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Autore: D a k o t a    28/03/2020    11 recensioni
In cui Sam torna a casa da Stanford per le vacanze di Pasqua, ma ovviamente non vi torna per una gita di piacere - perché questo lui non lo farebbe mai.
"Quando lo vede, Sam sente qualcosa stringersi nello stomaco e non riesce a non impedirsi di alzare lo sguardo su Dean, che è sdraiato sul letto, e lo guarda, come se si aspettasse qualcosa da lui – un abbraccio? Una crisi di nervi?
Il maggiore lancia un’occhiata in tralice a suo fratello; non può fare a meno di pensare che ha i capelli un po’ più lunghi rispetto all’ultima volta in cui l’ha visto anche se beh, l’ultima volta in cui l’ha visto è l’ultima cosa a cui vorrebbe pensare. Avrebbe solo voluto alzarsi e chiedergli “Cosa ci fai qui ora che hai tutto quello che hai sempre desiderato?”.
[Sam&Dean - NO incest - Stanford!era - hurt/comfort]
[Scritta per la Easter Advent Calendar del gruppo Hurt/Comfort Italia - Fanfiction & Fanart]
Genere: Angst, Fluff, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Dean Winchester, Sam Winchester
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Easter Break

Non ha la benché minima idea del perché sia a Sioux Falls. In un anno e mezzo di università, Sam non è mai tornato a casa durante le vacanze di Pasqua. Mai: anche perché sinceramente, c’era mai stato un posto che aveva considerato casa, oltre che una squallida stanza in qualche squallido motel degli Stati Uniti, in cui suo padre aveva comunque chiarito di non volerlo vedere rientrare? No, ovviamente no.

Era stato Bobby a telefonarlo, due giorni prima della domenica delle palme. Ovviamente era stato Bobby a chiamarlo, perché papà non lo chiamava neanche prima e Deanoh, Dean probabilmente avrebbe preferito prendersi la lingua a morsi piuttosto che chiamarlo. In fondo, per quanto odi ammetterlo, è stato fin troppo semplice per Sam abituarsi e persino gustarsi quel silenzio, quella pace e la totale assenza di alcuna tragedia soprannaturale.

Fin troppo semplice. Quando il suo telefono era squillato e sullo schermo era comparso il nome di Bobby, aveva per un attimo trattenuto il fiato, fatto quelle facce sgomente che si fanno quando si ci aspetta una terribile notizia e premuto la cornetta verde. Di quella conversazione con l’anziano cacciatore aveva capito qualcosa sul fatto che, letteralmente, quel dannato idiota incosciente di suo fratello aveva avuto un infortunio grave a caccia, del fatto che fosse a casa sua e -

“Non ti dico di tornare a casa” gli aveva detto, quasi sentendo l’agitazione nella sua voce. “Ma se fossi in te, mi affretterei a venire qui, Sam”

Sam non gli aveva detto che aveva degli esami subito dopo Pasqua, non gli aveva detto che non aveva alcuna voglia di tornare a casa per Pasqua e nemmeno di vedere Dean, non gli aveva detto nemmeno che comunque sia gli si era gelato il sangue nelle vene non appena aveva visto quel nome sul display. Non gliel’aveva detto, ma non perché avesse dato poi grande prova di lungimiranza con un’altra risposta.

“Vedrò cosa posso fare” aveva risposto per odiare il modo in cui quelle parole gli fossero scivolate sulla lingua come un dannato automatismo o forse peggio: come sarebbero scivolate sulla lingua a papà.

L’ultimo dei Winchester aveva fatto in tempo a sentire l’anziano cacciatore dire qualcosa come “idiota”, prima di riattaccare. Aveva scosso la testa, ma non poteva dire di non esserselo meritato.

 

***

Quindi ecco perché è a Sioux Falls, davanti alla porta di Bobby, sperando che dopo quell’ultima risposta non lo prenda a calci non appena lo veda. Non per una gita di piacere: no, quello Sam non l’avrebbe mai fatto – ha degli impegni che ha preso con sé stesso, prima ancora che con suo padre e con suo fratello. Comunque, persino il campanello ai suoi occhi sembra volergli dare dell’idiota – chissà, forse lo sta facendo.

Ad aprirgli è Bobby, per poi interrogarlo con lo sguardo – è pur sempre un cacciatore, no? Non è davvero lui che sta scrutando così, è qualcosa che potrebbe esserci di altro rispetto a lui -; ma poi i lineamenti dell’uomo si ammorbidiscono e tornano alla sua normale espressione burbera.

“Entra, prima che uccida quell’idiota di tuo fratello” dice, storcendo la bocca in una smorfia che, nonostante le parole, tradisce un malcelato affetto ruvido che non riesce mai a nascondere, non quando si tratta di Dean.

Sam lo segue e se Bobby nota l’incertezza, la lieve ombra inquieta che gli sfiora gli occhi verdi, beh, ha la delicatezza di non farglielo notare o semplicemente di concentrarsi sulle sue priorità.

“Che cos’è successo, Bobby?” chiede.

La telefonata non era stata chiara: Bobby si era limitato a descrivere come quell’incosciente di suo fratello fosse andato da solo in una sorta di missione suicida e di come si fosse quasi fatto ammazzare nel mezzo di una caccia.

“Ha avuto la grandiosa idea di andare a cacciare un Chupacabra. Da solo”dice, avvicinandogli in maniera poco gentile un fogliettino con indicati una serie di antidolorifici e anticoagulanti e qualche strano termine specifico su un trauma con frattura branca ischio e ileo pubica sinistra o qualsiasi altra cosa significhi.

