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Autore: Ruta    26/03/2020    2 recensioni
Il fantasma di suo padre si mostra per la prima volta quando mancano meno di cinque mesi al suo diciottesimo compleanno. Ha già trascorso sette mesi in isolamento e penserebbe di essere impazzita se non fosse per il fatto che Jake Griffin non è il primo fantasma che le sia mai comparso di fronte.
[AU in cui Clarke ha la capacità di vedere i fantasmi ed è il Comandante della Morte in più di un modo. Bellarke]
Genere: Angst, Guerra, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Bellamy Blake, Clarke Griffin, Wells Jaha
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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ghost

To want is what bodies do

And now we are ghost

- Marina Tsvetaeva, from "Poem of the End"

 

 

 

Il fantasma di suo padre si mostra per la prima volta quando mancano meno di cinque mesi al suo diciottesimo compleanno. Ha già trascorso sette mesi in isolamento e penserebbe di essere impazzita se non fosse per il fatto che Jake Griffin non è il primo fantasma che le sia mai comparso di fronte.

"Ciao, papà," lei lo saluta con un sorriso tremulo, dopo un attimo di silenzio interdetto. Le dita con cui stava ritraendo l'ennesimo paesaggio impossibile su una delle pareti della cella sono attraversate da uno spasmo lieve, insignificante. Non piange nel vederlo. Perché dovrebbe? Le lacrime sono destinate a momenti di sconforto. Questo non lo è e al contempo lo è. Sa cosa significa il fatto che lui sia lì con lei e il petto sembra troppo piccolo per contenere la massa sconfinata del suo cuore.

Suo padre sorride e in quel sorriso è contenuto il pentimento di chi si rende conto di avere commesso un grave torto nei confronti di qualcuno che amava e non sa come espiarlo. A differenza di sua madre, lui non ha mai rifiutato le sue storie, scusandole prima come le puerilità di una bambina e poi come stramberie o ricerca di attenzioni. Però non le hai mai creduto davvero, non fino a quel momento.

"Ciao, tesoro," lui risponde.

Clarke chiude gli occhi, la matita le scivola dalla presa allentata, cadendo sul pavimento con un rumore ridondante.

Non sa cosa sta provando nello scoprire di essere il rimpianto più grande di suo padre.

 

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We shall not cross into an unfamiliar land

 

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I fantasmi sono costanti della sua vita da quando aveva cinque anni, o almeno il suo primo vero ricordo di uno di loro risale a quando aveva cinque anni. Ricorda una vecchia signora dal viso smunto e le mani scarne, gli occhi tristi e gentili, con cui fingeva di prendere il tè, che le ha insegnato il concetto di prospettiva nella rappresentazione dello spazio e i metodi con cui eseguirla nei suoi disegni.

Per suo padre ha sempre avuto una fervida immaginazione anche da piccola. Curiosa, precoce, brillante, hanno sempre detto di lei per cercare di definirla.

E strana, per colpa dei fantasmi, ma questo nessuno ha mai avuto il coraggio di dirglielo in faccia. Non che ce ne fosse bisogno. Sguardi cauti, diffidenti, prevenuti. Negli anni Clarke ci ha fatto il callo. Se una bambina trova oggetti di valore inestimabile nascosti dagli antenati per i "giorni di pioggia", mostra come accendere vecchie apparecchiature di cui persino gli ingegneri hanno dimenticato il funzionamento, presta orecchio a voci che solo lei può ascoltare e diventa il loro portavoce per far arrivare nelle mani giuste i rimpianti che li trattiene, dopo un po' la perplessità si trasforma in un sentimento più tagliente e crudele. Non c'è comprensione per chi è diverso o eccentrico, per chi non si attiene a schemi prestabiliti, chi non mostra le attitudini giuste, non rientra nel sistema. Non c'è perdono per chi spicca in un mondo piramidale in cui ognuno ha un ruolo, un posto preciso da occupare.

La bambina cresce e il dubbio delle persone quando la guardano diventa il baricentro delle sue insicurezze e la forza propulsiva della sua arditezza temeraria, della sua generosità, del suo altruismo, della sua pertinace abnegazione.

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La prima cosa che nota di Bellamy Blake non è il sorriso sardonico o il tono provocatorio con cui le parla, tantomeno la luce derisoria con cui la squadra da testa a piedi. No, la primissima cosa su cui il suo sguardo si sofferma è il fantasma della donna alle sue spalle. Dimostra l'età di sua madre, è alta e longilinea. Bella come può esserlo un'arma da esposizione. Non importa quanto finemente decorati siano l'elsa e il fodero, la lama è un veleno letale per l'anima.

Quando Bellamy insiste per aprire il portellone e Clarke cerca di fermarlo, gli occhi della donna si assottigliano pericolosamente. La vede poggiare una mano sulla spalla del figlio e ripetere il suo stesso suggerimento. Dopo un attimo di considerazione Bellamy scrolla la testa e fa l'esatto contrario di quello che lei e sua madre hanno detto. Apre il maledetto portellone.

Da quel momento, insieme al figlio, Aurora Blake diventa la sua spina nel fianco.

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I fantasmi vanno e vengono. Clarke è sempre stata curiosa di sapere dove trascorrono i momenti in cui non sono con lei, tuttavia non ha mai espresso a voce alta il suo interesse. Teme che sarebbe sgradito e fuori luogo.

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I fantasmi non la rendono una persona migliore, ma la rendono più vecchia e condividendo con lei le loro esperienze sotto forma di storie della buonanotte, è cresciuta prima dei suoi anni. Sa segreti di cui non dovrebbe essere a conoscenza e con la potenza immaginifica della sua mente è stata in posti in cui non ha mai messo piede, a volte è parte della storia e dei loro ricordi più del presente.

Si rende conto di essere diversa dal resto dei Delinquenti. È stato così anche sull'Arca. Clarke è un'anomalia, lo è sempre stata. Sulla Terra, però, le differenze si assottigliano come ombre. A chi importa che sia in possesso di informazioni che a nessun altro di loro è dato conoscere? Che le sue intuizioni siano sempre per lo più corrette?

I fantasmi sono i suoi occhi, la sua memoria, la sua coscienza.

Non è mai andata contro i loro consigli.

C'è una prima volta per tutto.

Non sono trascorsi neanche cinque giorni da quando hanno messo piede sulla Terra e Wells ha appena cercato di parlarle. Clarke ha finto di non notarlo. Suo padre è con lei e osserva la sua ritirata con occhi incredibilmente tristi.  "Dovresti provare a sentire quello che ha da dire."

Clarke continua a raccogliere legna da ardere. "Non voglio. So già cosa mi direbbe e non mi interessa."

"Tesoro-"

"Credi che voglia sentire le sue scuse?" Lei lo interrompe. "Che possa perdonarlo per quello che ha fatto? È colpa sua se sei morto."

"Sapevo a cosa andavo incontro. Conoscevo i rischi."

Certo che li conosceva. Suo padre ha sempre avuto un piano per tutto e piani di riserva in caso di fallimento. Era l'uomo capace di riparare l'impensabile. La coppia con le mani miracolose, li chiamava Wells scherzando. Sua madre, la donna che salvava vite e suo padre, l'uomo che ricostruiva dal nulla con pezzi di scarto.

Wells ammirava suo padre e nonostante questo-

"Anche lui," risponde. Le sue labbra sono screpolate, la sua bocca secca. È disidratata. Stringe con maggiore forza i rami che ha raccolto. "Tutti dobbiamo pagare il prezzo delle nostre scelte."

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Non ci sono rimpianti a trattenere Atom. Il ragazzo scivola nell'Oltre come un'ombra, i suoi passi sicuri, senza indugi. Qualunque cosa stia osservando, il suo viso è trasfigurato in un'espressione di pura e assoluta gioia.

"Grazie," dice, voltandosi ad osservarla da sopra la spalla. Sta sorridendo e la pelle attorno al suo sorriso è liscia, non deformata dalle piaghe e dalle bruciature.

Clarke lo vede scomparire. Il sangue sulle sue mani è ancora caldo, i suoi occhi spalancati e riversi. Il mormorio della sua voce riecheggia un'ultima nota prima di spezzarsi.

Gli chiude gli occhi con tutta la delicatezza che riesce a racimolare. Bellamy le passa dell'acqua per ripulirsi le mani, la sua espressione criptica e intensa. Nessuno dei due dice nulla. La morte è morte. Cosa c'è da aggiungere? Qualsiasi altra parola sarebbe superflua.

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Scoprire che è stata sua madre a consegnare suo padre e non Wells rischia di distruggerla. Poi qualcosa cambia e la disperazione è sostituita da un sentimento drasticamente differente. La rabbia risuona dentro il suo corpo come una melodia stonata, sdegnosa e smodata. Sua madre non è l'unica a cui è destinata. Comincia a camminare e si allontana dal campo finché l'unico rumore distinguibile è il suo respiro accelerato. Quando è sicura di essere completamente sola, urla.  Inginocchiata, le mani affondate nel terreno ad artigliare il nulla in cerca di un appiglio, urla finché non ha più fiato nei polmoni, finché la gola le brucia come se avesse trangugiato fuoco liquido.

Quando volta la testa verso suo padre, non è l'unica ad avere gli occhi arrossati, le guance umide.

"Perché non me lo hai detto?" sussurra, ogni parola una stilettata di sofferenza nella sua laringe.

"Avevi già perso un genitore."

Annuisce, ma è un gesto privo di significato. "Perciò sono un'orfana."

"Non dire così. Tua madre-"

"Ti ha tradito," lo interrompe. Lo vede indietreggiare di fronte al suo sguardo. Qualunque espressione ci sia sul suo viso deve essere terrificante. Abbastanza da far sì che il rimorso scavi nuove rughe sulla fronte e attorno alla bocca di suo padre. Bene, pensa. Ora che anche la rabbia ha cominciato a scemare, c'è solo desolazione. La sua mente è una trincea. "Ha lasciato che tu venissi eiettato e che mandassero me in quest'inferno."

