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Autore: niard    25/03/2020    0 recensioni
Una folata di vento fece ondeggiare il granoturco, [...] incespicò in una buca del terreno e il respiro morì in un singulto. Portò le mani davanti alla bocca, gli occhi sbarrati, sperando di non essere stato scoperto.
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Alois Trancy, Claude Faustas
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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In questo periodo sto scribacchiando prendendo spunto da qualsiasi cosa mi capiti sotto tiro, una parola, una canzone ecc. In questo caso la noia mi ha portato a riscrivere una OS di qualche anno fa, ormai andata perduta, ma che mi piaceva molto.
Prima di iniziare, sarò onesta dicendo che dal punto di vista teatrale ci sono delle incongruenze – licenza poetica, perdonatemi. Ovviamente storicamente non c’è niente di realmente accaduto, anzi è tutto molto vago e fantasioso.

Title: Ashita mienai Sora - il cielo che non si vedrà domani  

Characters: Alois, Claude

!! rating giallo, AU, tematiche delicate

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明日見えない空

 

 

 

 

   Alois non aveva molto, né una casa né un nome certo, tanto meno poteva parlare di famiglia. Faceva parte dei tanti orfani nati senza innocenza e di ciò la sua vita ne aveva fatto una regola.

Ricordava gran poco della sua infanzia, se non che era scampato da quello che, a tutti gli effetti, appariva come un orfanotrofio di una ristretta comunità religiosa in estremo oriente – era un luogo privo di fede, che accoglieva spietatamente i figli nati da relazioni proibite o abbandonati in templi non in grado di accogliere una nuova vita. Per lo più venivano ceduti per scambi miseri a famiglie di marionettisti itineranti, anche se, preferibilmente, i loro corpi venivano venduti alle più fruttuose compagnie kabuki, sempre in cerca di giovani da buttare in pasto al pubblico; ma ovviamente queste non erano le uniche opzioni. Il tassello fondamentale era esclusivamente rappresentato dal denaro che avrebbe riempito gli stomaci di chi si arricchiva mediante le trattative.

Il destino dei bambini era secondario.

Il giorno in cui arrivò il suo turno, Alois aveva poco più di dieci anni. La donna, che lo teneva stretto per un braccio, lo aveva presentato a un signore dagli abiti occidentali consunti - il tessuto ormai fine in prossimità delle cuciture e palesemente di una taglia più grande, probabilmente recuperato da qualche cliente d’oltreoceano estimatore del teatro giapponese.

L’uomo aveva esaminato il corpo di Alois con occhi invadenti e scettici.

«È albino questo bambino?».

«No, è figlio di una nobildonna straniera e…» la donna fece un rapido segno, stringendo tra le dita ossute la croce che portava al collo, «meglio che non si sappia».

Una mano dell’uomo aveva afferrato malamente il viso di Alois, l’odore di tabacco gli riempì il naso e in pochi secondi la gola, facendolo ritrarre disgustato – un gesto fin troppo brusco per un ragazzino tanto esile, che certamente distorse l’immagine angelica che pareva incarnare.

«Metà del prezzo accordato, è un animale!».

«Basta saperlo gestire, Signore» sibilò la donna nel momento in cui bloccò Alois con le dita piantate come aghi in prossimità della spalla, lì dove i tendini e i nervi erano estremamente sensibili. Poi, con l’altra mano spostò indelicatamente la frangia dal volto contratto dello sciagurato. «Guardi, Alois ha degli occhi magnifici e guardi i capelli, ha mai visto una doratura simile? Sono certa che non ci metterà molto a trovare un protettore che sappia mantenere le sue spese. Alois vale tutti i soldi richiesti e diventerà un ottimo attore» cantilenò la donna, un mantra ipnotico in grado di far virare la diffidenza dell’uomo in curiosità.