Sam non gli chiede se esistano davvero i Chupacabra perché onestamente significherebbe addentrarsi in argomenti che ha già deciso da tempo non gli interessano e non sono cosa sua. Non più, oramai. Si concentra sul fatto che l’idiota si sia ferito facendo qualcosa di stupido – un’idea geniale, Dean, sul serio – e che sia una fortuna che tutto quello che ne ha ricavato sia solo una stupida frattura al bacino.

“Dov’è adesso?” chiede, mentre Bobby tradisce un’espressione di stizza, come se gli stesse chiedendo qualcosa di incredibilmente ovvio.

“Nel suo dannato letto. Dove dovrebbe stare” risponde, e davvero, se non sapesse che è di Dean che sta parlando e se non avesse letto del fatto che gli è consentita la deambulazione stampellata solo fino al bagno per trenta giorni – trenta giorni! -, Sam penserebbe che è di un bambino capriccioso che parla.

Poco dopo, una pacca sulle spalle lo coglie alla sprovvista. I suoi occhi verdi guizzano sul cacciatore.

“Stai dormendo in piedi? Forza, muoviti, va’ da lui” lo esorta il cacciatore, con l’aria di chi ha un po’ più esperienza alle spalle e sa come una certezza inossidabile che ha dentro cosa nascondi.

Dean. Se solo si guarda indietro per un istante, Sam riesce ancora a recuperare l’ultima immagine che aveva di Dean e ad associarla ad una porta che sbatteva e all’espressione più distrutta che avesse mai visto sul volto del maggiore.

“Non sono sicuro che abbia esattamente voglia di vedermi” esala poi, in un solo respiro.

E c’è un’altra parte – quella di cui si vergogna – che vorrebbe aggiungere: non sono sicuro di avere esattamente voglia di vederlo nemmeno io.

“Non essere idiota. Non hai fatto tutti questi chilometri per fissare una stupida porta!” afferma poi, spingendolo verso la camera da letto in cui si era addormentato tante volte, quando erano bambini.

Per un attimo, Sam sembra esitare; l’uomo vede gli ingranaggi dietro i suoi occhi verdi lavorare. Sam si infila il foglietto nella tasca e scuote la testa, prima di avviarsi, perché non ha paura e, ironia della sorte, suo fratello mica poteva scappare, no? Cosa sarebbe poi potuto andare storto? E’ pur sempre Sam Winchester e non ha paura.

 

****

Quando lo vede, Sam sente qualcosa stringersi nello stomaco e non riesce a non impedirsi di alzare lo sguardo su Dean, che è sdraiato sul letto, e lo guarda, come se si aspettasse qualcosa da lui – un abbraccio? Una crisi di nervi?

Il maggiore lancia un’occhiata in tralice a suo fratello; non può fare a meno di pensare che ha i capelli un po’ più lunghi rispetto all’ultima volta in cui l’ha visto anche se beh, l’ultima volta in cui l’ha visto è l’ultima cosa a cui vorrebbe pensare. Avrebbe solo voluto alzarsi e chiedergli “Cosa ci fai qui ora che hai tutto quello che hai sempre desiderato?”.

“Sammy” lo chiama, con voce roca. “Cosa ti porta da queste parti? Sto morendo e non lo so ancora o hai deciso che nemmeno Stanford era abbastanza per te?”

Anche senza guardarlo negli occhi, Sam sa già che è lui quando lo chiama, perché nessuno ha quella voce, quell’inflessione; nella bocca di nessuno le sillabe del suo nome si piegano in quel modo. La voce di Dean tradisce qualcosa: forse è dolore o forse solo sorpresa, ma gli angoli della sua bocca si incurvano e lo scruta, come se fosse divertito dal suo evidentissimo stato di disagio e da chissà cos’altro che Sam non capisce. Avrebbe potuto almeno risparmiargli il sarcasmo.

“Bobby mi ha chiamato” risponde, stringendosi le spalle, come se dovesse giustificare il motivo della sua presenza. “Ha detto che non stai fermo un attimo e che non stai rispettando le indicazioni del medico”

Un piglio divertito sembra passare sul volto del maggiore perché davvero, quella era una pessima scusa, una a cui nemmeno Sam avrebbe mai potuto credere. Non era mica sua madre, dannazione.

“Hai visto come sto. Non sto morendo, questa volta” concede alla fine, con una smorfia di stizza. “Ora puoi tornare a casa”

C’è solo una linea di fastidio di troppo nel modo in cui pronuncia la parola “casa”, come se in realtà volesse dire “qualsiasi stupido posto tu consideri casa e che non è la tua famiglia”.

Qualcosa colpisce Sam: ha sempre pensato di essere stato lui quello ad aver tagliato i ponti con la sua famiglia, ma forse non è stato l’unico a farlo.

“Resto per un po’” risponde, come se non vi fosse altro da dire. Si gira e rigira la boccetta con le pasticche di Coumadin fra le mani, come se improvvisamente convincere suo fratello a ingoiare una sola pasticca sembri un’impresa più difficile di uccidere da solo un Chupacabra – beh, quella sì che sarebbe una pessima battuta da fare.

“No, Sam, dannazione! Non ti ho chiesto di restare e non resti. Non dopo tutte le volte in cui...” si ferma, e la parte più dolorosa gli resta sulle labbra, ma il suo peso sembra comunque incombere e sovrastare la stanza: non dopo tutte le volte in cui hai scelto di andartene.

E’ difficile per Dean avere Sam lì, in piedi davanti a lui, e non pensare ad un’altra scena, capelli più corti contro una strada adiacente ad una stazione e una serie di insulti volati per aria, e Sam gli manca – gli manca anche adesso che gli è davanti perché è l’immagine assurda e terribile del fatto che beh, da qualche parte si sono persi.

