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Autore: Harriet    28/03/2020    1 recensioni
Sei rimasto solo fin troppo giovane, non sei riuscito a combinare nulla nella vita e ora sopravvivi a malapena, e tutti, intorno a te, non fanno altro che ricordarti quanto tu sia un fallimento.
Finché una notte dedichi un brindisi a un eroe caduto.
E la tua vita cambia.
[Taverne fumose, avventure di vigilanti e steampunk]
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Dietro le quinte della rivolta'
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Partecipa al COW-T X di Landedifandom, missione 3, prompt "Warning: Polyamory".
Quindi, sì, vi avviso: la storia contiene una relazione poliamorosa.
La storia fa parte di una serie, dove si narrano le vicende avventurose e sentimentali di questi personaggi.
Un grandissimo grazie a chi si fermerà a leggere, in particolar modo a Lillabulleryu, che sta supportando e custodendo queste storie.



Un brindisi all’eroe caduto
 
 «Non è il compleanno di tuo padre, oggi?»
            Deireth sollevò appena la testa dal tavolo che stava pulendo e rispose con un cenno della testa. Aveva una limitata capacità di sopportazione degli esseri umani e non poteva permettersi di sprecare le interazioni che richiedevano più energia – come emettere dei suoni, con gente come Vennis. Un cenno sarebbe bastato. Purtroppo dubitava che l’altro avrebbe smesso di parlare.
            «Era una brava persona, tuo padre. Offriva sempre da bere a tutti, quando era il suo compleanno. Per questo me lo ricordo. Tutti i clienti di questo posto se lo ricordano, anche se sono passati… Quanti anni? Una decina, eh?»
            «Secondo me, meno» si intromise Madall. «Quanti anni, Deireth?»
            «Dodici» rispose Esselna, piazzando due boccali sul bancone, davanti a Venniss e Madall. «Questi ve li offre la casa, in memoria di Damris. Era davvero un brav’uomo.»
            Deireth avrebbe dovuto dire qualcosa, a quel punto. Un ringraziamento alla donna dietro al bancone perché, come ogni anno, ricordava suo padre. Damris era sempre stato suo amico. Le faceva riparazioni gratuite delle luci e dei macchinari che la taverna possedeva. Lei ricambiava con alcol e storie. A quei tempi Esselna era la padrona della taverna e la vita di tutti era migliore. Poi Damris era morto ed Esselna aveva perso tutto, e uno stronzo si era comprato il suo negozio, relegandola al ruolo di dipendente e trattando di merda lei e tutti quelli che avevano la sfortuna di lavorarci.
            Esselna però tirava avanti e raramente si lamentava. Era una persona fin troppo gentile, per il mondo del cazzo in cui vivevano. Qualche volta, quando Deireth era molto piccolo e Damris doveva allontanarsi per un paio di giorni, per consegnare e montare la merce a qualche cliente, lo lasciava con Esselna, che lo trattava come un principino, lo riempiva di dolci e lo faceva giocare. Era stata lei, ad aiutare Deireth a capirci qualcosa di funerali e gestione dei beni di un defunto, alla morte di Damris. E sempre lei lo aveva raccolto in mezzo alla strada, un anno prima, proponendogli di parlare con il suo capo per farlo assumere.
            “Ti avverto: è una persona terribile, ma almeno sarebbe un lavoro.”
            Sì, una persona con un minimo di riconoscenza avrebbe dovuto dire qualcosa, a quella donna a cui doveva molto, quella donna che continuava a ricordare il suo vecchio amico tanti anni dopo la sua morte.
            «Forse sarebbe stato più contento se avessi offerto della birra» commentò, guardando il liquore alla liquirizia che i due avventori stavano bevendo in memoria di suo padre. Poi si fermò, prese fiato e scosse la testa. «Ma va bene lo stesso. Insomma, offri bevute in suo nome. Meglio di qualsiasi altra smielata commemorazione facciano le persone normali, no?»
            Vennis e Madall erano palesemente sconcertati ma Esselna gli sorrise. Perlomeno lei lo conosceva abbastanza da capire che ci stava provando, a essere civile e riconoscente.
            «Grazie, ragazzo. Dai, riposati un attimo e vieni a bere anche tu. Una birra.»
            «Se arriva Tandri e mi trova a bere, mi fa ingoiare anche il boccale.»
            «Non passa mai a quest’ora.»
