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Autore: Adeia Di Elferas    28/03/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Allora, è passata un'ora?!” la voce, appena un sussurro, di Cesare era densa di agitazione.

Il suo attendente, stringendo gli occhi per guardare bene l'orologio sulla torre, scosse il capo e disse, sperando di non incorrere in una nuova sfuriata del suo signore: “Mancano ancora poco più di venti minuti...”

Il Valentino fece un sospiro lento, raddrizzando un po' la schiena e sistemandosi sulla sella, dandosi da solo dello stupido per essersi preparato così in fretta, pur sapendo le condizioni della Sforza.

Giusto per non mettersi ad aspettare sotto la rocca con un anticipo troppo ampio, aveva deciso di cavalcare per la città, in modo da sfruttare quell'occasione anche per farsi vedere dai soldati e dai forlivesi. Sarebbe stata una bella cosa, che, forse, l'avrebbe anche fatto sentire più sicuro di sé, se solo Bernardi non gli avesse riferito, proprio mentre stava per uscire da palazzo Numai, che da quello che aveva sentito tra i cittadini stavano nascendo due fazioni.

La prima di queste di faceva chiamare Madama, per indicare la volontà di tornare sotto il suo dominio, rimpiangendo amaramente di non averla seguita, quando aveva chiesto alla popolazione di schierarsi al suo fianco. La seconda, invece, si radunava sotto il nome di Ordelaffi, e si augurava il ritorno di Antonio Maria Ordelaffi che, al momento, tutti davano come rifugiato a Ravenna.

Sapere che tra i forlivesi ci si auspicava al governo o la Sforza o l'erede dei vecchi tiranni, insomma, chiunque, fuorché lui, aveva abbattuto il morale del Borja.

Così, pur cercando di darsi un contegno, quando il Duca aveva preso il suo cavallo bianco, metà della sua baldanza si era già spenta.

Per quell'incontro tanto importante aveva deciso di indossare l'armatura più bella che aveva, tirata a lucido dal suo scudiero proprio quella mattina, e un cappello nero ornato da una lunga piuma candida.

Aveva preso con sé una trombetta e un piccolo drappello di cavalleggeri ben vestiti e armati e si era fatto coraggio.

Stavano passando per la terza volta davanti a San Domenico, quando, ormai spazientito, Cesare sbottò: “Che diamine! Presto o tardi che sia, adesso andiamo da quella donna!”

Il Duca, assieme al suo seguito, raggiunsero i pressi della rocca nel giro di pochi minuti. La statua di Giacomo Feo vegliava su di loro come un monito. Il suo sguardo di bronzo, inanimato e freddo, mise i brividi al Borja che, in uno slancio di rabbia, si disse che se le trattative non fossero andate come pensava lui, quelle misere vestigia, simbolo di un tempo in cui a regnare su Forlì era la Sforza, sarebbero state distrutte. Avrebbe fatto radere al suolo quel monumento, se tale lo si poteva considerare, e avrebbe usato tutto quel bronzo per farne cannoni.

“Annunciatemi.” disse piano Cesare, al trombettiere che gli stava accanto.

L'uomo annuì e diede fiato al suo strumento, riempiendo l'aria gelida con uno squillo fastidioso e monotono.

Il Valentino fissava le merlature della rocca, apparentemente deserte. La pietra grigia si stagliava contro un cielo biancastro, forse foriero di nevicate più intense.

Dolo quando la trombetta tacque, dietro quel riparo apparentemente invalicabile chiamato Ravaldino, si palesarono una dozzina di uomini che, fissando Cesare e tutti quelli che lo circondavano, restavano in silenzio, con aria minacciosa.

“Sua eccellenza il Duca chiede di parlare a Madonna la Contessa!” gridò il suonatore, portando avanti il suo compito di annunciatore.

I soldati della Tigre non risposero in alcun modo, tuttavia, nel giro di qualche secondo appena, tra loro comparve una donna e il figlio del papa seppe che si trattava della sua nemica.

Caterina indossava il suo abito rosso che, da quella distanza, celava al Borja tutti i suoi rattoppi e i difetti legati ad anni di lavaggi e rammendi. Aveva i capelli acconciati con cura, in modo che lasciassero scoperte le spalle e il collo, in modo vezzoso, sottolineando, però, anche l'assenza di gioielli, unica vera pecca nel suo modo di presentarsi. Il suo volto era impassibile, il suo sguardo, intento a cercare il Valentino, era distante.