Se non stesse male, se non riuscisse a malapena a stare in piedi caricando tutto il peso sul lato destro del suo corpo – non c’è bisogno di usare le stampelle se può fare così, no? - , vorrebbe solo sbattere una porta e fare in modo che sia Sam a guardarlo di spalle mentre se ne va, per il solo gusto di dire “Grazie tante, Sammy, posso farlo anche io”.

“Smettila di comportarti come uno stupido idiota” risponde, con una scrollata di spalle. “Non me ne vado, almeno che non sia Bobby a chiedermelo”

(Tradotto, Dean lo sa, ciò vuol dire: è stato papà a chiedermi di andarmene, tu non hai fatto niente per impedirglielo e non puoi – non puoi, non puoi – chiedermi di andarmene anche da qui)

Sam si siede sul letto vuoto di fronte a quello di suo fratello - è incredibile come Bobby abbia pensato anche a questo, come quando erano bambini. Il letto accoglie il peso del suo corpo, si passa la mano che non tiene la boccetta con le pasticche sul volto e non sa se se sia stanchezza o vergogna quella che prova, se sia la tensione per tutte le prove, per come la sua vita sembra diventare come una libreria dell’Ikea da montare ogni volta che compare la sua famiglia.

“No, Sam! Dannazione!” esplode alla fine il maggiore, alzando la voce, mentre si gira con la testa e con il corpo verso di lui. “Questo non riguarda te, okay? Te ne sei andato e sai cosa? Va benissimo così. Dico sul serio: divertiti...Volevi un’altra cosa e non eravamo noi, non era la tua famiglia e... ”

Sam, davanti a lui, sobbalza.

“Dean...” inizia, ma gli occhi rimangono incollati alla boccetta. Non sa davvero cosa dire che non fomenti quella lite perché non può tornare indietro, non può e non vuole dare a Dean le risposte che vuole. La verità è che, anche adesso, ad esattamente 2851 chilometri, Stanford è ancora nella sua testa e nel suo cuore – ancora adesso è qualcosa da cui tornare.

“Dean nulla. Lasciami finire” ribadisce, zittendolo con un gesto del braccio. “Non sei mai stato qui, Sam, gli ultimi mesi sono stati un fottuto inferno e ho avuto incidenti molto più gravi di una cazzo di frattura al bacino, ok? Quindi ecco, se adesso sei qui perché Stanford ti ha deluso e vuoi fare finta che te ne freghi qualcosa, beh, mi dispiace, ma non mi interessa!”

La pressione del minore su quella boccetta aumenta. E’ che Sam – Dean lo può vedere - ancora ci crede a tutte quelle stronzate con cui si è fissato: crede ancora alla possibilità di una carriera e di un matrimonio normale, crede ancora ai valori umani, a una felicità sentita e a stupide feste per festeggiare piccoli traguardi.

“Dean, non ho mollato Stanford!” risponde alla fine, oltraggiato, appoggiando il Coumadin sul comodino per non correre il rischio di lanciarlo contro il muro. “Ad ogni modo, papà aveva già reso chiaro il fatto che non avrei trovato una porta aperta, se fossi tornato”

Non va così lontano come Dean avrebbe pensato, ma la battuta è molto più sottile e feroce di quello che il maggiore dei Winchester si sarebbe aspettato.

“Smettila con queste frecciatine di merda, Sammy” risponde e se la sua voce si incrina un po’ e tradisce qualcosa di altro rispetto al suo tono freddo è solo quando quel soprannome gli incrina le labbra.

Il più piccolo incrocia le braccia sul petto, in un moto di insormontabile e imprescindibile stizza, mentre il volto del maggiore sembra incastrarsi nel tempo, restare immobile, deformato dalla sorpresa e da qualcos’altro.

Io devo smetterla?” afferma, scattando in piedi e accorciando la distanza – ed adesso è grato di aver messo quella bottiglietta con le pasticche di Coumadin sul comodino perché sì, non vi è dubbio: sarebbero finite contro il muro. “Non hai fatto nient’altro che insultarmi da quando ho messo piede in questa stanza e dovrei stare zitto? Tale padre, tale figlio, no?”

Anche quella è un’allusione amara, forse persino gratuita, ma non ha colpe: lui voleva solo andare al college e neanche Dean ha alcun diritto di dire nulla a riguardo, non dopo tutto quello che è successo.

“Sì, è esattamente così, Sammy. Io posso, tu no. Fine. Dannazione, a Stanford non ti hanno insegnato a comprendere concetti così basilari, fratellino?” risponde, rimanendo seduto ma sporgendosi di più verso suo fratello, come se fosse logico, come se fosse basilare e normale come fare uno più uno – e va beh che la matematica non gli è mai piaciuta, ma è elementare.

Gli occhi di Sam si posano, enormi e increduli, su quelli di Dean che ha le labbra piegate in una linea dura.

“Che razza di ragionamento è? “Io posso e tu no”? Non ho più sei anni, Dean. Smettila di trattarmi come un ragazzino” risponde, avvicinandosi a sua volta, perché la tensione nella stanza sembra essere cresciuta a dismisura. “Dov’è la differenza?”

Se Dean avesse nove anni e un volto spruzzato di lentiggini, se non avesse una frattura al bacino, forse scatterebbe in piedi e risponderebbe con un canzonatorio “Perché sono il più grande”, carico di calcolata e studiata spensieratezza.