"Era per offrirti un futuro migliore. Voi siete l'ultima speranza rimasta."

Sa cosa sta cercando di fare. Non le importa. Non c'è ragione che tenga, ogni convinzione crolla sotto il peso crudele della verità. Ci sono azioni imperdonabili. Razionalmente può accettare le motivazioni che hanno spinto sua madre a prendere quella decisione. Può come leader, non come figlia.

"È come se ti avesse ucciso lei. Non mi interessa perché l'ha fatto. Non la perdonerò mai. Mai."

Mai, le hanno insegnato i fantasmi, può essere un tempo molto lungo.

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"Non così o ti pungerai," avverte Aurora da sopra la sua spalla.

Clarke annuisce sovrappensiero e ovviamente è il momento in cui Bellamy decide di sedersi accanto a lei. Colta di sorpresa, lei sussulta e l'ago le punge l'indice.

"Attenta, principessa o potrei pensare che ti rendo nervosa."

Non solleva la testa, ma può praticamente percepire il suo sogghigno canzonatorio nella penombra.

"Cosa stai facendo?"

Rotea gli occhi. "Non si vede?"

"Se stai provando a rammendare quello strappo, non stai facendo un buon lavoro," lui commenta e stranamente la sua voce non suona critica né offensiva.

Questo la convince a deporre le armi. Si ferma prima di pungersi nuovamente e sospira, fissando corrucciata il pessimo lavoro fatto fino a quel momento. "Credi che non lo sappia?" L'ammissione ha un suono mortificato alle sue stesse orecchie. È talmente ridicolo. Lo è l'intera faccenda. Che sia in grado di suturare qualsiasi tipo di ferita, ma le sfugga come rammendare uno strappo è umiliante, tanto per dirne una.

"Da' qua."

Il suo sguardo è pesante sul suo viso e per la prima volta, senza l'espressione belligerante che solitamente sfoggia, la somiglianza con la donna alle sue spalle diventa innegabile.

"Cosa?"

Tra i due è lui ad apparire imbarazzato ora. "Ho detto, da' qua."

Presa in contropiede, lei gli passa la maglietta senza una parola. Lo osserva come ipnotizzata. L'ago si muove con pazienza e precisione.

"Ho imparato da mia madre," lui dice a mo' di spiegazione, come se si sentisse in dovere di giustificarsi. "Era una sarta."

Clarke azzarda un'occhiata alle sue spalle. Aurora sta guardando suo figlio, irrigidita al punto da essere un tutt'uno con il tronco dell'albero. 

"Era brava?"

Bellamy annuisce. Le sue mani sono veloci, ma i suoi occhi sono lontani, smarriti in vecchie memorie che, a giudicare dal minuscolo sorriso che non riesce a sopprimere, devono procurargli abbastanza gioia da fargli dimenticare dov'è, con chi sta parlando. "Tanto che anche voi della stazione Alpha vi abbassavate a venire alla nostra porta per chiederle di confezionare abiti e riparare orli. A volte le richieste erano troppe e c'erano giorni in cui le sue mani-" la sua voce si arresta e all'improvviso l'incantesimo sembra spezzarsi. Lo vede battere le palpebre velocemente e i ricordi smettono di mulinare vorticosi nel suo sguardo. Il suo viso si chiude, trincerandosi dietro la sua maschera preferita di freddo cinismo e ostentato disprezzo.

"Tutto quello che so, me lo ha insegnato lei," conclude e scrolla le spalle. Il ragazzo è scomparso di nuovo e Clarke ne sente acutamente la mancanza. "Esattamente come tu sei la figlia di tuo padre, principessa, io sono il figlio di mia madre."

Anche se è in ombra, l'espressione sul viso di Aurora è una che Clarke non dimenticherà mai.

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"Wells?"

Lo vede uscire dal folto del bosco e il sorriso le muore sulle labbra. La luce della luna attraversa il suo corpo come una ragnatela ricoperta di rugiada.

Si sente intorpidita. No, pensa. No. No.

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"Non è stato Murphy," spiega Wells.

Clarke ha smesso di tremare, ma il freddo le si è incuneato nelle ossa. Il corpo di Wells è meno traslucido e opalescente nelle prime luci dell'alba. La terra sulla sua tomba è ancora smossa.

"Allora chi?" domanda. Chiunque sia stato pagherà. Ci penserà lei se necessario.

"Che importanza ha?"

Finalmente si volta a guardarlo. Il suo migliore amico. Un ragazzo che aveva tutta la vita davanti a sé, un futuro che gli è stato strappato ignobilmente. Chiunque sia stato, merita la ferocia della punizione che gli spetta. Non è vendetta, è giustizia.

"Chiunque sia stato, è un assassino," parla lentamente, inesorabilmente. "Ti ha ucciso a sangue freddo, colpendoti alle spalle. Merita di pagare le conseguenze delle sue azioni."

Wells la guarda come se la vedesse per la prima volta, come se non la riconoscesse. "Che fine ha fatto la tua compassione?"

Clarke si morde una guancia, abbastanza forte che il sapore del sangue le invade la bocca, le sporca i denti. "È morta con te."

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"Non è stato Murphy!" esclama e la veemenza nella sua voce arresta i passi di Bellamy. Lo sguardo che le rivolge è indecifrabile, le si pianta nel cranio. 

"Come lo sai?"

Clarke tace.

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"Cosa è successo? Tu sei morto. Ti ho ucciso. Cosa-" Charlotte si guarda attorno e il panico nei suoi occhi sbarrati tinge la notte come un incubo. Come se l'orrore di averla appena vista buttarsi da uno strapiombo non fosse sufficiente, ora il suo fantasma è in piedi accanto a quello di Wells.

"È tutto apposto," la rassicura Wells, incredibilmente paziente mentre le tende una mano. "Ti stavo aspettando."

Dopo che lei e Bellamy hanno bandito Murphy, dopo che ognuno si è diretto verso la propria tenda inclusi Bellamy e Finn, Clarke rimane indietro e nel silenzio che la circonda si avvicina ai due fantasmi che li hanno seguiti e che ora sono seduti vicino al fuoco, impegnati a conversare, le teste accostate come se si stessero confidando dei segreti. È un'immagine stranamente confortante, tanto che per un attimo lei sceglie di sorvolare sul fatto che i loro corpi non proiettino ombre sul suolo o sullo strano lucore della loro pelle, simile a quello distante delle stelle, alla bioluminescenza da sogno delle lucciole.

"Sai cosa ti trattiene?" sta dicendo Wells. Dopo la nottata appena trascorsa la sua pacatezza è un balsamo per le orecchie. "Il tuo senso di colpa. Perdona te stessa e potremo andare avanti."

Charlotte aggrotta le sopracciglia, la confusione che prova è evidente. "Non capisco. Perché sei così gentile con me? Ti ho portato via ogni cosa."

"No, non ogni cosa." Wells scuote la testa. "Solo il mio futuro."

Clarke vorrebbe ridere, invece si ritrova a lottare contro i singhiozzi. Charlotte è la prima a registrare la sua presenza. "Cosa succederà adesso?" domanda.

"Puoi scegliere di rimanere," lei risponde impulsivamente.

"E se non volessi?"

Clarke sorride, ma è un sorriso doloroso. Sta cominciando a capire che a poco a poco è quello che faranno tutti. Wells e Charlotte sono solo i primi a scegliere di lasciarla, ma presto o tardi anche suo padre e Aurora e tutti quelli che verranno faranno lo stesso. Cosa ne sarà della ragazza circondata dai fantasmi allora? Cosa rimarrà oltre alla voragine della loro assenza?

"Puoi scegliere di andare avanti," dice perché non può mentirle, non può essere consapevolmente egoista cercando di trattenerla.

Charlotte appare rincuorata e risponde al suo sorriso con uno incerto. Poi si volta verso Wells e la sua espressione si accartoccia, la sua voce torna ad essere tremula. "Mi dispiace per quello che ti ho fatto. Ero spaventata e volevo solo che gli incubi scomparissero. Resterai con me?"

"Lo prometto," dice Wells e la sua luce sembra più intensa, più chiara. Abbraccia quella di Charlotte e la notte si stempera attorno a loro come se i colori fossero stati diluiti. Quando cominciano a sbiadire, a Clarke manca il respiro.

"Wells," lo chiama, la voce rotta dall'emozione, dalle lacrime che le bagnano le ciglia e le guance.

Wells la guarda e la pace nei suoi occhi è l'unico dettaglio su cui lei riesce a concentrarsi. "Sei la migliore tra di noi. Lo sei sempre stata. Mi mancherai."

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So few grains of happiness

measured against all the dark

and still the scales balance.

The world asks of us

only the strength we have and we give it.

Then it asks more, and we give it.

- Jane Hirshfield

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ii

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Si sveglia e per un attimo è convinta di essere morta. Ogni sensazione è attutita, il bianco vivido delle pareti le rende difficile tenere gli occhi aperti. Li chiude e ricorda. Un anello di fuoco. Bellamy. Finn.

Quando li riapre Aurora è china su di lei, l'unica macchia di colore e vita nella sterilità impersonale della stanza e se non è quello un ossimoro.

Si volta su un fianco, nasconde il viso nel cuscino. "È ancora vivo?" mormora, la voce soffocata dal tessuto di cotone grezzo, la speranza una cosa difficile da nascondere. 

"Non lo so."

Un battito.

"Octavia?"

Una leggera esitazione. Una carezza gelida e inconsistente sulla fronte. "Al sicuro."

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Le informazioni raccolte da suo padre durante le sue ricognizioni confermano i timori che nutriva. Sembrava troppo bello per essere vero.

"Non sono ciò che dicono di essere," dice Jake Griffin, pallido come non è mai stato neppure in vita, le mani strette a pugno e qualcosa, in fondo ai suoi occhi insolitamente duri e blu acciaio, la fa tremare per la furia che contengono, a malapena trattenuta.

"Attenta," sussurra quando Dante entra nella stanza. "Non credergli."