La Leonessa disse qualcosa all'uomo che le stava più vicino e questi gridò, rivolto al Duca: “Se vi compiace, spostatevi sul lato!”

Similmente a come aveva fatto la sua avversaria, anche il Borja delegò la risposta al suo trombettiere, che, così, chiese: “E a qual vantaggio?”

Il soldato, di nuovo imbeccato dalla Tigre, rispose: “Che dal lato – e indicò con il braccio la parte destra, dove il fossato era leggermente più stretto – si può discorrere senza gridar troppo!”

Cesare, capendo che sotto a quella richiesta non c'era nulla, se non una questione pratica, fece muovere il suo cavallo fino a raggiungere il punto pattuito. Anche Caterina si era spostata e si era messa ad attenderlo, le mani posate sulla pietra fredda della sua rocca.

Il Valentino chiese ai suoi di restare un po' indietro e similmente fece la Sforza. L'uomo, fissandola con insistenza, osservò con cura il suo viso e il suo corpo, ben poco nascosto dall'abito che indossava. Si chiese come potesse non aver freddo, senza aver nemmeno un mantello sulle spalle. Si era atteso di vederla in armatura, o, quando meno, in abiti meno femminili, dato che tutti la descrivevano come una sorta di virago, di diavolo in sottana, capace di uccidere un uomo a mani nude. Vederla tanto pacata e ben pettinata lo stava spiazzando.

Parimenti, la Contessa si era aspettata di vedere il suo nemico con indosso vestiti preziosi, gioielli e colori sgargianti, alla moda. Sapeva che il figlio del papa non aveva ancora preso parte attiva alla guerra, almeno lì in Forlì, quindi la straniva trovarselo davanti in armatura quasi completa, ritto in sella come un vero cavaliere.

Cesare, dopo qualche minuto di studio silenzioso, decise che fosse suo compito, per galanteria, salutare per primo. Con un gesto magniloquente si levò il cappello, tenendo il braccio lungo e il capo ben piegato per più di un paio di minuti.

Quell'atteggiamento affettato diede sui nervi alla Tigre, che, tuttavia, lasciò credere di aver molto gradito quella cortesia, anche se non si abbassò a ricambiarla con una riverenza.

“Madonna: nessuno cosa al mondo vi è più nota, io credo, di come la fortuna degli Stati sia mutabile.” cominciò il Valentino, rimettendosi il cappello: “A Roma mi dicono tutti che siete donna di gran cultura e grandi lettere e conoscete le storie. Ecco: è il momento di mettere a profitto il vostro ingegno e il vostro sapere. Non voglio esporvi le condizioni delle cose, né il motivo della mia venuta. Voi già sapete tutto. Tutto.”

La Sforza taceva, deglutendo in silenzio, ascoltando la voce mai udita prima del figlio del papa. Si poteva sentire un lieve accento spagnolo, nelle sue parole, indice che quella fosse la lingua che ancora parlava più spesso, pur essendo nato a Subiaco e divenuto uomo a Roma. Il suo tono era basso, accorato, avrebbe quasi potuto sembrare sincero, se solo non fosse uscito dalle sue labbra.

“Ma tanto mi sta a cuore il mostrarvi la stima altissima nella quale io vi tengo – continuò imperterrito il ventiquattrenne, cercando di non distrarsi nel guardare la donna che stava sui camminamenti della rocca, così flessuosa e affascinante, malgrado l'età, malgrado la sua storia, ancora così piacente e attraente da fargli quasi perdere il filo del discorso – e il persuadervi che io non vorrei mai non solo maltrattare, ma neppure rattristare più del necessario, che vi propongo, vi scongiuro di cedermi spontaneamente questa rocca!”

Siccome quel preambolo poteva solo anticipare una serie di condizioni di resa, la Sforza non aprì bocca, restando in attesa del prosieguo, che, infatti, non tardò ad arrivare.