 

 

   Fu così che Alois iniziò il suo apprendistato come interprete di ruoli femminili, anno dopo anno migliorandosi e catturando l’attenzione del pubblico per la sua apparente raffinatezza. Sebbene i tempi stessero cambiando, le donne rimanevano sempre un punto aspro nella storia di quell’arte, troppo legate a scandali d’amore e infime pratiche, e per questo motivo nessuno pareva volerle riammetterle nelle scene teatrali. Alois aveva sempre riso insanamente quando pensava ai motivi per cui le donne erano state bandite, perché era conscio che il suo corpo non era minimamente vicino all’essere immacolato e puro come la morale comune si auspicava, anzi sin da subito aveva imparato a soffrire a causa delle mani che, fintamente rassicuranti, gli avevano accarezzato le guance e poi le spalle e provava il voltastomaco nel vendere la propria anima a corpi avidi, che regalavano lui monili preziosi come se fosse una prostituta. Alois aveva sì imparato a camminare con l’eleganza di una donna, il corpo compresso da fasciature strette, che lasciavano striature livide sulla pelle, affinché la sua postura risultasse elegante e ogni segno di mascolinità venisse debellato, ma in cuor suo era sicuro di non poter essere paragonato a una sgualdrina – quanto meno, non per sua volontà. Innumerevoli volte Alois era stato condannato alle punizioni più disparate per non aver tenuto sotto controllo il proprio temperamento, una forza incontrollabile che avvertiva ribollire nello stomaco e incendiarsi al minimo gesto o cattivo commento riguardo il suo status d’attore.

Alois non capiva molte cose di quel mondo, primo fra tutti non comprendeva il motivo per cui dovesse sottostare alle molestie di un luridi uomini e la situazione non parve migliorare una volta trovato un protettore.

Una notte aveva urlato e strappato a mani nude il pregiato kimono che il suo disgustoso protettore gli aveva regalato alla fine di uno spettacolo, a detta sua, perfettamente riuscito; ma Alois sapeva bene che le uniche cose che il vecchio aveva guardato erano le sue forme, rese morbide dalle opulenti vesti e di come i suoi occhi, piccoli e torbidi, avevano bramato per tutta la durata dell’interpretazione di insinuarsi oltre la scollatura degli abiti di scena, proprio dove faceva mostra la sottile colonna vertebrale. In seguito alla performance, Alois aveva dovuto piegarsi alle pratiche più avvilenti per il dono che gli era stato concesso. Il corpo sudato del protettore e i bastoncini d’incenso sparsi per la stanza l’avevano stordito e nauseato; quando il suo ego ferito si era risvegliato nella solitudine delle ore notturne, aveva rigettato la sua ira sul dono - un kimono di seta rossa lucente, intrecciato in finissimi disegni d’oro e piccole pagliuzze d’argento. Doveva valere una fortuna. Alois ricordava ancora il dolore alle braccia per lo sforzo di dilaniare e tirare la stoffa, di come gli occhi erano arrossati dal riflesso del kimono e dal pianto caotico in cui era caduto.

Era stato punito per l’oltraggio.

Alois aveva atteso l’alba inginocchiato sulla ghiaia del cortile, un lenzuolo leggero a coprire i segni della sua più intima vergogna.

    

 

   Poi era arrivata la guerra, le città distrutte e il profumo dei ciliegi impercettibile, dilaniato da tanto dolore. La popolazione aveva perso la propria identità, annaspava per sopravvivere e il teatro era stato lasciato a decomporsi; ma neanche questo parve, paradossalmente, salvare Alois. 

Gli spettacoli si erano drasticamente ridotti, per lo più venivano mantenuti i rapporti con i protettori di ogni artista, oppure intrattenevano gruppi di rozze cariche militari straniere, che schiamazzavano senza ritegno durante la rappresentazione.

Tutto appariva marcire davanti suoi occhi, sperava che almeno la guerra si estinguesse.

 

 

   In una serata come tante altre, Alois era inginocchiato davanti alla specchiera e osservava la propria figura nella penombra – il corpo esile coperto dalle pregevoli stoffe, così scure da sembrare un lago notturno in cui riverberava la luna, i fermagli per i capelli poco distanti dalle ginocchia, sulle quali le dita nervose artigliavano il kimono. Il volto riflesso, elegante nei lineamenti, reso ancora più magnetico dalla stanchezza intrecciata nelle iridi d’inverno, era frastagliato da timidi ciuffi di fumo provenienti dal bastoncino d’incenso. Socchiudendo gli occhi, Alois inspirò profondamente l’odore vibrante, non potendo fermare le palpebre, che fremettero un po’ per la fastidiosa fragranza, che gli ricordava la morte e d’altra parte per la tensione che gli attorcigliava le membra. 