Lui e Aurora sono piantati come due pilastri accanto a lei, ognuno su un fianco. Suo padre le stringe la spalla. Aurora le sfiora il gomito. Tocchi leggeri come ali di farfalla, praticamente impercettibili.

Non sei sola, sembra che stiano dicendo in quel loro modo silenzioso e quieto. Siamo con te. Non sei sola.

Per la prima volta sente che potrebbe essere vero.

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Il fantasma di Finn non compare. Quella notte Clarke non chiude occhio. Non riesce a capire se quello che prova è lancinante sollievo. Poi comincia a vederlo dappertutto.

"È solo un'eco," le spiega Aurora. "Non abituarti. Scomparirà in un paio di giorni."

Pensava che non vederlo fosse una punizione sufficiente, ora scopre che al peggio non c'è mai fine.

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Il fantasma alle spalle di Lexa non evita più il suo sguardo. I suoi occhi sono grigioverdi, i suoi capelli hanno una sfumatura ambrata. Clarke scopre il suo nome. Costia.

"Non ti preoccupa il fatto di non essere la prima?"

Clarke scuote la testa in modo impercettibile. È diventata efficiente nel portare avanti conversazioni di questo tipo, fatte di silenzi e gesti e microespressioni.

No, non la preoccupa. Non lo è stata neppure per Finn. Non glielo ha fatto amare meno intensamente, non le ha fatto detestare meno sé stessa per quello che gli ha fatto.

Dopo tanti anni, se c'è una verità che ha imparato sui fantasmi è proprio che l'amore rappresenta il rimpianto più grande.

Con Lexa impara anche che è una debolezza. 

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"So che non approvi," dice. Sono sole nella tenda. Non riesce a guardare Aurora negli occhi. Ha paura di quello che vi troverebbe. Disappunto, molto probabilmente.

"Andrò con lui," la sente dire dopo un intervallo di tempo che le è sembrato interminabile. Clarke solleva la testa di scatto. Il mezzo sorriso che arcua la bocca di Aurora le è più familiare del suo stesso riflesso. Gemello di quello che Bellamy era solito rivolgerle quando la chiamava 'principessa'. "Non sarà solo."

Esala un respiro che non si era accorta di aver trattenuto fino a quel momento. "Ti ringrazio."

Per cosa la stia ringraziando, però, non è sicura nemmeno lei.

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"Mia figlia sarebbe potuta morire per colpa tua, ma in quel caso forse mio figlio non sarebbe qui."

Clarke ripensa al coro di lamenti e urla, al tanfo di carne bruciata, alla marea di fantasmi ciondolanti tra le macerie di Tondc, a come i suoi stessi genitori abbiano iniziato a guardarla come se fosse qualcosa di ripugnante, come se non fosse più la figlia che hanno cresciuto e amato, come se un'estranea avesse usurpato il suo posto.

Ripensare a ciò che ha fatto non la fa dormire. Era necessario e lo rifarebbe, soprattutto considerando l'alternativa. Questo non lo rende meno sbagliato. A prescindere dalla missione e da ciò che comporta per salvare chi rimane dei cento da Mount Weather, la vita di Bellamy non dovrebbe avere più valore di quella di centinaia di sconosciuti. Non è sano. Non cambia la realtà dei fatti. Per lei lo è. Bellamy è più importante.

"Non mi perdonerà facilmente," dice.

Specialmente quando scoprirà che ha messo a repentaglio la vita di Octavia.

"Il perdono non deve essere facile," risponde Aurora, inesorabile come lo scorrere del tempo, "altrimenti i nostri peccati smetterebbero di avere il minimo peso."

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Dante non è la prima persona che uccide. I morti di Tondc pesano sulla sua coscienza come il masso di Sisifo.

E ora questo.

"Sei sicura di quello che fai?" domanda Jake.

Sua madre compare nello schermo e suo padre non batte ciglio, concentrato com'è su di lei.

No, non lo è, ma che scelta ha?

"Non potrai tornare indietro," lui insiste. "Ti cambierà irreparabilmente, ti segnerà a vita. Non tornerai mai ad essere la persona che eri prima. Sei pronta ad accettare il peso delle morti che causerai, del loro sangue sulle tue mani?"

Tutto in lei rigetta quello che sta per fare, che sa di dover fare.

"Mia sorella, una mia responsabilità," dice Bellamy, avvicinandosi a lei e alla leva. Aurora fa una smorfia, come se le fosse stato inferto un colpo mortale, ma rimane in silenzio ad osservare in un angolo, a braccia conserte, senza intervenire. Solenne e rigida, la sua figura è un punto di luce fioca che stride nel buio che li avvolge.

"Devo salvarli," lei risponde a entrambi, sia suo padre sia Bellamy.

Suo padre annuisce e la risoluzione con cui la guarda, in parte orgoglio in parte cordoglio, le spezza il cuore. Ha già visto quello sguardo, sa già cosa sta per dirle.

"Allora non hai più bisogno di me."

È davvero la fine?

Bellamy sovrappone la mano alla sua sopra la leva. "Insieme," dice.

"Insieme," lei ripete. Suona come una promessa, come un'assoluzione.

Più tardi, quando i fantasmi che abitavano Mount Weather cominciano ad ammassarsi in superficie e a scomparire, lei è lì ad osservare. Nelle orecchie riecheggiano ancora le recriminazioni di Jasper, ogni volta che chiude gli occhi rivede il volto deturpato di Maya.

Sono una moltitudine, uomini, donne e bambini uccisi dalle radiazioni - da lei -, centinaia di Terrestri e di Mietitori. Il prato sembra troppo piccolo per contenerli tutti. In prima fila, pronto a guidarli, suo padre ha ritrovato il sorriso. Clarke ricomincia a respirare. Ci sono tutti e nella morte non c'è più distinzione tra nemici e amici, tra colpevoli e innocenti. La morte li ha resi uguali. Per un istante il mondo si riempie di luce sfolgorante e si propaga a perdita d'occhio nel vuoto, incendiando il buio della notte come un'esplosione, tanto che Clarke ne è accecata e deve coprirsi gli occhi, nasconderli dietro i palmi delle mani.

Quando la luce si spegne, si estingue anche il sogno. Il prato ritorna ad essere solo un prato, i morti tornano ad essere i corpi da seppellire e il viso di suo padre si trasforma nel ricordo che è sempre stato.

Quando inizia a piangere, crolla sul prato ormai deserto, circondata dall'abbraccio del cielo d'un tratto soverchiante. Ha mille ragioni per piangere. Piange per Finn, per suo padre, per Maya, per Jasper e infine per sé stessa, per la ragazza che era e che non esiste più, sepolta sotto il peso delle scelte impossibili, del genocidio che ha appena compiuto.

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Il sole può tramontare e poi risorgere. Noi, invece, una volta che il nostro breve giorno si spegne, abbiamo davanti il sonno di una notte senza fine.

- Catullo

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iii

 

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La mattina inizia con la solita domanda. È diventato una specie di rito. Dopo aver raccolto i pochi averi e camuffato il passaggio nella grotta in cui ha trascorso la notte, Clarke registra le presenze che la perseguitano. Una in particolare.

"Perché sei ancora qui?" domanda a Maya, nascondendo poco e male un cipiglio. La verità è che continua a non capire. Potrebbe essere con Jasper. Dopotutto - "Non sono io il rimpianto che ti trattiene," dice e sa di essere nel giusto quando, per la prima volta da quando le è comparsa davanti, Maya incrocia il suo sguardo con uno fermo, le parole che le rivolge poche, ma chiare e risolute. "No, ma io sono il tuo."

Niente di più vero, pensa Clarke e annuisce tra sé. Questa deve essere una mattina straordinaria sotto molti aspetti perché invece di ammutolirsi e andare a controllare le trappole come farebbe di solito, lei frena ancora una volta i suoi passi.

"Mi odi?" È una domanda stupida. Anche se non la odia per quello che le ha fatto, non la perdonerà mai per aver sterminato la sua gente. E ciò nonostante ha bisogno di sentire la sua risposta. Dio, quando è diventata così autolesionista?

La sua esitazione è infinitesimale. "Giusto o sbagliato che fosse, è quello che hai scelto," risponde Maya e scuote la testa. "Nessuno di noi è innocente. Non scaglierò la prima pietra, Clarke. Non ero quel tipo di persona quando ero viva. Non voglio diventarlo adesso che sono morta."

Clarke va a controllare quelle dannate trappole.

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La prima volta che sente il nuovo nome che i Terrestri le hanno dato scoppia a ridere e non smette finché non assaggia il sapore delle lacrime e le risate si trasformano in singhiozzi.

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"Devi tornare a casa. Il tuo posto non è qui."

Seduta vicino alla sponda del ruscello, Clarke continua a fare il bucato, ma arrischia un'occhiata verso l'alto. Si rende conto all'istante di aver commesso un errore. Lo sguardo di esasperata frustrazione, le rifrazioni di luce dalla canopia sopra le loro teste che sembrano far emergere macchioline simili a minuscole lentiggini sul viso affaticato di Aurora, la postura marziale delle spalle e del bacino. Tutto grida un nome che lei si è proibita di pensare, figurarsi nominare.

Deglutisce a vuoto e chiude le mani a pugno per nascondere il leggero tremore che le attraversa, riabbassando la testa. 

"Non è neppure con loro," risponde seccamente.

"Solo perché hai deciso di non meritarlo," lei replica sulla falsariga del suo tono. Poi si addolcisce considerevolmente. "È tempo di pace anche per te."

Wanheda sussurrano gli anziani, il suo nome si è già trasformato in uno spauracchio per bambini. In una vita diversa sarebbe stata fisa, una guaritrice. Non in questa, a quanto pare.

"Non ci sarà mai pace per me." Una volta pronunciata, ha un sapore amaro come tutte le verità che si preferirebbe dimenticare. "Non capisci?" Le mani sono strette attorno alla maglietta che stava sciacquando, così forte che i tendini cominciano a dolerle. "La guerra non è finita, non finirà mai."