            «Ma io sono molto fortunato.»
            Esselna non gli rispose e non insisté. Deireth continuò a pulire i tavoli, girando per la grande sala illuminata solo da lanterne rosseggianti e dalle braci nel caminetto d’angolo. Non c’era stata molta gente, fino ad allora, ma a breve il posto si sarebbe riempito, e allora sì che ci sarebbe stato da correre.
            «Quanti anni avevi, quando Damris è morto?»
            Ah, ecco. Proprio una cosa di cui aveva voglia di parlare.
            «Ehi, Deireth, dico a te» rincarò Madall.
            «Quattordici» mugugnò lui, senza voltarsi. Il tavolo dalla superficie graffiata e scolorita improvvisamente si era fatto interessantissimo.
            «Ei proprio giovane. E da solo, soprattutto. Dev’essere stata dura, eh?»
            «Tua madre che fine aveva fatto?» domandò l’unica altra cliente, una vecchietta che arrancava su una gamba meccanica e che trascorreva nella taverna gran parte delle sue serate, bevendo così tanto da far sospettare a Deireth che avesse anche uno stomaco meccanico.
            «Morta nell’epidemia di febbre della nebbia» rispose, imprimendo nel gesto della pulitura tutta la rabbia che avrebbe volentieri riversato addosso ai curiosi.
            «Avevi appena smesso di prendere latte» ricordò Vennis. «Tuo padre diceva sempre così.»
            Deireth non confermò quelle parole (che anche lui aveva sentito) e andò a mettere altra legna nel caminetto. Mentre sistemava i ciocchi in maniera da favorire lo sviluppo di fiamme moderate e costanti, la porta d’ingresso fu sbattuta e la stanza fu piena del passo pesante e della presenza invadente di Tandri Kasnega.
            «Allora, che si fa? Si lavora, qui? Deireth, che cazzo fai? Non la sai mettere, la legna, è inutile. Vai a fare qualcosa di più adatto. Ho controllato la latrina: puzza ancora di piscio da ieri sera. Che fai tutto il giorno, eh?»
            «Ho pulito prima» rispose lui, abbandonando la legna.
            «Hai pulito di merda. Vai a farci un altro giro.»
            Deireth non disse altro e obbedì all’ordine. Era l’unica cosa che potevi fare per sopravvivere, del resto. E comunque, aveva avuto ragione: se si fosse concesso la pausa e la birra proposta da Esselna, sarebbe stato beccato da Tandri, e non se la sarebbe cavata con un paio di frasi brusche davanti ai clienti.
            La latrina nel cortile dietro la taverna era pulita, naturalmente, ma Deireth la ripassò di nuovo, perché tanto non aveva nulla da fare, e se fosse rientrato troppo presto, Tandri gli avrebbe detto che di sicuro era un lavoro fatto male.
            Il suo capo aveva sempre una buona parola per tutti. Esselna era quella che se la cavava meglio, perché era anziana ed esperta, ma si prendeva delle risciacquate ingiustificate per nulla. Keldremi e Veyu, gli altri due camerieri, facevano a gara a chi collezionava gli insulti peggiori, e anche qualche ceffone ogni tanto. Deireth ovviamente era in fondo alla classifica, in quanto sguattero. Del resto, ormai aveva capito che quello era il modo in cui andava la vita. A un certo punto ti trovavi fermo da qualche parte, e muoversi da lì era difficilissimo. Se avevi avuto la sfiga di ritrovarti in un posto di merda, cazzi tuoi. Non aveva senso e non era giusto, ma di giusto non c’era mai stato niente, da nessuna parte. Forse gli era sembrato di sì, da bambino, ma più andava avanti, più lo sciocco idealismo di suo padre gli sembrava nient’altro che un’eredità dannosa della quale si sarebbe dovuto liberare.
            Finito di pulire, si lavò nella fontana gelida del cortile e poi rientrò, trovando la taverna abbastanza affollata, Keldremi che zigzagava tra i tavoli e Tandri che s’incazzava perché Deireth non c’era.
            «Eccoti qui! Forza, dai una mano a quell’altro deficiente. Servi quelli laggiù vicino alla porta: mi stanno sui coglioni, quindi gli mando il cameriere che fa più schifo.»
            Deireth si affrettò a obbedire, con Esselna rapida a mettergli in mano un vassoio pieno.