Ma anche se ha ancora il volto spruzzato di lentiggini, non ha più nove anni, spensierato forse non lo è mai stato, e ha comunque una frattura al bacino e -

“Dannazione, come fai a non capire?” risponde, buttando fuori tutto il rancore che ha in corpo e riducendo al minimo, per quanto possibile, la distanza con suo fratello. “La differenza è che io non vi avrei mai lasciato! Mai!”

Si guardano così per qualche secondo, senza dire nulla. Sam, quando distoglie i suoi occhi verdi da suo fratello, ha un’espressione fra il sorpreso e lo spaventato; sente nello stomaco la rabbia, cieca e confusa, che si può trasformare in lacrime represse da un momento all’altro. E’ una delle poche volte in cui ha visto Dean con un’espressione così ferita e incazzata allo stesso tempo. Non è che il minore non abbia nulla da ribattere, è che a volte la vanità di tutte le sue azioni lo colpisce come un pugno in pieno stomaco e lo lascia boccheggiante e senza fiato.

Il maggiore è il primo a distogliere lo sguardo. Non sa neanche lui perché ha reagito così. Ha l’istinto fortissimo di tirare un pugno contro il comodino su cui suo fratello ha appoggiato qualche stupida medicina, ma si trattiene e finisce per tirarlo contro la spalliera del letto, maledicendosi poi per il dolore che ne consegue, per la fitta che partendo dalla mano sembra percorrergli nuovamente tutta la spina dorsale fino al bacino.

Le parole che ha appena pronunciato sembrano così vere ed emotive da fare paura anche a lui. Non avrebbe mai abbandonato Sammy, gli ha sempre voluto troppo bene nonostante le incomprensioni e i continui litigi, e il fatto che Sam se ne fosse andato non riservando nemmeno una parola di più per lui di quelle che aveva riservato a papà era stata prova chiara che del fatto che questo sentire non fosse corrisposto. Sam lo considera alla stregua di un soldatino, e questo fa più male di essere sbattuti contro un muro da un Chupacabra. Fa più male di un pugno contro una spalliera.

E’ Dean che rialza gli occhi verso suo fratello, con un’espressione interrogativa sul volto, quando di fronte a quel silenzio che si espande fra di loro come una melassa, Sam gli porge una mezza pasticca di Coumadin e riempe un bicchiere con la sua bottiglia d’acqua, sul comodino.

“Smetti di essere così testardo e prendila” lo rimprovera, ma con tono più soffice – perché improvvisamente, crede di aver capito. “E’ un anticoagulante. Serve a rendere più fluido il sangue e...”

Suo fratello afferra bicchiere e pasticca senza ascoltare quella spiegazione, perché è pragmatico e non crede come lui nei se, negli amori immaginati e nelle infinite possibilità che l’universo offre a chi le sa cogliere. Crede nelle cose concrete: nella caccia, negli attrezzi che gli permettono ogni volta di mettere a posto l’Impala, nelle cose vere.

Esita solo un attimo.

“Se la prendo, te ne andrai?” gli chiede, alzando un sopracciglio.

Sam esala un lieve verso d’assenso. Cerca di essere a sua volta pragmatico e di concentrarsi solo sul Coumadin fra le mani di Dean. La protesta che non ha pronta è cancellata dall’espressione compiaciuta di suo fratello nell’ingoiare quella pasticca e bere subito dopo un bicchiere d’acqua.

“Lo capisco, Dean” mormora, alla fine – nessuno sembra aver più la forza di urlare lì. “Sei spaventato perché non hai totale controllo del tuo corpo e non sei abituato a qualcuno che si prenda cura di te. Ma io...”

Dean scuote il capo, facendo un gesto di stizza. Non è pronto a sentire promesse sciroccate e stupide che suo fratello non rispetterà.

Lo detesta a volte – sempre più spesso – per quella battaglia che si ostina a portare avanti contro di lui e contro papà, per il suo voler ridere di quella vita che si diverte a prenderli a calci negli stinchi e per il suo voler vedere il buono e la normalità in ogni cosa. Solo che a volte il buono non esiste e resta solo tanta merda da cui provare a scappare.

“Avevi detto che te ne saresti andato, se avessi preso quella stupida pasticca” dice, forzandosi di guardare qualcosa che non siano quegli occhi da cucciolo che tira fuori ogni tanto e che beh, quando era un bambino avevano persino una certa presa su di lui.

“Hai ragione” risponde, allontanandosi e portando via il bicchiere e la bottiglietta con le altre pasticche. “Vado in sala. Cerca di riposare”

Dean non fa in tempo a gridargli contro un insulto che è già oltre la porta, ma giura di aver riconosciuto uno dei suoi mezzi sorrisi da primo della classe prima che sparisse.

 

(Non è che si allontana poi tanto, in realtà, ma una parte di lui ha bisogno di mettere quanti più chilometri possibili fra casa di Bobby e sé stesso, almeno per un’oretta. Bobby non aveva potuto fare a meno di fermarlo sull’uscio di casa, posandogli con fermezza una mano sulla spalla e attendendo fino a quando gli occhi nervosi di Sam si erano fermati sui suoi per affermare:

“Non essere idiota. Dannazione, non vuole davvero che tu te ne vada!”

Aveva rassicurato Bobby sulle sue intenzioni e aveva chiarito di voler semplicemente prendere una boccata d’aria. Come finisca poi per trovarsi nel locale preferito di Dean nella zona – quello in cui si erano presi qualche sbronza da adolescenti – non se lo sa spiegare nemmeno lui.)