“Vi prometto tutte le condizioni più vantaggiose – riprese il Duca di Valentinois, abbassando appena la voce, come se non volesse farsi sentire dai francesi che gli stavano alle spalle – vi farò assegnare dal papa mio padre delle terre, voi e i vostri figlioli avrete entrate convenienti per tutta la vita. Io stesso me ne farò mallevadore, se vi aggrada. Potrete stabilirvi ovunque, anche a Roma, se così vi piacerà di fare. E così per voi stessa e per tutti i vostri cari che sono lì con voi ora risparmierete in travagli, in pericoli maggiori assai che non credete! Non vedrete un orribile spargimento di sangue. Capitolando a tempo, voi sarete giudicata una donna valorosa e accorta.”

Per il modo in cui quelle condizioni erano state elencate, Caterina, trovandosi suo malgrado in un momento di incertezza e profondo sconforto, fu quasi sul punto di chiedere maggiori garanzie, trovando che, forse, il Borja non aveva tutti i torti: non era tardi per salvarsi la vita e il nome.

Però, impaziente, il Valentino non riuscì ad aspettare, a far sì che le sue parole germogliassero nell'animo della Contessa. Aveva la fretta dei giovani, non ancora stemperata dall'esperienza, e, anzi, accentuata dal trovarsi dinnanzi una donna più vecchia e più famigerata di quanto non fosse lui.

“Capitolando a tempo eviterete che per tutta Italia si sparli di voi e si rida di donna cieca e pazza che si ostina a contrastare forze a lei tanto superiori! Non è il caso di rendervi ancor più ridicola di quanto non siate già! Non parleranno più dei vostri mille amanti, ma anche della vostra cieca stupidità! Cedete!” esclamò il figlio di Alessandro VI, cambiando tono, facendosi più aggressivo e sbrigativo: “Cedete, dunque! Madonna! Cedete e basta! Cedete alle mie preghiere!”

Quella virata improvvisa, assieme alle parole rivelatrici che mostravano quale fosse la reale opione che il Borja aveva di lei, risvegliarono prepotentemente l'orgoglio della Tigre.

Standosene dritta al suo posto, non appena il giovane tacque, la milanese fece un profondo sospiro e, preso fiato, ignorando i primi fiocchi che annunciavano una nuova nevicata, rispose: “Signor Duca, la fortuna aiuta gli intrepidi e abbandona i codardi.”

Cesare strinse le redini del cavallo con maggior forza, mentre, per la prima volta udiva la voce della sua nemica. Non se l'era aspettata tanto avvolgente e decisa. Non aveva nulla né della rudezza che gli avevano paventato tutti, né della ritrosia che le donne sempre mostravano davanti a lui. Era qualcosa di diverso da tutto ciò che aveva conosciuto fino a quel giorno e, forse, cominciava a capire quale fosse il vero segreto del fascino della Tigre.

“Io sono figlia di un uomo che non conobbe la paura – continuò Caterina, ripensando, con un nodo alla gola, a suo padre, il cui anniversario della morte sarebbe caduto il giorno appresso – e qualunque cosa possa accadermi, sono risoluta a camminare sopra le sue orme sino alla morte.”

Il Duca di Valentinois strinse gli occhi, cominciando a vederla in un modo ancora diverso. Anche se il suo tono non era aggressivo, nelle frasi stringate e ben calibrate della Leonessa era sottesa una precisa intimidazione, quasi un'aperta minaccia. La milanese stava dicendo apertamente che avrebbe lottato fino all'ultimo e che, nel farlo, avrebbe causato più danni e incomodi possibili ai suoi nemici.

“So bene quanto siano mutevoli le fortune degli Stati!” affondò la Sforza: “Di storie, sì, ne ho lette molte, è vero, ma sarebbe cosa indegna che io, dimenticando chi fu mio padre e chi furono i miei avi, mi acconciassi a ridurmi in condizione privata.”

Cesare cominciava a farsi irrequieto. Non gli piaceva il modo in cui la Leonessa stava rispondendo alla sua mano tesa. Era vero che il suo tentativo di avvicinarlesi pacificamente e sottrarle la rocca con la frode era stato messo in atto solo perché l'uomo ormai si vergognava troppo della difficoltà che stava trovando nel piegarla al suo volere... Però, a ragion veduta, trovava che sarebbe stato vantaggioso anche per lei, arrendersi subito. Sicuramente la Sforza e i suoi figli sarebbero stati uccisi, ma, con buona probabilità, molti dei soldati che erano rimasti al suo fianco si sarebbero salvati. Se era davvero una signora tanto innamorata del suo popolo, avrebbe dovuto fare quella considerazione...