Lo spettacolo era finito da tempo, aspettava il vecchio protettore come un condannato attendeva la gogna.

«Alois vieni subito!» la voce stridula di una delle ragazze che aiutavano la compagnia perforò il silenzio.

Il giovane digrignò i denti, maledicendola.

«Alois, Alois è importante!» la giovane non si perse d’animo e fece scorrere gli shōji della stanza, praticamente urlando. «Non sai cosa è successo, proprio nei campi qua dietro! Io… io ho visto un uomo cadere dal cielo!»

«Cosa stai dicendo, è impossibile!» rispose il ragazzo ancora più infastidito.

«Ti sto dicendo la verità, sono andati a prenderlo e ora è qui! La Nonna lo sta curando, devi venire a vedere».

In un battito di ciglia, la ragazza aveva afferrato Alois per un polso, obbligandolo a seguirla in una camera adibita a infermeria. 

L’aria era pregna dell’odore di erbe mediche e di una sostanza disinfettante che pizzicava il naso; Alois si fece spazio tra gli altri membri della compagnia raggruppati attorno al futon in cui vi era steso un uomo - i capelli corvini in contrasto con il corpo pallido ancora punteggiato di fuliggine e dove qua e là venivano applicati cerotti spartani, che la Nonna stava inzuppando di medicinale. L’uomo si contorse stremato quando le dita dell’anziana premettero in prossimità dell’ustione sul fianco.

«Chi diavolo è?».

«Non lo sappiamo, ma è un soldato» un attore mostrò la divisa bruciata, ma ancora facilmente riconoscibile.

«Quando sono andati a prenderlo, hanno trovato il suo paracadute e più in là un ammasso di fiamme» spiegò un artista più anziano.

«Ma avrà un nome! Rispondi, come ti chiami?» Alois si impose, ma l’uomo che l’aveva acquistato anni prima lo fermò.

«Ci porterà denaro e fama. La nostra compagnia ha salvato un uomo dell’esercito, è questo che conta».

Alois avrebbe voluto ribattere, ma si irrigidì nel momento in cui incontrò gli occhi indescrivibili dell’uomo caduto dal cielo.

 

 

   Passò una settimana e lo strano uomo dall’accento cittadino, nasale ed elegante al punto giusto, continuava ad attirare l’attenzione di tutta la comunità – le ragazze della casa orbitavano attorno all’uomo senza nome, apparentemente un buco nella memoria a causa dell’incidente, e gli chiedevano di raccontare qualunque cosa ricordasse.

«Hai visto quanto è bello?» si sentiva poi mormorare, mentre una giovane ridacchiava nascosta dalla propria mano.

Alois inizialmente era stato distaccato, seppur non totalmente immune al fascino dell’uomo misterioso – le sopracciglia, delineate e scure, che si corrugavano in cerca di un ricordo andato perduto sopra gli occhi dalla forma affusolata e di un’inusuale iride che ricordava il miele. Alois aveva trovato insanamente magnetica la bocca digrignata, dove i denti bianchi facevano mostra in una stretta d’agonia ogniqualvolta veniva medicato; ma non aveva mai dato voce ai suoi pensieri.

Un sera, la Nonna aveva chiesto ad Alois di occuparsi dello sconosciuto.

«Ha bisogno di riposo e non di trovare moglie!» si era lamentata con voce rauca. «Non ne posso più di sentirle parlare come se non avessero mai visto un uomo. Ora, portagli del tè e controlla se la febbre è scesa, se non è così allora torna a chiamarmi» aveva concluso borbottando.

Non senza uno sbuffo, Alois aveva preso l’incarico, dopotutto, la donna più anziana della casa non poteva essere contraddetta. Il giovane aveva riempito una tazza di tè già freddo e, ciondolante, si era recato in quella che ora veniva chiamata infermeria.