La sente allontanarsi e conta i passi. Di solito è al decimo che scompare. Cinque. Sei. Sette. All'ottavo la sente fermarsi. Un refolo di vento trasporta la sua risposta e anche questa fa male, un bruciore intenso come una puntura di vespa. "Non è finita, è vero. La porti ancora nel tuo cuore."

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Non smette di lottare. Lotta con le unghie e con i denti, come ha imparato a fare allenandosi nei villaggi quando si fermava a barattare le sue prede in cambio di notizie, erbe medicinali e spezie, vestiti.

Aurora ricompare al suo fianco durante una sosta. "Cinque coltelli nascosti oltre a quello con cui ti ha minacciato," elenca, in una procedura ormai consolidata. "I suoi scarponi hanno una punta rinforzata." Scompare di nuovo.

Ore più tardi, dopo il terzo tentativo di fuga fallito, Aurora ritorna. Qualcosa sul suo viso teso le fa battere il cuore più velocemente, ad un ritmo serrato. Un nome, quello che si rifiuta di pronunciare, occupa con prepotenza ogni spazio dentro di lei. Bellamy, canta il suo sangue. Bellamy, scricchiolano le sue ossa indolenzite. Bellamy. Bellamy. Bellamy.

"Ti sta cercando. Resisti finché puoi. Prendi tempo. Lui è vicino."

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Il vestito cerimoniale che le hanno fatto indossare le aderisce alla pelle come una guaina. Le hanno intrecciato i capelli in un'acconciatura elaborata, truccato gli occhi con colori di guerra. Osserva il riflesso nel piatto dorato e vede un'estranea dall'aspetto ferale. Ha il suo volto, ma il suo sguardo è freddo come ghiaccio, come una lama piantata a tradimento tra le scapole.

Si chiede se sia così che la immaginavano quando hanno scelto di darle quel nome. Wanheda. Una farsa. Solo un titolo senza alcun potere. Si passa le mani sul vestito, spianando pieghe immaginarie.

Aurora la osserva come un falco, senza battere ciglio. "Non essere nervosa."

"Non lo sono," risponde.

"Sei sicura di quello che fai?"

La domanda ricorda una situazione analoga, per quanto le circostanze fossero completamente differenti. Innesca ricordi dolorosi. Stringe le labbra. "Ho scelta?"

Aurora indugia. I suoi occhi incrociano i suoi nel riflesso distorto. "Un giorno l'avrai," promette con un fiero cipiglio e poggia una mano sulla sua spalla, stringendo leggermente, "e quel giorno sarà glorioso."

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At the start, the end, and in the middle.

Strange how it mattered so much,

when now it matters so little.

- Lang Leav

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L'ultima volta che l'ha visto, lei indossava le vestigia del titolo che le hanno conferito come una maschera, come l'arma a doppio taglio in cui ha scelto di trasformarsi. Lui le ha chiesto di tornare a casa. Lei ha rifiutato. Non era pronta. Pensava di dover dimostrare che lo meritasse. Parte di lei lo pensa ancora.

La volta successiva che lo vede c'è il fantasma di una ragazza alle sue spalle. Ha un viso a forma di cuore intelligente e attraente, sopracciglia eleganti e sottili come ali di rondine. Clarke cerca di ricordare il suo nome, ma la verità è che non ha idea di chi sia.

Quando rimane da sola nella stanza, ammanettata e con il cuore spento, non riesce a capire. 

"Non sono riuscita a convincerlo," mormora, rivolta a nessuno in particolare, lottando contro il groppo in gola e il senso di abbandono. Perché?

Poi ricorda la ragazza e ha la risposta che cercava. Senso di colpa. Sofferenza nascosta dietro la rabbia. Vendetta venduta come giustizia. Ecco come Pike è riuscito a conquistarsi la lealtà di Bellamy, la sua fiducia.

Le persone circondate da fantasmi sono persone amate. Questo ha sempre pensato. Questa convinzione cosa rivela del suo carattere, cosa lascia trapelare del suo cuore? E cosa rivela di Bellamy che due donne abbiano scelto di rimanere con lui anche dopo la morte?

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"Perché non è qui?"

Non ricorda di aver mai provato un dolore simile. O forse sì. Tutti i dolori sono simili nel profondo, eppure diversi. Come gli amori. I lutti si dimenticano, impari ad anestetizzarli, addomesticandoli al tuo volere e poi, quando ti sembra di essere tornato alla normalità, perdi qualcun altro e tutto ricomincia daccapo, in un ciclo infinito di dolore perpetuo.

Aurora indica la custodia di latta che contiene la Fiamma. "Perché è lì dentro."

"E se la distruggessi?" Si sente annaspare. "Sarebbe come voi?"

Per la prima volta da quando la conosce, intravede un sentimento di commozione e compatimento negli occhi di Aurora Blake. "Lo vorresti davvero?"

Quello, più di qualsiasi altra cosa, rischia di spezzarla. "Non lo so," risponde sinceramente. Sotto la gabbia toracica il dolore è acuto e persistente, come se una costola si fosse rotta e le avesse perforato un polmone. "Non so più cosa voglio. So solo che sono stanca di essere sola."

Aurora annuisce, le labbra strette, il volto illuminato dai riverberi delle candele in un gioco di chiaroscuri frastagliati. "Torna a casa, Clarke," dice alla fine e quella semplice affermazione sembra risucchiare l'ossigeno della stanza e ogni energia residua dal suo corpo. Ferrea ostinazione e adrenalina la mantengono in piedi oramai.

È una preghiera e molto, molto di più.

"Ne ho ancora una?"

"Ne avrai sempre una," lei risponde. "La tua sono le persone che disperatamente proteggi."

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***

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Il fantasma di Lincoln è uno dei più luminosi che abbia mai visto. Clarke sente le lacrime pungerle gli occhi, indesiderate. Potrebbe crollare da un momento all'altro. Questo, più dell'addio di Wells o di suo padre, è il punto di non ritorno. Poi Aurora abbandona il suo fianco e stende la mano verso Lincoln, che la sta osservando con uno sguardo di ammirazione e muta meraviglia. Deve avere già intuito chi è la donna che gli sta di fronte. La somiglianza è rimarchevole dopotutto.

"Piacere di conoscerti, ragazzo," dice e se la piega spigolosa del suo sorriso è puramente Octavia, il modo in cui lo soppesa, freddo e calcolatore, è interamente Bellamy, la sua feroce protezione. "Suppongo di essere la suocera invadente. Farai meglio a metterti al lavoro. Clarke sta provando a ingraziarmi da mesi."

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***

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Un campo fangoso e trecento cadaveri di Terrestri con ferite causate da armi da fuoco.

Bruciarli richiede il lavoro congiunto di trenta uomini.

Alla fine della giornata è talmente esausta che ogni muscolo del suo corpo reclama il conforto di un letto. Invece di avviarsi verso la tenda che lei e Lexa condividono, si lascia cadere con un tonfo dove si trova. I fantasmi sono una filiera di perle contro l'orizzonte. Troppi per contarli. Troppi per fingere che non esistano.

Aurora compare al suo fianco, grigia come un cielo nuvoloso, gli occhi che sembrano piombo fuso, l'inverno nella spina dorsale.

Quando vede comparire anche Lincoln, quando lo vede avviarsi verso i fantasmi accalcati, Clarke capisce. Il suo cuore emette note discordi, come tamburi da guerra. Gli corre incontro. Ha ricominciato a piovere e le sue lacrime si mischiano alla pioggia, ripulendo le sue guance striate di terra, sangue e sudore.

Il sorriso di Lincoln è lo stesso di suo padre, lo stesso di Wells. Ineffabile. Enigmatico.

Non può farlo. Non può. "Cosa mi dici di Octavia?"

Lincoln si ferma e le mani le prudono per il desiderio che ha di ritrarlo come appare in quel momento. Un uomo bloccato in una tempesta, nell'unico punto di quiete mentre il resto del mondo collassa e si sgretola. Gocce di pioggia intrappolate sulle sue ciglia, sul naso, sulla fronte.

"Il mio popolo, una mia responsabilità," risponde con un tono ieratico, fissando lei e Aurora con occhi insondabili come abissi.

Il mondo brilla di nuovo di fronte a lei, ardendo e divampando e, non per la prima volta, quando il sogno svanisce, il peso del suo dovere le frana addosso. Questa volta non crolla. Le sue spalle hanno avuto il tempo di abituarsi a quel fardello, sono abbastanza larghe da sopportarlo adesso.

"Il mio popolo, una mia responsabilità," ripete. Ha il sapore sacro di un giuramento, ma anche di una condanna.

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These mountains that you are carrying, you were only supposed to climb.

- Najwa Zebian

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iv

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"Perché non lo hai lasciato parlare?"

Sa cosa le sta chiedendo davvero.

La conosce abbastanza bene da afferrare al volo il velato rimprovero che la domanda lascia solo trapelare. Se esiste una sostenitrice del suo lieto fine, una più accanita di sua madre, quella è Aurora Blake. Tanto meglio se sopracitato lieto fine prevede anche Bellamy.

Il letto è quasi troppo comodo. Dopo mesi trascorsi a dormire su brandine o per terra o a non dormire affatto, è una sensazione strana sprofondare nella morbidezza dei cuscini, sentire il copriletto setoso sotto i polpastrelli. La doccia calda è servita a sciogliere la tensione accumulata dietro il collo, nella sua schiena. Non è bastata a spegnere la stanchezza che incendia ogni nervo del suo corpo. I suoi pensieri sono ancora in guerra, non riescono a trovare un punto d'intesa.

Clarke non distoglie lo sguardo dal fuoco scoppiettante del camino mentre cerca di raccogliere le parole che fanno a pugni nella sua testa per trasformarle in frasi di senso compiuto.