“Voi dite di non voler parlarmi della cagione della vostra venuta – lo provocò a quel punto la Contessa, inclinando la testa leggermente – ma questo è solo perché non vi piacerebbe poi di ascoltare quello che io avrei in animo di rispondervi.”

Alle spalle della Contessa si sollevarono risate complici. I suoi uomini, indubbiamente, stavano trovando le sue risposte più che a tono.

Il Borja, invece, teso com'era, finì per far agitare il suo bellissimo cavallo bianco che, impaziente, si sollevò un momento sulle zampe posteriori. Il Duca dovette reggersi con attenzione per non farsi disarcionare, ma alla fine riuscì a placare la bestia e tornare a fissare la sua interlocutrice che, con aria di scherno, lo stava osservando in silenzio.

Dopo un po', la donna cercò di avviare il loro abboccamento a una conclusione: “Io vi ringrazio della buona opinione che dite di avere di me, ma quanto alla promesso che oggi mi fate a nome vostro e del pontefice, mi trovo costretta a rispondere che come i pretesti tirati fuori dal vostro padre per dichiararmi decaduta da questi Stati insieme ai miei figli in tutti il mondo furono giudicati falsi, iniqui, miserabili...” a ogni parola la milanese alzava la voce, in modo che tutti sentissero, persino i cavalieri francesi che facevano da accompagnamento al Valentino: “Ecco, così per altrettanto fallaci e bugiarde io tengo le promesse vostre e quelle del papa. Italia sa quanto valga la parola dei Borja, e la mala fede del padre toglie ogni credito al figlio.”

Stavolta dall'interno della rocca non arrivarono risate, ma il battere delle armi e dei piedi dei soldati. Quel rimbombo, così ancestrale, così profondamente bellico, fece venire i brividi a Cesare, perché sembrava dare nuova forza alla bellissima donna che lo stava fronteggiando. Ormai non vedeva più l'abito rosso scollato, ma una Tigre, esattamente come descritta nei racconti da taverna.

“Ho forze sufficienti a difendermi, e non credo affatto che le vostre siano irresistibili.” ci tenne a precisare la Contessa: “Se dopo aver rifiutato ogni condizione ignominiosa, ogni debolezza indegna del nome sforzesco, io rimarrò schiacciata da voi, sappiate bene, e con voi lo sappia il mondo, che io, unita nel profondo a quanti qui dentro con me, mi conforterò pensando che il nome di chi muore sul campo non è dimenticato mai, e che spesso ancora la sua causa rivive e trionfa.”

Ci fu un lungo momento di silenzio. L'unico suono era quello del vento, che aveva iniziato a soffiare ostinato, trascinando con sé i teneri fiocchi di neve che cadevano dal cielo candido.

“Con questa ho detto tutto. Statemi bene, Duca.” terminò bruscamente la donna, girandosi di scatto e sparendo oltre le spesse merlature.

Il Borja non riusciva nemmeno a respirare. Si sentiva messo in ridicolo. E si sentiva anche in pericolo. Aveva il cuore che correva come un matto e non sapeva cosa fare. Non riusciva nemmeno a muoversi. Era stato convinto, prima di andare a Ravaldino, di riuscire a strappare almeno qualche promessa alla Tigre. Se non la resa totale, almeno uno spiraglio di contrattazione...

“State bene voi!” gridò, rivolto ormai a nessuno: “Che Dio v'accolga, quando sarà il momento!”

Disgustato, spaventato e confuso, il Duca di Valentinois diede un forte colpo di sperone al fianco del suo cavallo bianco e, senza aspettare il suo seguito, galoppo fino a palazzo Numai.

“Non voglio che nessuno mi disturbi!” intimò a Luffo, quando entrò dal portone principale: “Ho molto da riflettere e pensare...” e, annunciato ciò, corse nelle sue stanze e vi si chiuse dentro.