            Via via che la gente arrivava, Deireth non aveva più spazio in testa per pensare alle stronzate del suo capo o al compleanno di suo padre, e quello sarebbe stato un bene, se a un certo punto non fossero arrivati tre esseri umani che Deireth odiava anche più di Tandri.
            «Eccoci qui. Taverniere, butta qua un po’ di vino!» annunciò Larssi, vociando come un ossesso, seguito dai suoi due amici leccaculo, che gli stavano sempre appresso perché aveva fatto qualche soldo vendendo pessime stoffe (tinte con un sistema economico e altamente tossico per chi ci lavorava. Era una cosa risaputa, ma non sembrava importare granché a nessuno.)
            «Deireth, cazzo fai laggiù? Hai sentito? Vino a quei tre!»
            Esselna era già pronta con tre bicchieri e una brocca. Deireth prese il vassoio e volò al tavolo occupato dagli intollerabili.
            «Toh, guarda chi c’è!» lo salutò uno degli amici di Larssi, quello viscido e untuoso del quale il cervello di Deireth rifiutava di imparare il nome.
            «Sono sempre qui, non è strano trovarmici» rispose lui, posando sul tavolo il vassoio.
            «Quindi finalmente hai rinunciato a entrare in qualche altra organizzazione che tanto ti avrebbe buttato fuori, eh?» domandò Larssi, dando di gomito agli altri due e sollevando un tornado di risate. Proprio dei finissimi umoristi, sì.
            «Già» rispose Deireth, posando i bicchieri davanti ai tre commensali e versando un po’ di vino a ciascuno.
            «Dov’è che hai provato a entrare?» L’amico viscido senza nome buttò giù il vino tutto in un sorso e poi gli porse di nuovo il bicchiere. Neppure fosse stato il suo padrone. «Le guardie cittadine, la marina del governatore, l’equipaggio di Reg…»
            «Due o tre equipaggi, credo» disse Larssi. «E tutti l’hanno buttato fuori.»
            Erano quattro, gli equipaggi con i quali non era andata bene, e solo uno l’aveva buttato fuori. Dagli altri tre se n’era andato lui, prima di esplodere e fare qualche cazzata che gli sarebbe costata cara.
            «Forse è meglio che tu continui a lavorare qui!» disse Larssi e gli altri due risero.
            Provava un gusto particolare a stuzzicare Deireth da quando una volta Deireth gli aveva impedito di infastidire il povero Keldremi, che era giovane, troppo espansivo, ingenuo fino al midollo e molto carino. Pessima combinazione, in un posto come quello. Larssi non aveva più rotto i coglioni al ragazzo, ma l’aveva fatto scontare a Deireth. I suoi fallimenti nel portare a termine qualsiasi tipo di studio o di percorso lavorativo, in genere causati dal suo carattere di merda, erano cose risapute in giro. Soprattutto le reclute della guardia cittadina avevano raccontato ogni genere di aneddoto su di lui, quando se n’era andato. Era sempre così confortante, per la gente, avere qualcuno su cui gettare merda.
            Aveva appena finito con loro e stava per andarsene, quando il viscido gli posò una mano smagrita e pallida sul braccio, trattenendolo lì.
            «Potresti sempre riprovare l’altra carriera.»
            «Quale carriera?»
            «Dai, lo sanno tutti che hai provato a entrare negli Aedi. Non è così? Volevi fare il ribelle, eh?»
            Se qualcuno non lo avesse saputo fino ad allora, ora di certo quel segreto era diventato di pubblico dominio, visto che quell’emerita testa di cazzo parlava con un tono di voce da venditore ambulante in pieno mercato.
            «Ah, sì, è vero! Lo diceva il vecchio Lorim. Lui c’era, quando chiedesti al loro capo di prenderti a bordo, e lei ti disse di no.»
            Dei morti non si diceva male, secondo la saggezza popolare, ma Deireth credeva che fosse una stronzata, e il vecchio Lorim cacciava sempre il naso dappertutto, e per questo era stato involontariamente testimone della notte in cui Deireth aveva incontrato il capo del gruppo di vigilanti che da tempo rendeva Adraen un posto un po’ meno invivibile.
            Sì, era vero: aveva cercato di entrare nel gruppo, quattro anni prima. Aveva fatto una lunga ricerca per scoprire come contattarli e una notte gli era stato garantito un incontro con il loro capo, una donna chiamata Mydrano. Lei però gli aveva sbattuto la porta in faccia.