 

***

“Certe cose cambiano” afferma Dean e ha gli occhi fissi su di lui e sui suoi capelli leggermente più lunghi, prima di aprire il sacchetto ancora tiepido che Sam gli ha portato. “Ma questi hamburger sono ancora uno schianto”

E’ ancora seduto sul letto, a casa di Bobby, ed un sorriso spontaneo e compiaciuto gli incurva le labbra. Se ne vergogna, ma c’è una parte di lui che vorrebbe credere che nel modo in cui Sam lo guarda vi sia altro oltre al voler mettere a posto la sua coscienza, che non li lascerà, di nuovo, con un palmo di illusioni e di speranze frantumate.

“Sì, beh, sono i tuoi preferiti” risponde Sam, sedendosi nel letto di fronte a lui.

Lo osserva mentre mangia ed è assurdo e straniante il modo in cui la più grande conversazione che riescano a intavolare riguardi gli hamburger di uno strano pub che frequentavano da ragazzini. E’ strano stare lì e non parlare di quello che è successo, è strano semplicemente stare lì senza Bobby a riempire i loro vuoti e a colmare le loro distanze.

“Dunque, fratellino, quando hai intenzione di sputare il rospo?” gli chiede alla fine Dean, alzando gli occhi al cielo e riducendo il sacchetto ad una pallina di carta in un riflesso nervoso.

C’è solo una punta di irritazione nel tono di suo fratello.

“Dean, per quanto riguarda Stanford...” inizia, ma sa già che non potrà dare a suo fratello quello che vuole, che spiegargli come ogni scelta che ha fatto l’ha portato più lontano da lui, più lontano da quello che Sam Winchester era stato cresciuto per essere, non basterebbe mai, non basterebbe e -

“Oh, per favore, Sammy, non mi interessa sapere cosa combini in qualche noiosa confraternita!” risponde, inarcando un sopracciglio, con chiara irritazione. “Voglio sapere perché sei qui”

La furia che lo animava quella mattina sembra essere totalmente scomparsa e Sam si dice che dovrebbe saper interpretare quell’improvvisa calma, quell’improvviso gelo: non è passato così tanto tempo, no? La posa delle sue spalle sembra rilassata, ma Sam può scorgere la tensione che gli irrigidisce i muscoli e come faccia attenzione a non offrirgli neanche un millimetro di spazio in cui insidiarsi.

“Te l’ho già detto. Bobby mi ha chiamato prima dell’inizio della pausa primaverile e mi ha detto che avevi avuto un incidente e sono venuto. E’ così difficile da credere?”

Per un attimo, un’espressione sorpresa attraversa il volto del maggiore, ma rapidamente come è comparsa quell’espressione scompare e Sam si trova nuovamente fronteggiare un Dean che non è mai stato così distante.

“Pausa primaverile, umh? Oh, quasi dimenticavo il fatto che consideri la famiglia una vacanza” ribatte, con un movimento delle spalle che è solo apparentemente lieve.

E’ il tono con cui lo dice, è l’espressione che Dean non ha sul volto, è il leggero gemito di dolore che si lascia sfuggire nello sdraiarsi, nel suo voltarsi per mettere fine alla conversazione, che gli spezza il cuore e le parole che ha da dire – tutti i discorsi e le possibili repliche che si è preparato – gli rimangono incastrate in gola.

“Sai cosa ti dico? Non mi giustificherò con te per essere andato al college, Dean” esclama alla fine, alzandosi e obbligando suo fratello a guardarlo. “Non lo farò, perché non ho nulla di cui giustificarmi. Continua pure ad urlarmi contro quanto vuoi, ma non me ne andrò finché non riesci a rimetterti sulle tue gambe. Non ti sbarazzerai così facilmente di me”

Dean lo scruta in silenzio, come a sondare il peso delle sue parole. Per un attimo, Sam crede davvero di averlo ammansito, di non avere più davanti un muro di gomma, ma -

“Oh, davvero? A patto che io ci riesca prima che la tua pausa pasquale da Stanford finisca, intendi”

O forse no.

 

***

Il terzo giorno lo scorge seduto ad un tavolo, assorto dentro al Codice Civile della California. Lo vede con un’espressione concentrata e sembra a suo agio, sembra contento e Dean non ne dubita perché è Sam – e Sam ha sempre avuto hobby da secchione, sempre – e finge di non sentire la morsa che gli stringe lo stomaco. L’idea di tradimento che gli stringe lo stomaco.

Il minore alza gli occhi solo un istante di troppo dal libro e -

“Dean? Cosa ci fai in piedi?” dice, lasciando cadere l’evidenziatore sul libro. “E perché non stai usando le stampelle?”

Il maggiore gli risponde con un’espressione di studiata noncuranza.

“Ero solo curioso di vedere con cosa ci avevi rimpiazzato” risponde, con una scrollata di spalle. “A proposito, toglimi una curiosità: è più facile memorizzare gli statuti ricordando ogni volta in cui li abbiamo infranti insieme?”

Sam sbuffa, scuote la testa e cerca di non soffermarsi sull’amarezza della sua voce, quando gli si avvicina e lo aiuta a risalire le scale, permettendogli di appoggiarsi a lui e di smettere di fare leva sul lato destro del suo corpo. E’ solo quando il minore allunga un braccio per aiutarlo, che Dean realizza quanto avesse bisogno di quel contatto.

“Non guardarmi così” borbotta fra sé e sé Dean, quando arrivano e Sam lo lascia andare sul suo letto. “Sembrava che vi fossero molti meno scalini, scendendo”

Sam si volta verso di lui, con un sopracciglio inarcato.