 

“Volevamo solo dirti – fece Alessandro Sforza, chinando rispettosamente il capo – che ci sono piaciute, le parole che hai usato per descrivere nostro padre.”

Caterina si voltò verso i fratelli, che, schierati uno di fila all'altro, la stavano fissando. Era andata nella sala delle armi, chiamando a sé solo loro, Scipione, Marulli e Pirovano. A cercare quest'ultimo, siccome era ancora verosimilmente in stanza, era stata mandata Argentina.

“Erano solo parole.” borbottò la donna, premendo una mano sulla fronte e cercando di ragionare in fretta su quello che aveva potuto capire dalle proposte del Borja: “Nostro padre era tutto fuorché un uomo privo di paure, tanto per cominciare. E camminare sulle sue orme fino alla morte non sarebbe una mossa molto astuta, dato che lui è stato ucciso da uomini che avevano finito a odiarlo per caso.”

Francesco, Galeazzo e Alessandro si scambiarono l'un l'altro uno sguardo un po' cupo. Tra tutti loro, probabilmente, Caterina era l'unica a poter parlare liberamente del padre. Non era stata l'unico a conoscerlo, tra loro, ma di certo era quella che aveva potuto farlo più a fondo.

“Cosa faremo, ora?” chiese Marulli, teso.

La Contessa avrebbe voluto avere una risposta chiara in mente, ma, di fatto, non sapeva da che parte cominciare ad analizzare il problema, figurarsi trovarvi una soluzione rapida ed efficace.

Mentre Giovanni da Casale finalmente entrava nella Sala della Guerra, sfuggendo gli sguardi un po' sospettosi degli altri presenti, la Sforza soffiò: “Continuiamo con il nostro piano... Stanotte usciamo, come sempre. Li attaccheremo duro. Voglio con me il maggior numero di uomini possibile.”

Pirovano stava per dire qualcosa, ma Scipione parlò prima di lui: “Solo cavalieri? In tal caso non so quanti ne possiamo usare... Se non adoperiamo anche appiedati, non possiamo andare oltre le cinquanta unita, temo. Ci sono morti molti cavalli, nelle ultime sortite e alcuni sono ancora feriti.”

Caterina sporse un po' in fuori il mento. Era una scelta non facile. Avere dei fanti significava essere più lenti. Però si trattava di una novità, nel loro modo di agire e quindi avrebbe potuto giocare a loro vantaggio...

“Alessandro – disse, richiamando l'attenzione del fratello – tu e Mongardini sceglierete i soldati più veloci. Li armeremo bene, ma in modo leggero. Devono correre.”

Lo Sforza annuì e da quel momento in poi tutti i presenti cominciarono a valutare i pro e i contro di un'uscita che comprendesse anche la fanteria. Anche se la decisione era già stata presa, ragionare apertamente sull'uso esatto dei soldati a cavallo e di quelli appiedati diede un nuovo sprone alla Contessa.

La donna aveva appena dichiarato conclusa quella breve riunione, quando sentì il dovere di dire una cosa importante a Marulli. Attese che tutti si avvicinassero alla porta, soprassedendo sul fatto che Giovanni da Casale non accennava invece a muoversi, ben deciso ad aspettarla fino all'ultimo momento, e poi si avvicinò al bizantino.

“Il Valentino è convinto che i miei figli siano qui con me.” gli sussurrò, guardandolo negli occhi e posandogli una mano sulla spalla: “Questo significa che vostra moglie sta facendo un lavoro impagabile. Non so se riuscirò mai a ripagarvi, per quello che state facendo per me.”

“Multos modios sali simul edendos esse – rispose, con un sorriso incoraggiante Michele – ut amicitiae munus expletum sit.”

La Tigre sollevò appena l'angolo della bocca e ribatté: “Ne stiamo mangiando insieme, di sale, in questi giorni. Di certo l'amicizia tra noi resterà salda, su questo non ci piove.”

Marulli annuì e poi, con un saluto vago a Pirovano e uno silenzioso, ma più eloquente, alla Sforza, si congedò: “Torno al mio posto. Se stanotte mi volete al vostro fianco, sono pronto a prendere la spada.”

“Per il momento voi mi servite di più qui a Ravaldino.” gli assicurò Caterina.