            “Mi dispiace. Ho fatto qualche ricerca. So che hai la tendenza a disobbedire e a fare di testa tua. Non mi posso permettere una persona così, nel mio gruppo. Magari ne riparlermo un giorno.”
            L’anno dopo ne avevano riparlato, ma la risposta non era cambiata.
            “Ti hanno appena buttato fuori dall’equipaggio di Reg. Se non sai obbedire e collaborare, non puoi essere dei nostri. Sarebbe troppo rischioso.”
            L’ennesima squadra della quale non era riuscito a fare parte.
            «Ora ci potresti riprovare» insisté il viscido. «Tanto quella lì è morta da un bel po’. Dicono che ci sia un capo nuovo. Hai mai pensato di chiedere a lui se ti vuole?»
            Deireth guardò l’uomo dritto negli occhi, finché lo costrinse a distogliere lo sguardo. Poi spostò la sua attenzione sugli altri due.
            Io vi conosco bene, avrebbe voluto dire. Lo so, chi siete, e perché mi dite queste cose.
            «Non sei contento che quella stronza sia morta?»
            «Già. Magari al nuovo capo piacciono, quelli un po’ incapaci come te.»
            «Magari gli serve uno per fare da esca, o che so io.»
            Altre risate, anche dal tavolo alla loro destra. Ormai mezza sala li stava ascoltando. I quattro seduti a sinistra erano molto interessati, però non ridevano.
            «Non ho mai cercato di entrare proprio da nessuna parte» mentì Deireth, tirando via il braccio dalla stretta del viscido e correndo lontano da quel tavolo. Quasi si scontrò con Keldremi e il suo vassoio carico di boccali. Si rifugiò al bancone, ma Esselna aveva ricevuto un altro ordine ed era impegnata a spillare birre. Poi arrivò Tandri, che gli rifilò una pacca sul braccio per nulla amichevole e particolarmente forte.
            «Che fai, ti fermi? Quelli al tavolo vicino alla finestra vogliono altra birra e patate al forno. Esselna ha già preparato tutto. Muoviti!»
            Prese l’ordine andò a servire il tavolo dei quattro interessati alle sue sfighe, ma abbastanza civili da non ridergli sul muso. Erano una strana compagnia: c’era un tipo androgino dagli occhi allungati truccati di bianco, con fiori tra i capelli neri. Poi c’era una donna con gli occhiali e un tatuaggio bizzarro sulla pelle nera del braccio. Una ragazza piena di lentiggini, che aveva ordinato il boccale più grosso di tutti. E infine un reietto del clan Sarran: era alto e grosso, con i muscoli sviluppati, come tutti i guerrieri Sarran, ma sulla guancia destra gli avevano fatto il tatuaggio che imponevano a chiunque volesse lasciare il clan. Proprio una genia di infami. Il tipo aveva lunghissimi capelli rossi e le tipiche treccine dei guerrieri del clan, solo che le portava a sinistra invece che a destra. Insomma, ci teneva proprio, a far vedere che i suoi ex-familiari gli stavano altamente sul cazzo.
            Li servì e loro lo ringraziarono. Erano sempre più strani. Tornò al suo lavoro, tra un insulto di Tandri e qualche altra risata che lo seguiva, ma in quel momento non gliene fregava niente. La cosa che più di tutto occupava i suoi pensieri era l’amaro in bocca per la risposta che non aveva potuto dare, relativa al vecchio capo degli Aedi.
            Non sei contento che quella stronza sia morta?
            E così un’altra ora passò, e poi, finalmente, Larssi e i suoi amici si levarono dalle palle. Poco dopo anche Tandri, dopo aver preso l’incasso fatto fino a quel punto e aver ripetuto a Esselna cosa fare, dopo la chiusura (come se non avesse lavorato lì da una vita), se ne andò pure lui. Più di metà degli avventori avevano lasciato la taverna e rimaneva solo tre tavoli. Quando anche Keldremi si fu tolto il grembiule ed ebbe salutato, Deireth ricominciò a respirare.
            «Ora te la puoi prendere, una birra. Te la meriti» gli disse Esselna, offrendogli il boccale.
            Deireth la ringraziò con un cenno della testa e accostò le labbra al bicchiere, ma poi si fermò. Sollevò lo sguardo sui presenti e li guardò tutti. Era sceso un silenzio strano. Forse fu quello, a spingerlo a parlare.