Entrato nella stanza, aveva scorto l’uomo caduto dal cielo fissare le travi del soffitto.

«Ehi tu, vuoi del tè?».

L’uomo fece leva sui gomiti, mordendosi le labbra al dolore lancinante delle ferite.

«Sta fermo! Hai perso la memoria, non la parola, basta un sì».

Entrambi sospirarono - uno un po’ stizzito, l’altro indolenzito.

L’uomo caduto dal cielo necessitò anche di un aiuto per bere quel misero bicchiere di tè, dato che la vasta ustione sul fianco pareva continuare a causargli problemi con i movimenti.

Alois lo fissò per secondi interminabili.

«Davvero non ti ricordi come ti chiami?» rimuginò, puntando gli occhi curiosi in quelli che ricambiavano lo sguardo.

«No e continuare a chiederlo non cambierà la situazione…» l’uomo tentennò, il nome dell’attore sulla punta della lingua.

«Alois, sono Alois!» soffiò pungente.

«Sembra il nome di un fiore» il corvino stese le labbra in un impercettibile sorriso in grado di far arrossire l’attore.

Alois, per dissipare l’imbarazzo, appoggiò non molto delicatamente una mano alla fronte dell’altro in un malriuscito tentativo di misurare la temperatura – non aveva la minima idea di come si facesse, aveva semplicemente visto l’anziana fare quel gesto.

«Vado a chiamare la Nonna, devi avere ancora la febbre!».

 

 

   Era la prima settimana di agosto, una terribile sera in cui la calura imperlava la pelle di umidità. Le cicale si stavano assopendo, mentre le lucciole sembravano aver abbandonato quel mondo martoriato dalle continue perdite.

Il membro dell’esercito senza nome pareva essersi ripreso, anche l’ustione lentamente gli stava dando una tregua. Aveva passato la giornata ad ascoltare Alois, così come stava capitando di frequente nelle ultime settimane. Quel giorno, il giovane gli parlò della propria arte – l’iniziale entusiasmo con cui descrisse il mondo patinato del teatro l’aveva attirato, ma ciò che realmente era riuscito a catturare il corvino era stato il momento in cui Alois aveva deposto la maschera e il disprezzo aveva iniziato a sgorgare acidamente dalle sue labbra, mostrando l’altra faccia della bellezza, quella decadente e rivoltante. Aveva ripetuto come intrappolato in un’ossessione che tutto ciò che appariva agli occhi del pubblico era falso, che la realtà era ben altra.  

Da quell’istante Alois si era rabbuiato, apparendo come un guscio senza anima.

«Cosa stai guardando?» chiese seduto a fianco del ragazzo.

«Hiroshima…» Alois rispose sovrappensiero, mentre osservava il cielo senza stelle in cui un velivolo si stagliava cupo. «Ogni giorno partono tantissimi aerei da Hiroshima. Non esiste né giorno né notte per loro. Spero che tutto finisca al più presto, la vita è già difficile di suo, io non capisco…» mormorò, stringendosi nella veste.

«Le alleanze prese non salveranno questo paese, l’Imperatore ha sbagliato i suoi calcoli» la voce tagliente dell’uomo scosse Alois, che stupito si girò a guardarlo – nei suoi occhi parve accendersi una scintilla di sospetto e incredulità.

Come poteva un membro dell’esercito criticare così apertamente l’Imperatore? Soprattutto, perché scadeva a denigrare la propria patria quando era da giorni che non si sapeva nulla riguardo la guerra, i collegamenti via radio erano saltati nelle zone extraurbane.

L’uomo scosse la testa, quasi a mo’ di scusa, «anche io voglio finisca. Quanto dista Hiroshima da qui?».

«Penso poco più di due ore, forse meno» mugolò Alois.

L’uomo annuì.

 

 

    Passarono una manciata di giorni da quella inusuale sera. Era l’alba, il cielo tinto di rosa e pesca in cui i cumuli erano bassi sopra i campi di mais.