"Voglio che lo dica perché è la verità," risponde alla fine, la voce poco più alta di un bisbiglio, "perché pensa che sarà la prima di molte altre volte. Non perché il mondo sta finendo e perchė potrebbe essere l'ultima occasione per dirlo." Volta la testa e nell'espressione intensamente vigile di Aurora trova la boccata d'aria fresca di un prato vuoto e illuminato dalle stelle, di una pioggia obliqua a ripulirla dall'odore della morte, di un sorriso di pura luce. "Voglio iniziare la nostra vita insieme in tempo di pace. Sono stanca di combattere, anche se non so che persona diventerò quando sarò costretta a deporre le armi."

Aurora non batte ciglio. Le sue mani le scostano i capelli ancora umidi dal viso. Sono fredde al tatto come l'acqua ghiacciata di un ruscello di montagna, la canna di un fucile. Lei non si ritrae al contatto. Il tocco della morte ha smesso di spaventarla da anni. Negli ultimi mesi è diventato per lei più caro e reale delle carezze dei vivi.

"Sei una persona straordinaria," dice Aurora e la sincerità con cui la sta guardando, l'amore e la tenerezza che brillano nei suoi occhi, sono abbacinanti. "Che sia tempo di pace o tempo di guerra, non cambia ciò che sei qui dentro e qui dentro." Una mano si poggia sul suo petto, due dita le sfiorano la fronte. "La tua testa e il tuo cuore sono nel giusto, lo sono sempre stati."

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I fantasmi restano indietro per il rimpianto, ma poi rimangono per amore, per devozione. I fantasmi per lei sono sempre stati quello. La testimonianza che la morte non uccide l'amore.

Con Echo è la prima volta che non è così. L'odio brilla spietato nel volto della ragazzina alle sue spalle, affilato come un rasoio.

"Mi ha ucciso," spiega la ragazzina con un sorriso ferino. "Mi ha ucciso e ha rubato il mio nome. Un giorno morirà e io sarò qui ad aspettarla."

Clarke ha smesso di tremare di fronte alle minacce, agli orrori della guerra. Anche di fronte alla fine del mondo rimane un guscio vuoto, le sue reazioni edulcorate. Però prova ancora sgomento. Le promesse dei fantasmi hanno un valore diverso da quello dei vivi. Sono inviolabili e non si può tornare indietro perché il prezzo, in caso di spergiuro, è l'anima e un tormento immortale.

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"Non farai in tempo. Non puoi andare."

È la fine. Lo capisce nel momento in cui perfino Aurora non riesce a cancellare l'angoscia dai suoi occhi sbarrati e apprensivi e cerca di intralciarle la strada. È la prima volta che le rivolge la parola da quando ha chiuso Octavia fuori dal bunker, da quando ha puntato una pistola contro Bellamy.

Clarke serra la mandibola, contrae le spalle. Il dolore le riverbera dalla bocca e dalla base del cranio lungo il collo e la schiena come un serpente di fuoco.

La sconfitta ha il sapore della cenere e del ferro sotto la lingua. Le gira attorno e comincia a incamminarsi verso la torre satellitare a testa bassa. "Devo."

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Il cielo esplode attorno a lei in una deflagrazione che le rimbomba fin dentro le ossa. La terra trema sotto i suoi piedi dietro l'azione distruttrice delle radiazioni. Clarke ne respira la violenza e ogni inalazione è un tormento che diventa più insistente ad ogni secondo che passa, senza offrirle tregue di alcun genere.

Nella salvezza del laboratorio di Becca, mentre cerca modi per contenere l'agonia e alleviare il bruciore diffuso indistintamente su tutto il suo corpo, una voce la accompagna nelle sue manovre.

Le pareti continuano a oscillare davanti ai suoi occhi. Il suo respiro suona simile a un fischio, ha sangue sui denti e sulle gengive. Una voce che lei conosce, così simile a quella di Bellamy e altrettanto adorata, che a poco a poco si abbassa e scompare come una marea, la segue nell'oblio. 

"Clarke, respira. Puoi farcela. Hai affrontato cose peggiori. Respira. Respira."

Clarke respira e quando si risveglia, anche se una parte di lei non vorrebbe, continua a farlo.

-

v

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È completamente sola. Per la prima volta in vita sua non ha neanche un fantasma a farle compagnia. La sua teoria è che sia colpa delle radiazioni. Devono interferire o qualcosa di simile.

Si guarda attorno. Questo mondo che è bruciato e continua a bruciare, che sta morendo per poter rinascere nella metafora che è la vita stessa. Il cerchio che si chiude e poi ricomincia daccapo il suo ciclo, in un susseguirsi di azioni e ripetizioni. Morta viva. Un ossimoro, pensa. Si gira per condividerlo con –

Il momento passa, il silenzio resta. La sensazione sottopetto si aggrava.

Non si è mai sentita così sola.

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Ad Arkadia segue la scia di devastazione fino ai quartieri interni. Supera senza fermarsi il bar, gli scheletri inceneriti che contiene.

Intasca la lettera d'addio che Jasper ha lasciato per Monty e se anche è un po' umida, chi è rimasto per rimarcarlo?

Prima di andarsene accarezza un'ultima volta gli occhiali di Jasper. Ripensa al ragazzo trafitto da una lancia e a cui ha salvato la vita, non a quello a cui ha spezzato il cuore. A una ragazza che amava l'arte come esaltazione della capacità espressiva dell'uomo e del suo genio, incapace di essere meschina anche di fronte alla morte.

"Spero che siate insieme in un posto migliore," bisbiglia e il silenzio intorno a lei non è mai stato così assordante.

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Aurora ricompare non appena mette piede nella valle. Il suo profilo austero, capace di dimostrare in qualsiasi occasione una calma composta e serena, subisce un mutamento repentino nel momento in cui i loro sguardi si incrociano. La confusione iniziale cede il passo ad un'emozione diversa, più violenta, poi si incrina.

Dicono che la morte è imperturbabile e immutabile. Che è la fine di tutto, la nota di chiusura. Che raccogli ciò che hai seminato in vita. È una spudorata menzogna.

"Grazie a Dio," boccheggia Clarke tra i singhiozzi. Le braccia di Aurora la avvolgono ed è come essere abbracciati dalla pietra, dalla foresta stessa. È come se gli alberi avvertissero nell'aria l'intimità di quella riunione e volessero condividerla con luce e calore, il verde delle foglie più brillante che mai, la terra malleabile e cedevole sotto le ginocchia.

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L'atmosfera peculiare che ha percepito mettendo piede nel villaggio ora si spiega, annichilendola.

Una bambina circondata da un intero clan di fantasmi. Il pensiero le stringe il cuore.

"Mi prenderò cura di lei. Non lascerò che le accada nulla di male. Lo prometto."

I fantasmi non parlano inglese, ma afferrano il significato delle sue parole, dell'impegno che ha appena assunto. Lo ha già visto in passato con Wells, con suo padre e con Lincoln, ma mai così. È come assistere all'implosione di una costellazione di stelle. I loro visi pacifici, divorati da una luce di una purezza impossibile, più abbagliante del sole.

Il rimpianto di un genitore amorevole, quello di aver abbandonato il proprio figlio, affrancato dalla consapevolezza di lasciarlo in mani fidate.

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"Non capisco."

Aurora ha seguito la traiettoria del suo sguardo smarrito. In qualsiasi altra occasione Clarke troverebbe divertente l'incredulità sul suo viso. Ora invece le chiude la gola in una morsa. Abbraccia Madi un po' più stretta e distoglie velocemente gli occhi dal bacio che Bellamy e Echo si stanno scambiando. Qualcosa dentro di lei si frantuma sotto l'ennesima consapevolezza. Sei anni, dice una voce dentro di lei. Credevi davvero che nulla sarebbe cambiato? Credevi davvero di poter ricominciare dal punto in cui vi eravate lasciati?

Aurora le poggia una mano sulla spalla.

Non capisce neppure lei, vorrebbe dirle, ma l'incomprensione l'ha resa muta come una tomba, l'ha tramortita.

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Ci sono così tanti fantasmi, troppi per contarli. Le loro espressioni vuote le fanno accapponare la pelle. Ha già visto quegli sguardi in altri visi emaciati e il senso di sbigottimento che prova è lo stesso che ha provato allora, quello scaturito dalle tenebre indotte dai cuori degli uomini.

Ricorda come se fosse ieri la storia di Ajay. Aveva quindici anni quando ha scoperto del Blight. Memorie di quando era una bambina e prendeva il tè con una signora dagli occhi tristi. L'idea che quella fosse stata la sua fine- la bile le riempie la gola, ora come allora. Questa volta non rigetta e non lascia che i singhiozzi le squassino la schiena come se potessero spezzarla. Ingoia il boccone acre e lascia che l'orrore le scorra nelle vene come veleno, come acido. Pianta con maggiore fermezza i piedi a terra. I suoi occhi bruciano. Non piange e non distoglie lo sguardo dall'esercito di morti che la attornia, il loro salmodiante 'Wanheda' quando si accorgono di lei.

"Qualsiasi cosa sia successo, deve essere stato terribile. Clarke-"

Lo sa, non serve che Aurora aggiunga altro. Non una parola di questo dovrà raggiungere Bellamy. Non finché riesce a evitarlo.

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"Non è la figlia che ho cresciuto," dice Aurora e la sua disperazione è come una lacerazione. Osservarla è un'esperienza più straziante di qualsiasi trauma.

"Nessuno di noi è rimasto lo stesso," cerca di confortarla, ma Aurora non dà segni di cedimento. La sua logica è rigorosa, non lascia spazio a inutili sentimentalismi. Che proprio questa donna, una creatura razionale e dalla mente pragmatica e poco prone a manifestazioni affettive, abbia scelto consapevolmente di contravvenire alla sua stessa natura per amore potrebbe apparire come uno dei più grandi misteri dell'universo conosciuto. Potrebbe e può per chiunque che non sia Clarke.

"Tu lo hai fatto in tutto ciò che conta," replica Aurora, il lutto inciso profondamente nel suo viso irrigidito dalla preoccupazione. "La guerra può averti indurita, ma il tuo cuore non ha smesso di battere, non ha smesso di spezzarsi."