            «Voglio fare un brindisi. Un brindisi a Mydrano, il capo degli Aedi. È vero, non mi ha voluto prendere tra i suoi. E ha fatto bene. Avrei fatto solo casino. Magari sarei morto anch’io o avrei causato la morte di qualcun altro. È stato giusto, non far entrare nel gruppo un coglione come me. Era un buon capo, e ha aiutato questa città più che tutti i governatori che si sono susseguiti ad Adraen da quando sono nato. È una disgrazia, che sia morta, e se adesso gli Aedi hanno un nuovo capo, beh, spero che viva cent’anni e che continui a prendersi cura di questa città!»
            Poi, senza aspettare le reazioni dei suoi ascoltatori, buttò giù una grossa sorsata.
            Quando ebbe posato il boccale, si accorse che c’era ancora silenzio, che tutti lo guardavano ma che nessuno stava ridendo. Esselna faceva cenno di sì con la testa, con un’espressione grave. La stessa cosa accadeva in un altro tavolo. Un gruppetto di vecchi impegnati in un torneo di carte aveva sospeso la partita e c’era un brusio approvante, tra loro. Un paio accennarono perfino un applauso. Infine, i quattro tipi bizzarri vicino alla finestra sorridevano.
            Era la prima volta in dodici anni in cui Deireth aveva fatto un discorso pubblico senza che qualcuno ridesse.
            Finì la sua birra e poi si mise a sparecchiare e pulire i tavoli vuoti. Si era intristito da solo, con quel discorso, ma si sentiva anche stranamente bene.
            Uno dopo l’altro, gli avventori se ne andarono. Lui ed Esselna pulirono tutto alla perfezione e chiusero il locale.
            «Mi dispiace che ci siano persone spregevoli che ti dicono certe cose» gli disse la donna, con un sospiro. «Purtroppo non c’è molto da fare se non buttare giù e andare avanti.»
            «Lo so.»
            La salutò e cominciò a camminare rapidamente. L’inverno era vicino, era già nell’aria, e lui era vestito troppo leggero per quella stagione. Non che avesse altri vestiti.
            «Ehi.»
            Deireth fece uno schizzo e gli mancò il fiato. Poi realizzò che era solo lo strano tipo con i fiori nei capelli di prima, spuntato fuori dal buio. Dietro di lui c’erano gli altri tre, e la donna con gli occhiali reggeva una lanterna dentro la quale brillava un globo di luce verdastra.
            «Mi hai fatto prendere un colpo!»
            «Scusami. Ho una domanda da farti.»
            «Me la dovevi fare proprio ora? Non ci potevi pensare prima?»
            «Preferivo che fossimo solo io, te e i miei amici. Ma qui fa freddo. Vogliamo cercare un altro posto?»
            «No. Parla e basta.»
            «Come vuoi. Perché hai aspettato proprio quel momento, a fare il tuo brindisi a Mydrano? Perché non hai risposto a quelli che ti hanno chiesto se tu fossi felice della sua morte?»
            «Perché li conosco abbastanza da sapere perché hanno tirato in ballo il discorso. Sono spie della guardia cittadina. Li pagano per andare nei posti frequentati, parlare degli Aedi e segnarsi i simpatizzanti. Così poi la guardia ti fa una visitina a casa, ti spezza qualche osso e ti fa passare la voglia di simpatizzare. Oppure decide che sei un loro collaboratore e ti arresta.»
            «Sei davvero certo di questa cosa?»
            «Ho provato a entrare nella guardia cittadina. Ho imparato un po’ di cose su di loro. Non era il caso di esternare i miei sentimenti relativi a Mydrano davanti a loro, o davanti al mio capo.»
            «E dopo, invece?»
            «Ho abbastanza occhio per capire che tipo di persona ho davanti. Nessuno di voi mi avrebbe sputtanato per quello che ho detto.»
            «Ed è quello che pensi?»
            «Certo. Che cazzo. Già parlo poco. Mica spreco la voce per dire boiate.»
            Il tipo con i fiori nei capelli sorrise. Sorrisero tutti. Deireth avrebbe davvero voluto sapere chi erano. Gente strana, sì, ma non in una maniera disonesta. Non avrebbe saputo spiegare bene la sensazione che gli davano.