Era da interminabile tempo che Alois seguiva nascosto nella piantagione, dove le foglie gli graffiavano le gambe e le guance, l’uomo caduto dal cielo. Aveva il cuore in gola e respirava affannosamente dalla bocca mentre il sudore attaccava fastidiosamente la frangia agli occhi e colava oltre il colletto della camicia.

A notte fonda, Alois aveva sentito dei passi nel cortile e furtivamente aveva sbirciato dalla propria stanza, notando il soldato vestito con la divisa malmessa – camminava a grandi passi nella notte deserta, imboccando la strada che portava fuori dal complesso della compagnia teatrale. Alois si era infilato i primi vestiti che aveva trovato e, fulmineamente, aveva consumato la distanza che separava loro; era stato molto attento, ma seguire l’uomo stava diventando difficile. Alois era stremato, non pensava di poterlo seguire fino a Hiroshima, perché era proprio quella la via che stavano percorrendo.

Una folata di vento fece ondeggiare il granoturco, Alois incespicò in una buca del terreno e il respiro morì in un singulto. Portò le mani davanti alla bocca, gli occhi sbarrati, sperando di non essere stato scoperto.

Non udì nulla, ma i suoi timpani non erano così fini da percepire delle voci sconosciute avvicinarsi.

Quindi, Alois arrancò ancora sulla terra arida, ma appena due spari fendettero l’alba non poté che urlare, le ginocchia affondate dolorosamente nel terreno e le dita coprirono impaurite le orecchie.

Poi tutto fu improvviso – un nuovo sparo, le piante flessuose che si piegavano dinanzi a sé e un colpo con il calcio del fucile lo ferì alla testa. Alois perse quasi i sensi - tutto divenne nero e offuscato, percepì del sangue gocciolare tra i capelli fino allo zigomo e poi al mento. Fece appello a tutte le sue forze per mettere a fuoco la cerchia di persone che discutevano tra loro in una lingua a lui estranea.

Tra essi riconobbe l’uomo caduto dal cielo, che però, lo guardò senza emozioni - i lineamenti intimidatori, gli occhi penetranti come spine fecero tremare Alois.

Attorno al corvino si trovavano tre uomini che portavano una divisa diversa, la bandiera ricamata sul braccio urlava la parola nemico. Il gruppo sembrava interrogare sul da farsi l’uomo che chiamavano Claude.

Alois trasalì, «Claude?».

Una scossa sembrò trapassare Alois quando capì che l’uomo di cui tutti i membri della casa andavano fieri, non aveva mai perso la memoria, che non era mai stato un semplice soldato. 

La figura innocua e ferita dell’uomo caduto dal cielo si trasfigurò nelle iridi chiare di Alois.

«Claude, tu sei una spia, un traditore, tu…» la voce era sottile, fragile di confusione. 

Claude non rispose, dopotutto aveva raggiunto il punto di ritrovo il giorno prima che Little Boy facesse la sua comparsa, strappando l’ultimo respiro a quella terra. Questo era l’importante, perché se avesse mancato la data prestabilita, per lui sarebbe stata la fine, venendo tramutato in un ricordo di un coraggioso infiltrato, che aveva portato a termine la missione, ma mai rimpatriato.

Claude si inginocchiò davanti ad Alois e con il palmo della mano seguì la guancia calda - la sporcò di sangue, in un gesto di finta compassione.

«Non guardare il cielo domani» furono le ultime parole che Claude proferì con raggelante calma.

Alois avvertì gli occhi riempirsi di lacrime di un’ingestibile paura. Poi venne tirato per una manica, costretto a rimettersi in piedi.

«Run bunny, run!» urlò uno dei compagni di Claude, spingendolo con tanta forza da farlo rovinare nuovamente a terra.

Claude gli dedicò un ultimo sguardo prima di parlare con gli altri nella sua lingua incomprensibile. Poi, voltarono tutti e quattro le spalle ad Alois.

Alois si strinse nelle braccia, rimanendo in silenzio finché il fruscio delle foglie non si consumò - il cuore si contraeva spasmodico nel petto e atroce risuonava nei timpani. 

«Perché domani…cosa significa non guardare il cielo?!» gridò senza fiato.

Dei corvi si alzarono attorno ad Alois, ma nessuno rispose.







 

 

   
 
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