A quello Clarke non sa come rispondere. È una delle primissime lezioni che ha imparato dopotutto. Un cuore spezzato continua a battere e a funzionare e niente gli impedisce di spezzarsi più e più volte.

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"No," dice Bellamy, conciso e brusco, ma Clarke punta lo sguardo oltre la sua spalla, sulla donna dall'aspetto concentrato e grave che è a braccia conserte dietro di lui.

"Rimane mia figlia," lei risponde. "Se lo fai, dovrai dirmi addio."

Clarke sente il colore defluirle dal volto.

La sua idea viene prontamente accantonata.

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"Sai che l'ha fatto per salvarti la vita. Octavia ti avrebbe uccisa."

Lo sa. Certo che lo sa. Ma ci sono avversari più temibili, sorti peggiori. Non teme la morte. Perché dovrebbe? Ha visto cosa l'attende, sia che decida di rimanere sia che decida di andare. Non ha motivo di provare paura.

"Ha preso mia figlia e l'ha resa un bersaglio. L'ho pregato di non farlo e lui l'ha fatto lo stesso." Sui polsi sono visibili le abrasioni che si è procurata dopo che lui l'ha lasciata incatenata a un muro a gridare e disperarsi. Se non le disinfetta a dovere e le fascia con bende sterili potrebbero infettarsi. Ci sono punti in cui le escoriazioni sono profonde e lasceranno cicatrici. Non che le importi, non davvero. Cos'è una in più? Soprattutto quando ce ne sono altre nascoste, sottopelle, che non guariranno mai. "Perché la sua famiglia è più importante della mia," conclude amaramente.

"Lo so," dice Aurora e c'è un intero mondo di verità dolorose racchiuso in quella semplice affermazione. Mia sorella, una mia responsabilità, riecheggia nella sua testa. Sono trascorsi anni da allora. Certe cose non cambiano e certe esperienze smettono di essere traumatiche, ma definiscono il tipo di persona che sei. È tipico di Bellamy sacrificare qualsiasi cosa per salvare coloro che ama. Fa parte di lui, della sua natura. Un tratto imprescindibile.

Arrischia un'occhiata alla sua destra per accertarsi di non aver svegliato Madi. Raggomitolata sul sedile anteriore, è pallida e sudata e la sua espressione non si è rilassata neppure nel sonno. Clarke digrigna i denti.

"Tu non lo perdoneresti," dice.

"Ecco perché sei una persona migliore di me. Il tuo amore ti rende più forte."

Amore. Sì, lo ha amato un tempo, continua a farlo tuttora. Di un amore disperato e assolutista. Ha amato il ricordo del ragazzo che conosceva, senza avere la minima idea dell'uomo che sarebbe tornato dopo sei anni tra le stelle. Animata dalla cieca fiducia in lui, nel loro rapporto. Ma ora, nell'ora più buia di tutta la sua vita, non è più convinta di quello che accadrà, che quella fiducia sia stata ben riposta. Non solo in lui, ma anche in sé stessa. Perché nella quiete della Rover, mentre guida nel deserto, può finalmente ammetterlo. Bellamy non è l'unico ad essere cambiato. Anche lei lo è. Forse è questo il problema. I ruoli si sono ribaltati, le dinamiche devono necessariamente adattarsi. L’ho amato come uno di voi, come se fosse un fantasma. Ecco, il suo errore. Non ha mai preso in considerazione la prospettiva del cambiamento inevitabile operato dal tempo, dalla separazione.  

"Non lo so più."

"Sì che lo sai o non ti sentiresti così."

"Mi ha tradita."

"E tu lo stai abbandonando per questo."

"Octavia non ucciderà il suo stesso fratello."

"Dovrà se vuole mantenere il potere. Un tempo lo avresti capito. Certi sacrifici sono necessari per il bene comune. Ora sei troppo accecata dalla paura di perdere ciò che ami per salvare tutti loro, per ricordare chi sei."

Chi è? Wanheda sembra un ricordo lontano. Dopo sei anni trascorsi ad essere semplicemente Clarke, pensava di essersi sbarazzata di quella parte del suo passato. Ora capisce che è stata una speranza ingenua. Non andrà mai via, non la lascerà mai libera. Non smetterà di perseguitarla. "Non voglio più essere quel tipo di persona. Pensavo -" si zittisce di colpo e comincia a battere le palpebre per disperdere le lacrime. Ha la vista offuscata. Non serve che dica altro. Aurora ha già capito. Stringe il volante e preme il pedale dell'acceleratore.

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***

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Sta osservando Madi e Bellamy. Nella sua mente è già partito il conto alla rovescia. Clarke stritola la radio come se ne andasse della sua vita. Aurora sembra distratta e quando capisce il motivo è troppo tardi.

Bellamy e Madi sono nella stessa posizione, ma all'improvviso non sono più soli. Centinaia di fantasmi hanno occupato la radura e il loro lucore è pallido e intermittente. Aurora si allontana da lei e il cuore di Clarke perde un colpo prima di ricominciare a battere disperatamente, come un uccello in gabbia che cerchi di uscire. "Cosa stai facendo?"

Aurora non sorride e forse la ama un po' di più per questo. L'idea di lasciarla non le provoca alcun piacere. "Io resto qui," risponde.

"No, non puoi-" devi rimanere con me.

"Qualcuno deve guidarli nell'Oltre. Sai che è la scelta intelligente. Come Jake e Lincoln prima di me, ora è il mio turno."

"Non posso perdere anche te." Non sta sussurrando e non si sta nascondendo. Che vedano pure, pensa. Che pensino che è impazzita. La grande Wanheda, finalmente spezzata dal peso delle atrocità che ha commesso in nome della pace. "Non posso rimanere sola."

"Oh, tesoro." Aurora ripercorre i passi che le separano. Le poggia una mano sulla guancia, le sfiora la fronte con un bacio in una dimostrazione d'affetto più unica che rara. La sua luce, più forte che mai, sembra volerla accogliere dentro di sé. "Non sarai sola. Guardati attorno. La distanza che vedi è solo un'illusione. Basterebbe così poco per colmarla."

Come una falena attratta dalla fiamma, Bellamy si volta in quel momento per rivolgerle uno sguardo che lei non riesce a decifrare. Clarke riporta la sua attenzione su Aurora. "Non ne sono in grado." La sua gola è così gonfia che ogni parola ha un suono raspante.

"Gli ultimi passi sono sempre i più difficili."

"Ogni passo lo è per me."

"Non deve essere così per forza. Digli quello che provi. Non aspettare."

"Mi odia."

"È arrabbiato. Gli passerà. Il perdono è il cuore pulsante del vostro rapporto. È arrabbiato perché tiene a te. Devi solo avere pazienza."

Quando si scosta e comincia a scendere la rampa, è come se le fosse appena stata strappata metà di sé stessa. Come può continuare a vivere, come può sopravvivere dopo qualcosa di simile?

Allunga una mano per trattenerla, ma Aurora è già fuori dalla sua portata. Non riesce a respirare e le lacrime le rendono difficile vedere. Tutto è ricoperto da una patina, come una lastra di vetro. "Non andare. Ti prego."

Anche il resto dei fantasmi sta cominciando a brillare. Aurora sta piangendo come lei, ma sta anche sorridendo. Un sorriso rivolto a lei, solo per lei.

"Ti amo come una figlia. Ti ho vista lottare contro il mondo e contro te stessa. Crescere nella donna coraggiosa e forte che sei sempre stata destinata a diventare. Un guerriero. Una guaritrice. Una madre. Sono così orgogliosa di te, Clarke. Così grata del tempo che abbiamo trascorso insieme. Ma ora quel tempo è finito e per entrambe è arrivato il momento di voltare pagina."

Tu sei stata la mia pace quando credevo di non meritarla, pensa.

"Aurora-"

La luce è più forte. Remotamente sente Raven urlare di chiudere il portellone. Registra l'ordine, come Bellamy si sia voltato verso di lei, ma non riesce a muoversi, a parlare. È totalmente estraniata.

La luce si è trasformata in fuoco, è come osservare le radiazioni espandersi dall'alto di una torre satellitare. Bianca, accecante, tagliente come una lama che satura i colori con contorni netti, definiti.

"Questo non è un addio," dice Aurora, il suo viso una stella che muore. "Nella speranza di rivederci."

Non distoglie lo sguardo. Sa che dovrebbe. Il mondo brucia di nuovo attorno a lei, trema sotto i suoi piedi. Questa volta, quando tutto è finito, lei collassa sul pavimento e sceglie di rimanere nel sogno ancora un poco. Qualcuno glielo impedisce.

"Cosa succede? Clarke?"

Lei si copre le orecchie, si piega su sé stessa, cercando di rendersi piccola, invisibile. Non vuole sentire. Non vuole vedere. Tutto ciò che vuole è rimanere in quella luce che ripulisce ogni peccato, che cancella ogni sofferenza.

"È andata," ripete, cullandosi. "Se ne è andata."

Minuti o ore più tardi, qualcuno la prende in braccio. Il suo cervello riconosce istintivamente il corpo premuto contro il suo. La voce che le sussurra all'orecchio, promettendole che andrà tutto bene, la fa piangere un po' di più. Le iniettano qualcosa nel collo.

L'oblio non è mai stato così dolce.

-

***

-

Attorno a lei le voci continuano a parlare, accavallandosi l'una all'altra.

"Di cosa diavolo sta parlando?"

"Amico delle anime. Keryonlukot. Può vedere gli spiriti dei guerrieri dopo che ci hanno lasciati.”

“Da quanto tempo va avanti? È sempre stata così?"

“Non lo si diventa. Dicono che è qualcosa con cui si nasce.”

"Frena. Frena. State davvero dicendo che Clarke è capace di vedere i fantasmi?"

"Non solo vederli. Parlare con loro, fare da tramite tra i vivi e i non-morti. Non ne avevo mai incontrato uno. L'ultimo di cui rimane traccia è stato ucciso dal Comandante Oscuro quando ero soltanto era una bambina."