            «Mydrano lo avrebbe apprezzato, quel brindisi. Sapeva essere dura, ma riconosceva il valore delle persone. È un peccato che non abbia potuto conoscerti meglio.»
            «Tu che ne sai?»
            «Eravamo molto vicini.»
            «Tu sei… Voi siete…»
            «Se ti venisse offerta la possibilità di partecipare a un’azione degli Aedi, accetteresti?»
            «Me lo stai proponendo sul serio?»
            «Sì. Se riuscirai a stare alle regole e a fare solo quello che ti viene detto, collaborando con quelli a cui verrai affidato, potresti anche essere preso in considerazione come membro del gruppo. Sai, uno che riconosce a colpo d’occhio le possibili spie delle forze dell’ordine sarebbe davvero un buon acquisto, per dei vigilanti.»
            Deireth chiuse la bocca e studiò quel viso gentile e quello sguardo enigmatico.
            «Hai capito?» insisté il tipo. Lui annuì. «Bene. Una sola missione. Fai di testa tua, fai casino, e non sentirai mai più parlare di noi in tutta la tua vita. Dimostra che hai imparato qualcosa dal rifiuto di Mydrano, che sei capace di controllarti, e potresti davvero diventare un pezzo importante del gruppo.»
            «D’accordo.»
            L’altro gli tese la mano e Deireth la strinse. Era piccola ma energica. Le dita esili e candide si intrecciarono con quelle forti e scure di Deireth. L’accordo era stretto.
 
 
*
 
 
            Sulla tomba di suo padre c’erano i fiorellini bianchi che Esselna lasciava ogni anno. Deireth si chinò e vi posò sopra il mazzetto che aveva raccolto insieme a Enit. Lei era lì al suo fianco, con le sue lunghe trecce arancioni raccolte attorno alla testa e uno scialle bianco ricamato di nero: uno degli oggetti del lutto, secondo la tradizione religiosa della sua famiglia.
            Alle sue spalle c’era Ilran. Lei aveva posato sulla tomba una delle sue lanterne, prima di spostarsi. Non aveva mai conosciuto Damris, ma dai racconti di Deireth supponeva che sarebbero andati d’accordo. Probabile: la donna era un genio della meccanica e aveva un motore tatuato sul braccio destro. Sì, suo padre l’avrebbe adorata.
            Ayld si era seduto per terra, di lato alla tomba. Niente doni, per lui: un po’ imbarazzato, aveva spiegato che non sapeva bene cosa si faceva, in caso di lutto. I Sarran, quel clan di merda che lo aveva cresciuto, aveva un concetto molto rude di vita e morte. Niente lutto: era roba da femminucce. I Sarran erano ancora tra quelli che dividevano le cose in “da veri uomini” e “da femmine”. Deireth un po’ li compativa. Non c’era da stupirsi che Ayld avesse voluto lasciarli.
            Sentì un tocco leggero alla sua destra. Si voltò a guardare il viso di Yedra. Indossava una tenuta semplice, per i suoi standard di abbigliamento. Qualcosa che i Sarran avrebbero definito “da uomo”. Però aveva i suoi solito fiori tra i capelli. Fiorellini azzurri legati con nastri bianchi.
            Un tempo Deireth avrebbe forse riso, di una simile presentazione. La vita gli aveva fatto imparare che è meglio non ridere di nessuno, perché, non si sa mai, potresti sempre finire sulla strada insieme a quelli di cui ridevi.
            O dentro il loro letto.
            Yedra si volse verso di lui e gli sorrise, poi tornò a guardare la tomba. Ci aveva posato sopra una ghirlanda florale colorata. Una cosa proprio da Yedra.
            «Beh, non so bene che dire» borbottò Deireth.
            «Va bene anche senza parlare» disse Yedra.
            «Sì, però è un po’ da stronzi, dai. Insomma, vi ho trascinati tutti qui…»
            «Veramente ci siamo voluti venire noi» puntualizzò Ilran. «Tu insistevi per andare da solo.»
            «Non vi volevo far perdere tempo.»
            «Ma siamo contenti di esserci» disse Enit.
            «Non ci venivo da una vita. Non è che non…» Sbuffò. Perché tutto gli sembrava sempre troppo stupido per essere detto, fatto o pensato? «Magari era meglio venirci per l’anniversario della sua morte, invece che per il suo compleanno.»