“Che cosa ti ha detto?” chiese Giovanni, non appena il bizantino se ne fu andato.

“Non sospetterai anche di lui?” chiese, piccata, la donna: “Ha una moglie, e, per di più, lo trovo un po' troppo vecchio, per me. Ha già quarantun anni...”

Pirovano strinse le labbra, un po' offeso e poi bofonchiò: “Dico solo che mi dà fastidio, quando parlate in latino.”

“Mi ha detto – cedette la Leonessa, riconoscendo nello sguardo risentito del suo amante la stessa sensazione di inadeguatezza che tante volte aveva scorto anche in Giacomo – che bisogna mangiare assieme molti moggi di sale, affinché il dovere dell'amicizia sia compiuto. Lo diceva Cicerone.”

Quell'ultimo inciso acuì la vacuità dello sguardo del milanese, così la Contessa decise di chiudere la questione sul nascere.

Indicandogli la porta, sospirò: “Andiamo. Voglio controllare che le armature siano ben brunite e che non ci manchino le armi per stanotte...”

 

Cesare aveva passato ore tremende, rifiutando di vedere chiunque chiedesse di lui. Non gli importava nulla delle richieste dei forlivesi, così come rifuggiva le lamentele e le domande dei suoi graduati.

L'unica cosa a cui riusciva a pensare era il modo beffardo e arrogante in cui la Sforza gli si era rivolta quel giorno, fissandolo come fosse stato un suo servo e non il figlio del papa. La rabbia, però, lasciava ampi spazi alla paura di essere rallentato oltremodo da quell'assedio e al timore di incorrere in una disfatta.

Nei progetti di suo padre, il Duca di Valentinois, in quel momento, avrebbe dovuto già essere, come minimo, signore di Rimini. Invece, suo malgrado, era steso sul letto a torcere il bordo del lenzuolo tra le dita, sognando che invece della stoffa nella sua stretta di fosse il collo della Sforza.

Il Borja aveva il terrore di perdere troppi uomini. Se quella maledetta avesse continuato a colpirli di notte, rendendosi sempre più imprevedibile, avrebbe finito per annientarli. Loro cosa potevano fare?

Non si poteva certo chiedere all'intero esercito di vegliare... E d'altro canto, benché restassero uccisi sempre anche parecchi uomini della Tigre, il bilancio era sempre così negativo, per i francesi, che ormai anche l'umore delle truppe ne risentiva in modo incredibile.

Di quel passo, poi, avrebbero finito le munizioni dell'artiglieria e la polvere. Con che faccia avrebbe potuto chiedere a suo padre di procurargliene altre?

Rivoltandosi tra le coperte come un martire sulla graticola, Cesare avvertiva un senso di vertigine che lo faceva sudare freddo. Aveva esposto alla Leonessa una serie di offerte impossibili da rifiutare eppure lei che aveva fatto? Non aveva nemmeno lasciato aperto un misero spiraglio di contrattazione.

Tirandosi seduto, il giovane si asciugò la fronte, madida di sudore gelato. Forse aveva anche un po' di febbre, per colpa del mal francese, che si riproponeva proprio nei momenti peggiori.

Con le mani che tremavano appena, alzandosi dal letto, il Valentino andò alla finestra e l'aprì un momento. Ispirò l'aria gelida, sentì i polmoni riempirsi e bruciare. Trattenne un colpo di tosse e richiuse subito. Anche se nevicava poco, stava continuando. Di quel passo, si sarebbero trovati anche in mezzo a una tormenta. Non poteva permettere che la sua prima campagna militare finisse in modo tanto misero e in una terra a suo modo di vedere inutile come la Romagna.

Toccandosi la barba, e trovandola troppo lunga e disordinata, il Borja decise di farsela sistemare a dovere. L'indomani, si disse, avrebbe incontrato di nuovo la Tigre, ma quella volta avrebbe portato a casa un risultato, in un modo o nell'altro.

 

Nevicava ancora, molto più fittamente di come non avesse fatto durante il giorno. La luce spettrale che cingeva Forlì aveva impensierito la Sforza, che si era chiesta a lungo se le armature così brunite non fossero più visibili del solito, quella notte.