"Ucciso? Perché?"

"Per lo stesso motivo per cui davano la caccia a Wanheda. È un potere terrificante poter vedere non solo gli alleati, ma anche i nemici caduti in battaglia, le persone che tu stesso hai contribuito a uccidere. È un peso che pochi riescono a sopportare senza impazzire. Ecco perché sono tanto preziosi ed ecco perché persone come lei diventano guaritori, mai guerrieri."

Le voci vanno e vengono. Il dolore resta, non si affievolisce. La sta mangiando viva.

-

***

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"Per tutto questo tempo ha mantenuto un segreto del genere. Perché non mi ha mai detto nulla?"

Può percepire la frustrazione che si irradia da lui, la rabbia sorda a malapena contenuta nella sua voce, il senso di impotenza, il tradimento.

"Le avresti creduto?" domanda Raven. "Ascolta, siamo tutti colpevoli qui."

"Non quanto me."

"Giusto," commenta Murphy, "perché il vostro rapporto è unico e speciale."

Come per Bellamy, non ha bisogno di vederli per immaginare le loro espressioni. Anche a occhi chiusi riesce a vedere la fronte accigliata di Raven, Murphy mentre rotea gli occhi. È doloroso sapere di conoscerli così bene per poi ricordarsi che non li conosce affatto. Non più. Li ha persi e la colpa è solo sua.

Le voci tornano ad essere sussurri.

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***

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"Chi altro? Wells?" Il tono di Bellamy è secco, burbero.

Clarke annuisce, non solleva la testa. Non si fida della sua voce in questo momento.

"Tuo padre?"

Annuisce di nuovo.

"Finn." Il fatto che sia più un'affermazione che una domanda e il modo in cui ha pronunciato il suo nome, come se stesse pregando che lei neghi e lo rassicuri del contrario, la convincono ad incrociare il suo sguardo.

Si rende subito conto di aver commesso un errore. Non perché ha un aspetto orribile, ombre violacee intorno agli occhi cupi e uno sguardo che potrebbe uccidere sul posto, ma perché per un attimo lei ha visto altri occhi, un altro viso. Prova una fitta al cuore.

"Solo un'eco," si costringe a rispondere.

Questa volta è lui ad annuire, a distogliere lo sguardo per primo. Bellamy storce la bocca in una smorfia. Gli dà un'espressione feroce che non vedeva da anni, da prima del Praimfaya.

"Lexa?"

"È nella Fiamma," risponde. Rimpianta. Perduta. "Finché quella cosa esiste, sarà intrappolata lì dentro."

Osserva il modo in cui i suoi occhi si sgranano leggermente, il momento in cui la comprensione li attraversa. Può leggere i suoi pensieri come se fossero i suoi. Ecco perché non voleva che Madi-

Bellamy deglutisce, poi continua a interrogarla. "Mount Weather. Li hai visti dopo che -"

Clarke stringe i pugni sopra le lenzuola. Non vuole pensarci. Non può pensarci. Suo padre. Un prato troppo piccolo e troppo vasto, tappezzato di fiori selvatici. Scaccia i ricordi come farebbe con insetti molesti.

"E Tondc," lo interrompe velocemente. "E-" ma qui tace, mordendosi la guancia in un rimorso di coscienza che non riguarda lei.

"Cosa?" la incalza lui. La conosce troppo bene per non capire cosa vuole evitare, cosa sta cercando di non dire. Così bene che riesce ad unire i puntini facilmente, mettendo in relazione causa ed effetto. Lo schianto è silenzioso, ma non meno orribile da osservare. "Il massacro," lui intuisce. Un muscolo guizza nella sua guancia, mostrando il primo segno di cedimento in una maschera altrimenti perfetta. "Anche loro?"

"E Lincoln."

Lui continua a osservarla come se la vedesse per la prima volta, come se fosse un'estranea che non conosce, qualcuno da rivalutare. Non dovrebbe ferirla così tanto eppure mentirebbe se affermasse che è immune al suo disprezzo, alla sua mancanza di fiducia. "Tutto questo prima del Praimfaya," dice, recidendo il silenzio di tomba con un colpo di forbici.

Clarke rimane immobile. Stesa sul letto dell'infermeria, il corpo ancora languido ed estenuato, la mente frastornata a causa degli effetti del tranquillante non del tutto smaltito, cerca di non pensare a loro, a tutte le persone che ha perso, che l'hanno lasciata. È difficile non farlo, soprattutto ripensando alle parole e ai gesti di conforto che loro le avrebbero riservato in momenti simili. I morti sono più compassionevoli dei vivi, la loro gentilezza è autentica, non ha secondi fini. Nei vivi c'è troppo orgoglio, troppa paura. I vivi pensano di avere tutto il tempo a loro disposizione. I morti sanno che il suo scorrere non è infinito, che è ingannevole. I vivi si ritengono infallibili, i morti riconoscono che tutti sono fallibili.

Bellamy fa un'altra orribile smorfia. Si strofina il volto. "Nel bunker. Hai visto qualcuno?"

"Non molti."

"Lascia che sia a giudicarlo. Quanti?"

"Bellamy," sussurra, ma non c'è pietà nei suoi occhi quando si piantano nei suoi. Sono ferite aperte, foschi e tormentati. "Quanti, Clarke," lui ripete a voce pericolosamente bassa, minacciosa.

"Più di un centinaio," ammette.

"Cristo Santo," lui sbotta, prima di ricomporsi. "La donna per cui stavi piangendo-"

"Non voglio parlarne," lei dice in fretta. Pensare ad Aurora non è come pensare a suo padre, a Wells o a Lexa. Loro li ha conosciuti e amati quando erano vivi, il tempo trascorso con loro dopo che sono morti è stato un surplus. Nonostante questo, perdere loro non è nemmeno paragonabile alla perdita di Aurora. Il lutto per lei è qualcosa che non supererà mai, le è entrato nel sangue come una tossina. Fa parte di lei.

Bellamy aggrotta la fronte, si piega in avanti. "Io-"

Lei non lo lascia finire. "No, non capisci. Non posso parlarne. Non vedi?" Spalanca le braccia. Vuole che lui veda, che capisca. Aurora l'avrebbe fatto. "Ovunque io vada, porto con me morte e distruzione. Ogni persona che amo muore. Sono maledetta. Il mio amore è una maledizione." Chiude gli occhi per nascondere la sua debolezza. Bruciano come succedeva durante le tempeste di sabbia. Vigliacca, pensa. Non le importa. "Voglio rimanere da sola." Non è una richiesta e non è neppure un ordine, ma qualcosa a metà strada.

Lo sente indugiare e non sa se urlare o piangere.

Cos'altro vuoi da me. Ti ho dato ogni cosa. Tutto ciò che sono. Tutto ciò che ho fatto. Ogni nome che volevi tranne uno. Non lei, pensa. Vuole che rimanga sua ancora per un po'. Solo così potrà cullarsi nell'illusione di non averla persa, che sia ancora con lei.

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***

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La verità le esplode in faccia e com'era prevedibile, conoscendo la sua fortuna, viene fuori nel peggior modo possibile.

Durante la fuga dalla valle qualcuno deve aver avuto il tempo di recuperare alcuni dei suoi oggetti personali. Non riesce a spiegarsi altrimenti il malconcio libro nero che Bellamy ha in mano e che le sta agitando davanti al viso. Quello che Aurora, per prenderla in giro, chiamava il suo diario di bordo.

"Questo disegno," lui glielo indica e Clarke fissa imbambolata la pagina su cui è aperto. Nel primo schizzo del foglio Madi ha appena pescato una trota e gliela sta mostrando con un sorriso di gioia trionfante. La sua figura colta nel movimento vibra di entusiasmo, esuberanza, vitalità. Nel secondo – il suo cuore perde un battito - c'è Aurora. Seduta su un masso, un alone di luce a brillarle attorno, guarda davanti a sé con un'espressione rilassata e stranamente disarmata. Ricorda distintamente quella giornata e nel ricordare, la nostalgia di quei giorni la sopraffà. Rari giorni di sole. Sembrava tutto più facile allora. Nell'incertezza del domani si diventa custodi ed estimatori di momenti come quelli, si impara a riconoscerne la fragile e dirompente bellezza e a coglierli prima che avvizziscano, a dare valore a ciò che è davvero importante.

"Come puoi averlo fatto?" domanda Bellamy. Non ha ancora realizzato l'entità delle sue omissioni. "Non l'hai mai conosciuta. È morta mentre eri nello Skybox, prima che ti spedissero sulla Terra. So per certo che non l'hai mai incontrata. Come-" Ha capito. "Era lei. È stata qui tutto il tempo?" La rabbia gli ha dilatato le pupille e c'è una vena sulla sua tempia che pulsa e assomiglia a una radice esposta. "E non hai mai ritenuto opportuno informarmi?"

Lo ha già visto arrabbiato in passato. Mai così.

È arrabbiato perché tiene a te, risente la voce pacata di Aurora. Gli passerà.

"Non me lo ha permesso," risponde. "Non voleva diventare l'ennesima responsabilità."

"Era mia madre! La mia famiglia!"

Clarke sussulta internamente. Crede che non lo sappia? Crede davvero che non sia uno dei suoi rimpianti?

Era anche parte della mia. L'ho amata anch'io, vorrebbe dirgli. Invece sospira, ogni traccia di lotta l'ha abbandonata. Merita la sua collera, ma - "Non puoi perdonarmi, vero?"

La domanda diretta deve averlo colto alla sprovvista. In fondo ai suoi occhi si agita qualcosa che, velocemente com'è apparso, si è già dileguato l'istante successivo.

Bellamy si sfrega la base del collo, ruminando sulle parole successive. La rabbia sta regredendo, ma è ancora lì. Può vederla nella rigidità delle sue spalle, nel suo respiro affannoso e nell'accuratezza con cui evita di guardarla, come se non sopportasse la sua vista.