            «A me la data del suo compleanno ricorda qualcosa di importante» disse Yedra.
            «Già» sussurrò Deireth.
            «In realtà la data precisa dell’ingresso di Deireth nel gruppo è il giorno dopo, visto che gli abbiamo fatto la proposta che era quasi l’alba» precisò Ilran. «Ma va bene lo stesso.»
            «Comunque, dai, sì, era il caso di venire» riprese Deireth, deciso ad arrivare in fondo. «Era una brava persona. Non mi ha mai fatto mancare niente. Con lui la vita era divertente. Lo so, è una cosa stupida, ma che cazzo, ero un bambino, ed è quello che ricordo meglio. Le cose non facevano così schifo, perché lui me le faceva vedere diversamente. Poi ha avuto la sfiga di servire un cliente con poco riguardo per la sicurezza ed è morto in un’esplosione mentre montava uno stupido macchinario per riscaldare e raffreddare le bevande. E… Sto deragliando, è un discorso agghiacciante, mi dispiace.»
            «Non lo è» disse Ilran.
            «Penso che gli sarebbe piaciuto, vedervi qui con me. Parlava sempre di quando gli avrei fatto conoscere la mia futura moglie. E io pensavo che non mi sarei mai sposato, ma avevo tipo otto anni. Però, insomma, presumo che gli sareste piaciuti. Cioè, non so bene come avrebbe reagito, se gli avessi detto: “Papà, questa è Enit. E Ilran. E Yedra. E questo è Ayld, che è un po’ un cazzone, ma è un bravo ragazzo. Stanno con me. Tutti e quattro. È una roba moderna, sai. Sono gente strana, ma mi piacciono, che ci vuoi fare”. D’accordo, dopo questa, penso che tacerò per davvero.»
            Yedra posò la testa contro il suo braccio. Dall’altra parte, Enit lo prese per mano.
            «Non sono un cazzone» borbottò Ayld. «Tuo padre mi sarebbe piaciuto, credo. Non lo so. Non sono molto esperto di padri normali. Immagino fosse una persona gentile.»
            Ilran, dietro di lui, gli posò una mano sulla spalla. Rimasero in quel modo, in silenzio, per un tempo troppo lungo, per i gusti di Deireth.
            «D’accordo, gente, cantiamo qualcosa, eh?» sbottò. Yedra non riuscì a nascondere una risatina delicata. Poi, per fortuna, iniziò a cantare e presto fu seguito da Enit, che gli faceva la seconda voce, costruendo con lui la melodia di una ballata che parlava di partenze e memorie felici. Ilran aggiunse il suo timbro profondo nel ritornello e persino Ayld si mise a canticchiare. Deireth si aggregò quando gli fu passato quell’annuvolamento dalle parti della gola, che gli rendeva difficile mantenere la voce integra. Cantarono tutta la ballata, concludendola insieme.
            Era stato molto bello, e una persona migliore di lui lo avrebbe esternato, insieme a un ringraziamento, ma per quel giorno le energie sociali di Deireth erano già finite. E poi, quei quattro erano svegli. Avevano sicuramente capito che quel momento gli aveva fatto piacere.
 
            Andarono a bere alla taverna di Esselna, perché Deireth la voleva salutare. Sapeva che ci avrebbe trovato Tandri, era un male inevitabile.
            «Deireth, che piacere vederti!» Esselna zoppicò verso di lui. Era sempre più anziana e meno in forma. Le aveva chiesto se avrebbe avuto piacere di trovarsi un altro impiego ma lei aveva detto di no, nonostante Deireth non capisse perché. «Ecco qui i tuoi amici. Benvenuti!»
            «Guardate un po’ chi si vede» abbaiò Tandri. «Non è vero che fai l’attore, adesso? Giusto il buffone potevi fare, tu.»
            «Faccio il tecnico di scena» rispose.
            E poi faccio il vigilante, perché la compagnia teatrale per cui lavoro di notte va in giro a rallegrare le vite dei disperati di Adraen. Lo pensò con gusto, anche se non avrebbe mai potuto esternarlo.
            «Ecco, ti hanno messo fuori dal palco, eh? Ci credo! Con quella faccia, avresti fatto scappare gli spettatori.»
            «Deireth è il miglior tecnico di scena che abbiamo avuto negli ultimi anni» commentò Yedra.