“Sembrano sempre meno scalini, scendendo” risponde, come se stesse chiarendo un qualcosa di ovvio. Trae un respiro che sembra allargargli l’intera cassa toracica, prima di continuare. “Se esci di nuovo da qui, giuro che mi faccio dare le chiavi della stanza da Bobby per chiuderti dentro”

Le labbra di Dean si sollevano in un sogghigno più sagace, uno di quelli che a Sam ricorda l’espressione con cui gli raccontava delle ragazze con cui era uscito e che aveva sedotto. Lo ricorda, ma è diverso, più morbido, più vulnerabile. Ed è un sollievo per Sam perché non è che abbiano poi avuto vere e proprie conversazioni nei giorni precedenti.

“Cosa c’è di tanto divertente? ” chiede il minore, con aria stizzita.

Sam lo osserva in piedi con sguardo critico e a Dean viene automatico scuotere la testa.

“Oh, nulla. E’ solo che in certe cose sei uguale a lui, Sammy” afferma, prima di potersi fermare a pensare a cosa lo spinga a cercare una sua reazione.

Sam alza un sopracciglio e lo guarda ancora più perplesso.

“A Bobby?” gli domanda, incerto.

Per un attimo Dean sembra esitare; Sam vede gli ingranaggi lavorare al di là dei suoi occhi chiari. Poi prende la mezza pasticca di Coumadin che suo fratello ha tagliato e preparato sul suo comodino, si porta un bicchiere d’acqua alla bocca e ne beve un sorso, prima che Sam scuota di nuovo il capo, stizzito. Non lo ferma dal rispondere.

“A papà” afferma, mentre Sam maledice la malagrazia con cui suo fratello ha tirato fuori quell’argomento.

 

***

La routine è questa.

Ogni mattina si svegliano e Sam è tutto premure e imbarazzo. Ogni pomeriggio gli ricorda di prendersi il Coumadin - Sammy, cosa succede se prendo una pasticca intera?” “Rischi un’emorragia interna, idiota” “Ah”. Ogni ora litigano perché Stanford -

Ogni minuto Sam tenta di convincerlo che è solo andato al college e che dovrebbe essere orgoglioso di lui. Ogni secondo Dean riesce a pensare solo a come sarà vederlo chiudere una porta per l’ennesima volta, quando quella convalescenza finirà. Di tanto in tanto Bobby li sente urlare e ha un po’ voglia di cacciarli di casa tutti e due, ma poi ricorda quella strana sensazione di vuoto che provava ogni volta che John era venuto a riprenderseli, quando erano bambini.

 

***

La sesta notte lo sveglia.

“Sammy?” lo chiama per una seconda volta, e non vorrebbe perché ha rifiutato quei maledetti cosi che gli sono stati prescritti per giorni, dicendo che non stava così male ma -

Il minore alza appena la testa dal cuscino e si sporge ad accendere l’abat-jour.

“Dean?” risponde, mettendosi a sedere sul letto. “Va tutto bene?”

Il ragazzo accanto a lui vorrebbe ghignare e sminuire la cosa, è chiaro che vorrebbe farlo, ma non ci riesce e quel ghigno assomiglia più a una smorfia di dolore. La prima cosa che avrebbe fatto con Sam, non appena fosse stato meglio sarebbe stata uccidere un Chupacabr- ah no. Una consapevolezza lo colpisce, dolorosa: Sam non ci sarà quando starà meglio.

“Una favola” mormora fra i denti, invece.

C’è sempre una sfida dietro le sue parole, forse vorrebbe anticipare un litigio. Ma è troppo esausto per andare fino in fondo.

“Certo, come no. Preparo la morfina” dice, aprendo il comodino ed estraendo una scatolina con le pasticche effervescenti.

Il maggiore non ribatte: non ne ha la forza e forse, se gli permette di prendersi cura di lui, Sam potrà tornare a Stanford con l’illusione di essere un ottimo fratello, grazie tante. Chiude gli occhi, mentre il più piccolo si alza in piedi e versa l’acqua in un bicchiere, per poi immergervi la pasticca effervescente e attendere che si sciolga.

“E’ questo che succede quando un medico ti dice di stare fermo e decidi di passeggiare per la casa” lo rimprovera.

E’ più forte di lui, si dice Dean: suo fratello deve essere irritante e saccente, anche quando sta male.

“Grazie, Sammy. Adesso sì che mi sento meglio” risponde, con sarcasmo.

Ha ancora gli occhi chiusi e non può vederlo, mentre alza gli occhi al cielo. Nel frattempo la pasticca nel bicchiere si è quasi completamente sciolta. Decide di passarglielo e Dean trangugia velocemente il suo contenuto, prima di rimetterlo sul comodino. Sam si allontana verso il suo letto non appena si è assicurato che suo fratello abbia preso l’antidolorifico. Non si aspetta certo che Dean -

“Sam?” lo chiama, con uno sbuffo.

Dean sa già che si pentirà di quello che sto facendo, quando Sam gli rivolge un’occhiata speranzosa. Ma potrà darne la colpa alla morfina, domani.

“Posso sedermi?” chiede il minore, indicando lo spazio vuoto sul suo letto da cui è scappato solo pochi istanti prima per riprendere le distanze.

Dean allarga leggermente le braccia un gesto che è tutto un: e c’è da chiedere? La sola idea che Sam sia intimidito da lui lo fa sorridere.

“Non mi hai mai chiamato, Dean” afferma poi il minore. “Non hai il diritto di essere arrabbiato con me perché non mi hai dato l’occasione di esserci per te”

Dean chiude gli occhi, abbassando il capo in un gesto di assenso. Improvvisamente spera che gli antidolorifici facciano presto il loro lavoro. Per giorni, ha pensato che sarebbe stato meglio aspettarlo in eterno, piuttosto che vederlo andare via di nuovo.