"Ho sempre pensato che non ci fossero segreti tra di noi."

Oh, questo fa male. Sapeva che avrebbe fatto male, ma ora sta scoprendo un livello di dolore del tutto inedito.

Non si riferisce unicamente ad Aurora. Lei rappresenta solo la punta del problema. Sa leggere tra le righe le accuse che lui non pronuncerà mai, ma che sono talmente evidenti, che si riflettono nella circospezione con cui la tratta, nella prudenza che non ha mai avuto nei suoi confronti.

Perché non ti sei fidata di me? Questo sembrano dire i suoi occhi. Perché non ti sei confidata?

Da dove può iniziare per fargli capire? Cosa può raccontargli per rendere giustificabili le sue scelte, accettabili i suoi errori? E soprattutto, come può cercare di trasformare in parole quello che è stato il legame con sua madre quando neppure lei sa come spiegare quello che avevano costruito? Definire è limitare, significa cercare di circoscrivere un mondo infinito di colori, suoni e odori travasandolo nello spazio microscopico di una bottiglia.

Il silenzio si protrae. È un muro che si innalza tra di loro, costruito sulle incomprensioni, le menzogne, il distacco. Poi, quando crede che sia tutto finito, succede il miracolo.

Bellamy riprende il suo quaderno e lo sfoglia lentamente, con la certezza di chi sa cosa sta facendo, sa cosa sta cercando perché sa già dove trovarlo. È chiaro che lo abbia sfogliato in privato prima di confrontarsi con lei. Abbastanza a lungo da averne memorizzato il contenuto. Le sue dita lunghe e affusolate voltano le pagine con una gentilezza che smuove qualcosa dentro di lei. Il suo sguardo è diventato morbido e per contro addolcisce le sue fattezze spigolose e perennemente accigliate. Sta osservando i disegni con qualcosa di simile a rispetto e un'emozione sfuggente che lei non riconosce, ma che in chiunque altro non esiterebbe a chiamare ammirazione.

Lei non ci si sofferma. Non vuole rivedere quei disegni. Ognuno è la testimonianza di qualcosa che ha fatto, l'unica eredità che le rimane delle persone che ha perso, oltre ai ricordi e alle malinconie. Ogni pagina è piena di sussurri.

"Credo che questo sia il mio preferito," dice. Lei lo guarda di nuovo con la coda dell'occhio. Non può farne a meno. Quel viso che un tempo era costantemente arcigno, allungato per l'eccessiva magrezza, in cui traspariva un senso di irrequietezza e impertinenza. Che ora appartiene a un uomo che sta imparando a conoscere daccapo.   

Il disegno riempie due pagine. Si costringe a osservare i sorrisi pacifici dei genitori di Madi e degli abitanti del villaggio. Ha tentato di catturare meglio che ha potuto la luminosità radiosa che emettevano i loro corpi prima che si dissolvessero. In primo piano ci sono due donne. Sono ritratte di spalle, una accanto all’altra, così vicine da lambire i rispettivi confini. Clarke sfiora il profilo di Aurora con i polpastrelli. "Sì," risponde quietamente, "è anche il mio."

La mano di Bellamy si sovrappone alla sua e la stringe come se fosse l’ultimo disperato tentativo di trattenere il passato. Proprio come lei, non è disposto a rinunciare a quello che sono stati. "Per quel che vale,” lui parla piano, con lentezza e un po’ raucamente. “Mi dispiace non esserci stato quando avevi bisogno di me." Ma sono qui ora, sembra voler dire. Sono qui ora, se mi vuoi.

La sensazione è familiare. La ricorda un tempo in cui riusciva a farla felice, e vuole tornare a quel tempo. Dio, quanto ha amato quest'uomo. Amava il ragazzo che è stato. Amava perdonarlo.

"Non importa," dice. Non deve rimediare. Non deve scusarsi. Dopotutto non è mai stata sola. "Avevo lei."

L'abbraccio in cui Bellamy l'avvolge non ricorda la pietra né la foresta. Conserva il calore del sole, di panorami in continuo mutamento, di tutto ciò che è mutevole, vivo. Sembra riempire gli spazi vuoti dentro di lei, spazzare via anni di ragnatele e freddo. Il lutto smette di mangiarla viva e per un lungo, meraviglioso momento riesce a tenere insieme i pezzi di sé stessa. Aurora aveva ragione. Non è sola.

 

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Quando si sveglia dal sonno criogenico, batte le palpebre, intontita. Il mondo sono schegge di luce, le trafigge gli occhi, pulsa nelle orecchie insieme al ronzio forsennato del sangue.

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Segue il suono della voce e lo vede. Un ragazzo. Sta per chiedergli il nome, ma qualcosa la trattiene. Due figure emergono dalla penombra, si piantano alle spalle del ragazzo e in un momento di terrificante lucidità la sensazione di familiarità che la pervade acquisisce un senso. Visi rugosi, capelli striati di grigio e il bizzarro, meraviglioso splendore di una bioluminescenza che è simile a quelle delle lucciole.

Clarke sente che potrebbe piangere. Monty e Harper condividono un sorriso che parla di amore e di sacrificio, di scelte sofferte, di perdono nato dal pentimento. Le loro luci avvolgono il ragazzo amorevolmente nelle sembianze di un abbraccio. L'intuizione è istantanea e il dolore le toglie il fiato. Se gli anni e le esperienze passate le hanno insegnato qualcosa, però, è fingere. Gli rivolge tutte le domande opportune e non dedica più di uno sguardo in tralice a Monty e Harper, l'addio di Aurora ancora troppo vivido e recente per affrontare un’altra separazione.

Dopo che Jordan se ne è andato, cerca un appiglio nella capsula criogenica più vicina. Il suo respiro è sibilante e l'aumento della pressione intratoracica durante l'espirazione restringe i suoi polmoni come se mani invisibili li stessero afferrando e pressando come spugne. Il verso strozzato che emette non sembra umano.

Bellamy è una presenza immobile alle sue spalle. Rapido nel decidere, energico e sbrigativo nell'agire. Contrassegnato dal pregio operante e opportuno di un intuito acuto e sottile. Non ha bisogno di spiegazioni. Come sua madre ha fatto prima di lui in una miriade di circostanze simili, troppe da contare, le poggia una mano sulla spalla e l'altra sulla schiena, nello spazio tra le scapole, e comincia a massaggiare con lenti movimenti circolari. Il calore che si propaga da quel punto scalza l'insensibilità che si è impossessata del suo corpo, assorbe il torpore nella veglia del dolore, dell'ennesima perdita. Non sei sola, le sta dicendo. So cosa provi e non sei sola.

Praticamente sta vibrando per il nervosismo, per il desiderio di chiederle cosa ha visto, di sapere se ha visto qualcosa. Nonostante questo, non dice nulla. Perché dovrebbe? La morte è morte, lei ricorda improvvisamente, pensando a un altro ragazzo, la prima vita che abbia mai preso. (Erano insieme anche allora. Sembra successo eoni fa. In un certo senso lo è.)

Per la prima volta in vita sua ha un'anima viva e respirante con cui condividere l'onere di quell'asserzione.

E forse, forse, mentre piega la testa per sfregare la guancia contro la mano che lui le ha poggiato sulla spalla, questa volta il sapore che assaggia sulle labbra non è impotenza e il solito disperato senso di avvilimento.

È speranza.

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The days of our ghosthood were these:

When we were children, when we had no keys

We entered through closed doors, unseen went out again.

Our souls were the dissolved, ungathered, filtering rain.

Our bodies sat upon out parents knees.

In the second of our ghosthood

We went on foot among a moltitude,

In time of drought, in our hard youth, we winter-born.

And those were visible to men as flowers in corn

Whose souls were eyes unseen that gaze from dark.

We entered flesh and took our veil, our state.

The third days of our ghosthood wait.

When we are stripped by pain, by coming death far-seen,

Of earthly loves, of earth's fruit, that came so late to hand,

With that waking or falling into dream

We shall not cross into an unfamiliar land.

- E.J. Scovell, "The Ghosts"

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N/a:

Questa storia ha sorpreso me per prima mentre la scrivevo. Non mi succedeva da anni di essere assorbita a tal punto dalle mie stesse idee, tanto da decidere di lasciare la fantasia a briglie sciolte per la curiosità di vedere in quali lidi inesplorati mi avrebbe fatto approdare. Il personaggio di Aurora non era assolutamente previsto all'inizio e il tutto avrebbe dovuto essere molto più cupo, ma poi l'immagine della donna piantata alle spalle di Bellamy mi è conficcata nella mente e non è più andata via. L'ho lasciata parlare, ho lasciato che la storia mi guidasse in una direzione completamente differente da quella che io le avrei dato. Anche le ultime scene non erano previste nella stesura originale, ma sarebbe stato un finale amaro e dopo aver perso Aurora, non potevo non dare a Clarke alcun tipo di conforto, un assaggio di speranza.

Spero che la lettura abbia riempito il vostro tempo piacevolmente. In questo periodo di quarantena forzata, sto riscoprendo che il tempo è un animale che fa le bizze se lo trascuri. Devi curarlo, dargli da mangiare, fargli le coccole altrimenti ti si rivolta contro. Fortunatamente lavoro da casa al mattino e il pomeriggio, tra piattaforme come Netflix e Disney Plus, la collezione di libri ancora da leggere e perfino un po’ di ginnastica per eliminare la frustrazione nervosa, vola abbastanza velocemente. Sto riscoprendo il piacere dell’essere padrona del mio tempo, imparo a suddividerlo in attività produttive, ma anche ludiche come non ero mai davvero riuscita a fare prima d’oggi. Certo, essere separata dalla mia famiglia (io e i miei fratelli al nord, nel cuore della pandemia, e i miei genitori al sud) non è facile come non lo è per nessuno, ma almeno non sono sola nel mio confinamento ed è qualcosa di cui non smetterò mai di essere grata. Un abbraccio virtuale a tutti!

  
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