            «Figurati come dovevano essere gli altri! Comunque, tu, fiorellini-nei-capelli, si può sapere che cazzo sei? Uomo, donna…? Me lo chiedo tutte le volte che vieni qui.»
            «Sì.»
            « cosa?»
 
            Yedra sorrise e lo ignorò, andando ad accaparrarsi un tavolo.
            «Ma è cretino o stronzo?» domandò Tandri a Deireth.
            «Nessuno dei due. Non ha voglia di perdere tempo con te.»
            «Ora fai l’impertinente, eh? Se fossi stato ancora al mio servizio ti avrei rigirato la faccia con un ceffone.»
            «Vantatene pure, di trattare di merda i tuoi impiegati…»
            «Se sono idioti, non c’è altro modo di trattarli.»
            «Potrei demolire questa affermazione dal punto di vista sociale, relazionale ed economico» disse Ilran, guardando Tandri con compatimento al di sopra dei suoi occhialetti. «Ma neppure io ho voglia di perdere tempo con te.»
            Andò a sedersi accanto a Yedra, subito seguita da Enit, che regalò un gesto osceno a Tandri, senza farsi vedere da lui, ma premurandosi di mostrarlo al resto della taverna.
            Ayld, infine, prese Deireth per un braccio e lo trascinò verso il tavolo.
            «Nemmeno tu dovresti perdere tempo con lui.»
            Anche se spesso lui e Ayld erano in disaccordo, gli dovette ragione. Perché mai rimaneva lì a farsi insultare?
            Forse perché da un anno aveva cominciato a vivere senza nessuno che lo umiliasse costantemente, ed era una sensazione così straniante che aveva bisogno di rituffarsi nella merda passata, ogni tanto. Per accertarsi che la vita facesse ancora un po’ schifo. Per smettere di avere paura che il suo presente fosse troppo bello per essere vero.
            Mangiarono, brindarono e risero. Poi lasciarono quel posto, nella notte che cominciava a parlare di inverno. Faceva già molto freddo, ma camminavano tutti e cinque vicini e si proteggevano dal vento.
            Raggiunsero la casa che condividevano. Dormivano separati. Ilran era in stanza con Enit. Del resto, tutto era iniziato dalla loro relazione, e Deireth sapeva che c’erano dei legami più profondi anche nel loro gruppo teoricamente paritario. Yedra dormiva con Ayld. Gli aveva più volte proposto di unirsi a loro, ma Deireth preferiva di no. Non sapeva bene perché. Forse perché sapeva che c’era qualcosa di troppo infuocato, nel suo amore pere Yedra. Sì, si era abituato anche agli altri, il sesso con loro era soddisfacente e anche quella confidenza profonda che si era instaurata gli piaceva. Ma Yedra era diverso. Yedra era il leader che avrebbe seguito fino alla fine del mondo e del tempo. E Yedra era la persona che amava così tanto da fare male. A volte era dura, pensare di doverlo dividere con gli altri. E allora, meglio dormire da solo, meglio la sua casetta costruita sul tetto, dove tra l’altro non rischiava di dover discutere con Ayld o inciampare nelle cose lasciate in giro da Enit, o di beccarsi qualche noiosa precisazione da parte di Ilran.
            Stava salendo la scaletta che lo avrebbe portato su, quando sentì la piccola mano di Yedra posarsi sulla sua caviglia.
            «Resta, dai.»
            «Guarda che non ho bisogno di conforto» rispose, brusco.
            «Forse ne ho bisogno io.»
            «Vuoi che ti conforti perché hai un amante idiota come me?»
            «No. Perché ho un amante che non mi crede, quando parlo bene di lui.»
            Deireth si rimangiò una rispostaccia e scese.
            «Va bene. Resto.»
            Ilran si fermò a baciarli tutti sulle labbra, prima di sparire in camera. Enit impose il suo rito serale degli abbracci. Rimasti in tre, Yedra prese Deireth e Ayld per mano e li portò nella sua camera. Poco dopo erano sotto le coperte, Yedra in mezzo e gli altri due ciascuno con la faccia nascosta nel conforto dell’altro.
            Suo padre diceva spesso che l’importante era trovare un buon posto dove stare. Forse era il modo migliore per festeggiare il suo compleanno, avere la consapevolezza di esserci arrivato, in un buon posto. Strano, complicato e qualche volta esasperante, ma buono.
 




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