“Avevi reso ben chiaro cosa volevi e dove volevi essere” risponde, con una punta di eccessiva sconfitta a tradire la morbidezza della sua voce. “Non c’era altro da aggiungere, Sammy. Una mia chiamata non rientrava fra le cose che avresti voluto”

Sam scuote il capo.

“Non è ver...” cerca di ribattere.

“Sam, dannazione, non c’è alcun bisogno di mentire!”

C’è sola una punta di resa nel modo in cui apre di scatto gli occhi chiari, guardandolo per un attimo, prima di distogliere lo sguardo e fissare il vuoto davanti a sé, con una scrollata di spalle.

“Di cosa avremmo potuto parlare? “Ehy, Sammy, com’è andato l’esame di Diritto?Io tutto a posto, ho appena ucciso un Wendigo”?” rincara la dose e si lascia andare ad una risata amara, che permette al minore di sentire un po’ di quella stanchezza che gli permea le ossa, prima di tornare serio. “Non era nemmeno fra le cose di cui avresti avuto bisogno”

Sam non riesce a trattenere uno sbuffo sardonico.

“Dean, nulla di quello che è accaduto prima che me ne andassi è qualcosa di cui avrei avuto bisogno”afferma.

Sa benissimo di star rischiando, perché parlare con Dean di quello è l’ultima cosa che potrebbe mai desiderare. Non perché abbia paura, ma perché Dean era sempre stato attratto da tutto quelle cose che forse andandosene aveva dimostrato di non essere. Si trova a benedire mentalmente la morfina che sembra assopire un po’ i suoi sensi, la sua rabbia e il suo rancore.

“Papà non voleva che te ne andassi. Non davvero” dice ai muscoli serrati della mascella di suo fratello. “Beh sì, era incazzato, era furioso e aveva bisogno di spazio, ma non che te ne andassi”

Spera che Sam capisca la differenza, ma il minore esala una risata sarcastica, alza le spalle e le fa ricadere, sconfitto.

“Non posso credere che tu lo stia ancora difendendo, ancora” risponde semplicemente.

“Te ne stavi andando, Sammy. Erano mesi che te ne stavi andando” ringhia allora, ed è come un colpo di fucile nel silenzio della notte – squarcia la stanza nello stesso modo. “Dannazione, te ne eri già andato molto prima di uscire da quella porta! Lo sai

Sam quasi sobbalza di consapevolezza, perché vi sono cose che si possono negare, ma non quella.

 

***

Il settimo giorno è Pasqua. Ovviamente il settimo giorno è Pasqua.

“E’ Pasqua” dice Sam, guardando il soffitto.

Sente il materasso sotto suo fratello muoversi sotto di lui, mentre si solleva leggermente, poggiando il peso sul gomito, lanciandogli un’occhiata ironica, carica di domande.

“Il coniglietto pasquale non ti ha lasciato le uova, quest’anno? Mi dispiace, era, umh... indisposto” osserva, con una risata leggera a scuoterlo.

“Non ho sei anni. Ma la Pasqua va passata con la famiglia”dice, puntandogli un dito contro, per poi avvicinargli le stampelle per andare in sala.

Ovvio, avrebbe dovuto saperlo. Chi altri se non Sam, che da bambino piantava un capriccio ogni volta che papà non tornava a casa, avrebbe potuto dire una cosa del genere?

“Perché non torni a Stanford, allora?” ribatte ma mentre si mette a sedere con qualche lieve smorfia di dolore, il suo tono risulta meno affilato di quello che vorrebbe essere.

“Tu non vuoi davvero che io torni a Stanford oggi” risponde con l’aria di un sapientino antipatico, mentre gli passa un braccio intorno alla vita, aiutandolo ad alzarsi.

 

(E’ strano e alienante stare seduto nella cucina con Bobby e con Dean e sentirli parlare non solo della caccia ma anche di suo padre, di quella volta in cui da bambini Dean aveva quasi fatto esplodere il microonde con tutto il suo soggiorno per preparare dei biscotti per il terzo compleanno del suo fratellino – “Oh, Bobby, andiamo, smettila di rinfacciarmelo, sono passati anni!” - ; sentirli battibeccare e ridere come la famiglia – padre, madre e due bambini biondissimi – che Sam ha incrociato sull’autobus a Stanford. E’ strano ed alienante sentirsi montare sulle labbra un sorriso che non riesce a trattenere e, nel petto, il desiderio di sentirli e vederli ancora e il terrore, il terrore di lasciarsi trascinare in qualcosa per cui non era pronto.)

 

***

Il sedicesimo giorno è quello in cui dovrebbe rientrare a Stanford. Alle diciassette, puntuale come sempre, gli passa il suo Coumadin, e le cose cominciano a finire – perché non si può evitare quell’argomento per sempre, no?

“Non dovevi rientrare finalmente a Stanford oggi, Sammy?” gli chiede.

La menzogna di quel “finalmente”, di quel dover fare, appena possibile, un salto di nascosto a Stanford, di quel non avere, certe mattine, neanche più un motivo per farlo gli pizzica sulla lingua come un peperoncino troppo forte. Sam inarca un sopracciglio, prima di passargli un bicchiere d’acqua.

“Non capisco, Dean. Non vedi l’ora che me ne vada, adesso? ”chiede

Dean prende un sorso d’acqua, prima di stirare un sorriso e alzare le spalle.

“Ma per favore, Sam. Non sarò io a tenerti lontano dalle cose che vuoi davvero” risponde, senza più preoccuparsi di nascondere l’amarezza.

