sul giardinaggio. Raggiungo Delice sui gradini mentre caccia dallo zaino i suoi occhiali da sole e li indossa. Parliamo per una buona mezz'ora del più e del meno. La sua giornata non è stata niente male da quanto dice: ha già ricevuto due inviti per delle feste. Da un lato mi sento sollevata di non essere stata invitata, poiché non mi piacciono, dall'altro un po' messa da parte, non voluta: nessuno invita una pazza a una festa.
Oggi è una di quelle giornate afose in cui i vestiti si appiccicano addosso e sembrano non voler più mollare la pelle. Non c'è neanche un soffio di vento. Guardo Delice che si sta prendendo tutto il Sole e non vedo il minimo segno di sudore sul suo volto. Non riuscendo più a sopportare quel caldo, mi sposto all'ombra. Solo lì riesco a sentire una leggera brezza che mi dà finalmente sollievo.
- Come fai a starci? - Chiedo guardandola. Lei è ancora sotto il Sole, reggendosi con i gomiti sul gradino superiore, e ha la testa buttata all'indietro.
- Non ci penso. - Risponde con un sorriso furbo. Alza gli occhiali da sole in testa e mi guarda. - Com'è lì sotto? -
- Il paradiso. - Accenno una lieve risata. Lei ride e si mette in piedi per stiracchiarsi leggermente mentre chiudo gli occhi per riposarmi.
- Sharon. - Mi richiama lei, ma come risposta riceve solo un mio mugolio stanco. - Alzati. C'è Mitchell. - Apro un occhio per mettere a fuoco. Lui continua a camminare fino a entrare nella casa di fronte alla mia. Raddrizzo la schiena, aprendo anche l'altro occhio. Quindi era lui ieri sera in quella Jeep, e quella donna deve essere sicuramente sua madre.
- Che cosa dobbiamo farci? - Chiedo abbastanza confusa mentre la guardo. Lei osserva la casa tutta trepidante, di cosa non lo so.
- Lo seguiamo! - Esclama iniziando a scendere i gradini di fretta.
- Sì, va bene... - Dico rilassandomi nuovamente. Dopo aver elaborato le sue parole mi tiro su, guardandola mentre si allontana. - Aspetta. Cosa?! No! Delice, vieni qua! - Lei non mi ascolta e mi costringe ad alzarmi per impedirle di fare danni.
- Lo avevi di fronte casa e non me l'hai detto! -
- Ma non lo sapevo! - Alzo gli occhi al cielo, infastidita, mentre lei finalmente si ferma davanti al cancello della casa del ragazzo. La guardo negli occhi, lei ricambia il mio sguardo, implorandomi con occhi da cane bastonato. In quel momento capisco il suo piano: entrare. - Non pensarci neanche. - Dico secca mentre la afferro per il braccio, cercando di allontanarla dal cancello prima che lo possa aprire.
- Dai, non rubiamo mica. Ci mettiamo qua fuori e diamo una sbirciatina dalla finestra. Magari troviamo la sua bara. Hai visto com'è bianco? - Chiede ridendo. Mi porto una mano sulla fronte, rassegnata. Non può davvero credere a questa storia dei vampiri.
Non mi dà il tempo di ribattere che si è liberata dalla mia presa e ha già scavalcato il cancello, poi mi fa segno di seguirla. È incredibile che durante l'ora di educazione fisica non alzi un mignolo, ma quando si tratta di vampiri cominci a scavalcare cancelli. Che poi che senso ha scavalcarlo? Lo apro semplicemente e mi apposto sotto la finestra con lei. La casa non è grandissima ed è completamente marrone. Ci sono solo due finestre bianche che affacciano sul giardino principale. Sembra ce ne sia un altro dietro. Quello in cui ci troviamo è completamente vuoto; c'è solo il tipico prato verde che hanno tutti, per il resto non ci sono né vasi né poltrone per l'esterno. Sembra non esserci nessuno in casa, nonostante quel ragazzo sia appena entrato. Tende blu sono tirate davanti alla finestra per impedire di sbirciare dentro la casa. La porta d'ingresso è bianca e si abbina alle finestre, così come le tegole del tetto. Sul recinto intorno alla casa sono presenti piccole luci da esterno, nere come il cancello. Ci sono altre due luci sul muro, vicino alla porta, dello stesso colore.
- Se ci beccano il culo ce lo salvi tu stavolta. - Le sussurro. Mi fa l'occhiolino, accennando un piccolo sorriso, e si alza un po' per poter guardare dentro. La seguo a ruota. Nonostante sia giorno, la casa dentro è buia. Le tende sono abbastanza trasparenti, ma comunque non si vede molto. Riesco solo a intravedere il salotto pieno di scatoloni. - Le hanno tirate apposta per te. - Sussurro divertita. Lei mi tira una gomitata in risposta e sbuffa leggermente.
- Smettila. - Mi rimprovera infastidita, cercando di trovare qualcosa con lo sguardo.
- Hai cominciato tu. Te l'ho detto che non c'è niente. Hanno solo degli scatoloni per il trasloco. - Rimane zitta, continuando a osservare oltre le tende (o almeno ci prova) per cercare ancora l'ipotetica bara del ragazzo. All'improvviso, sento dei passi dietro di me e un rametto spezzarsi. Delice guarda oltre le mie spalle e lancia un urlo di terrore.
   
 
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