Aveva addirittura voluto fare una prova, andando sul mastio e guardando verso il cortile, dove alcuni soldati già pronti stavano in piedi l'uno accanto all'altro. Aveva capito che, in realtà, c'era poco differenza da quando la notte era buia e senza luna, e così si era tranquillizzata.

Aveva preparato personalmente il suo stallone nero, prendendosi tutto il tempo necessario per spazzolarlo e per chiedere a uno degli stallieri come stesse. L'uomo, sghignazzando, le aveva assicurato che era un agitato come sempre e che, anzi, quel giorno non erano riusciti a evitare che andasse a coprire una femmina che era scappata dal proprio cubicolo.

Caterina aveva ribattuto dicendo che, in momenti del genere, non poteva mettersi a sgridare il suo purosangue per una cosa del genere, ma aveva comunque pregato lo stalliere di non far uscire la cavalla, nel caso fosse rimasta incinta.

“Se qualcuno di noi sopravvivesse, alla fine – aveva aggiunto, mentre montava in sella – chissà mai che non possa crescere e poi addestrare il figlio del mio stallone...”

Ormai era tutto pronto. La cavalleria si sarebbe mossa come scudo alla fanteria, nel momento dell'uscita dalla rocca e i ranghi si sarebbero aperti solo al momento dell'impatto con il nemico.

L'operazione era delicata e avrebbe colpito il cuore dell'accampamento francese in città. La Tigre era certa che buona parte dell'esercito, di certo le bande più indisciplinate, fossero state messe di stanza nei bassifondi. Era la tattica che si aspettava dal Borja e, in effetti, quando arrivarono sul luogo si rese conto che aveva ragione: il Valentino aveva messo i prelati e i generali in case da nobili, le truppe scelte nei quartieri più belli e la gentaglia in mezzo alla gentaglia.

La battaglia iniziò immediatamente, a differenza di com'era successo le altre volte. Molti soldati francesi non dormivano, quando la Tigre giunse con i suoi. Anche il modo in cui quell'accozzaglia di mercenari e saccomanni si battevano era diversa da quella degli altri squadroni.

Caterina, che aveva voluto combattere anche quella notte con i capelli sciolti e senza elmo, si trovò subito in difficoltà. A fronteggiarla non c'erano solo uomini con lance e spade, ma anche con fiaschi di vino che venivano lanciati a raffica, sedie, gambe di tavoli e torce di fortuna usate per spaventare i cavalli.

Tra quelli che erano usciti assieme a lei c'era anche Baccino. Aveva insistito tanto che, alla fine, la Contessa aveva ceduto. Il giovane ora si trovava al suo fianco. Era tra quelli appiedati, perché, oggettivamente, riusciva a correre come una lepre anche con addosso l'armatura.

Benché Caterina non glielo avesse chiesto espressamente, sembrava che il cremonese fosse lì solamente per proteggerla. Allontanava tutti quelli che poteva, roteando la palla ferrata che aveva con sé, e sembrava non interessarsi ad altro che a parare i colpi destinati alla sua signora.

La Sforza avrebbe voluto gridargli di smetterla e di pensare per sé, ma riconosceva che quel servizio la rendeva libera di scegliere i suoi avversari, valutando in fretta quelli che parevano più ostici e avventandovisi sopra con tutta la sua furia.

L'odore rovente del sangue e quello algido della neve si mescolavano nelle sue narici, quasi inebriandola. Vedeva i suoi cadere, ma, allo stesso tempo, scorgeva il doppio, il triplo, il quadruplo dei francesi morire. Era solo quello che contava, ormai.

Era così assorbita dal roteare del proprio braccio e dai contraccolpi dei suoi fendenti, che la donna non si accorse di Baccino che veniva fatto inciampare, restando indietro, né si accorse del soldato nemico che, raccolta una lancia in terra, le si stava parando davanti.

Il grido del suo cavallo fu così penetrante e acuto da farle dolere le orecchie. Riuscì quasi a sentire la punta dell'arma nemica che fendeva le carni della bestia, trafiggendola da parte a parte. Il grosso purosangue, ancora in piedi, ebbe un sussulto, mentre un fiume di sangue sgorgava dalla base del suo collo nero, e poi, di colpo, senza più un nitrito o un respiro, crollò in terra, trascinandola giù con sé.

 
   
 
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