Sam sa che ha ragione. Aveva iniziato a studiare più duramente per quella borsa di studio quando aveva capito che l’università era un lusso che non potevano permettersi e aveva deciso che non poteva perdere così il suo piede di porco per scassinare la sua uscita da quei motel che avevano cambiato di mano in mano come una condanna fatta di stanze, silenzi e corridoi.

“D’accordo” risponde, alzando le mani in segno di resa, dopo aver appoggiato il bicchiere vuoto sul comodino. “Mi sono preso un’altra settimana. Sai, sono il migliore del mio corso e posso permettermelo”

Suo fratello gli lancia un’occhiata in tralice, di evidente diffidenza. Poi rilassa le spalle, distogliendo lo sguardo da lui.

“Non avevo dubbi” afferma, con studiata leggerezza. “Sei sempre stato un secchione”

Sam apre la bocca per ribattere, ma poi si lascia andare ad un debole sorriso. E’ la cosa più vicina ad un complimento che Dean gli ha mai fatto per tutta la questione Stanford.

“Non bisogna mai accontentarsi” risponde il più piccolo.

Dean annuisce da dietro i suoi occhi chiari e non urla, come vorrebbe, che è una vita che si accontenta di lavori mediocri, di relazioni mediocri, di soddisfazioni mediocri perché la vita non è giusta, non è equa e a puntare troppo in alto non si ottiene nulla, perché finisci solo per desiderare cose che non potrai mai avere.

 

***

Il ventesimo giorno, Dean lo costringe ad andare a fare un giro fuori casa di Bobby perché non ne può più di stare fermo e -

Andiamo, Sammy! L’infermiera ha detto che siccome sono giovane e affascinante, sarebbe positivo se provassi a rimettermi in piedi prima del tempo”

Si pente di averlo assecondato ancora prima di mettere il naso fuori da casa.

 

 

***

Il venticinquesimo giorno, cammina abbastanza bene sulle sue gambe. Almeno nei tratti brevi.

Quando è costretto a fermarsi, si lascia sfuggire un’imprecazione dalle labbra e tira un pugno di frustrazione contro una panchina.

“Sto bene, puoi andare a Stanford, non sto – bene”

Sam rimane. Non se ne va neanche la mattina dopo, né quella dopo ancora né -

 

 

***

E’ il ventottesimo giorno che le cose finiscono, quando Bobby, non volendo, comincia a discutere con Dean davanti a Sam di una caccia e di una creatura e la bolla che hanno faticosamente costruito comincia a perdere i confini: ché le persone fanno dei programmi, dei progetti, che esiste altro oltre alle pasticche di Coumandin che Sam ha spezzato ogni giorno alle cinque in punto per i primi venti giorni e che le persone possono andarsene.

Ironicamente, mentre il cacciatore cerca di coinvolgerlo nella discussione, Sam capisce che c’è una possibilità lasciata aperta per lui, da qualche parte nel mondo, e per quanto Sam sia grato, per quanto ne sia rassicurato, non riesce a togliersi dalla mente l’idea che, una volta varcata quella soglia, non sarebbe più potuto tornare indietro e che non è pronto a compiere quel passo. Che forse non sarebbe mai stato pronto.

E’ quel timore a spingerlo ad allontanare, impercettibilmente, la sedia dal tavolo, la sua persona da Bobby e Dean.

Dean riporta lo sguardo su di lui, osservando con uno sguardo tagliente quello spazio che prima non li separava, e l’espressione che si era dipinta sul volto di suo fratello. Chiude gli occhi, per un istante, perché aveva sperato… ma era ovvio che fosse troppo presto, che Sam non fosse pronto.

“Devi andare” e non era una domanda.

Sam odia quel lampo di amarezza che gli era passato negli occhi e odia l’idea di esserne la causa, ma non è pronto. Annuisce e Dean lascia sfuggire dalle labbra socchiuse un sospiro amaro.

“Oggi pomeriggio. Dean, avrei dovuto...” comincia.

Dean lo zittisce con un gesto della mano, perché sa già dove vuole andare a parare, mentre Bobby fissa entrambi con occhio critico.

“E’ tutto a posto” risponde, sbuffando. “Voglio dire, adesso cammino”

Sam pensa a quanto poco è passato dall’ultimo esame che ha dato, e proprio non riesce ad immaginare di guardare, di nuovo, il mondo con i loro occhi, ma si chiede anche se il suo incubo sia davvero finito.

“Davvero?” chiede nuovamente, inarcando il sopracciglio.

No, vorrebbe rispondergli.

“Davvero” conferma, e si maledice del modo in cui entrambi si accontentino di una bugia.

Sa che Sam non è pronto – al dolore, a quella responsabilità, a... – e sa che non può costringerlo e forse non vuole neanche farlo.

Quando Bobby quel pomeriggio gli chiede – ma non è una domanda, non davvero – se è quella la ragione per cui non lo voleva fra i piedi, Dean non gli risponde e rimane a fissare un bus che si allontana. Il cuore forse gli si stringe più di quanto dovrebbe.

 

 

NDA

Scritta per la Easter Advent Calendar challenge del gruppo "Hurt&Comfort Italia - Fanfiction & Fanart" ( 
https://www.facebook.com/groups/534054389951425/2933342186689288/?comment_id=2933371343353039¬if_id=1585404365893297¬if_t=group_comment_follow )
Eccomi qui: volevo scrivere una roba ambientata durante la Stanford Era da tempo, quindi diciamo che questa era una storia obbligata prima o poi. Spero di non essere andata troppo OOC. Le recensioni sono sempre gradite! 
 

 

   
 
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