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Autore: Eryah    29/03/2020    0 recensioni
Bozze di storie, frammenti raccolti di ciò che è stato scritto, di ciò che non lo è stato e di ciò che non lo sarà mai.
Leggete pure, o fingete di non averlo mai fatto se vi duole troppo aver tentato.
-I temi trattati riguardano principalmente avventure sullo stile dnd/pathfinder-
Genere: Avventura, Fantasy, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Glicine e carta
Scopo primordiale.


 


Un fischio nelle orecchie, il mormorio del vento che diventa un freddo e grottesco grido che punge le dita.
L’oscurità si trasforma in luce, una luce intensa che colpisce ogni cosa, distruggendo ogni figura, per poi ricomporla poco dopo, in lievi fasci plumbei. Sfocando ogni curvilineo tratto dell’immenso cielo e delle sue sorelle cariche di malinconia e rimprovero.
Posso sentirne il pianto, posso sentirlo sulla mia pelle. Scivola lungo la fronte, segnandola con un tocco ben più delicato dell’insistente fiato che soffia sul collo, e sprona anche le radici del signore non più verde quassù.
Congiungo il mio affanno a quello dell’incombente tempesta, e si tinge di magia tutto ciò che ci sovrasta,  maestro.
Lo senti?
Lo senti. Come lo sente la formica.
Come lo sente la roccia sulla quale prosegue, cercando rifugio dalle lacrime rumorose delle vergini violate.
Piangono per te, o forse per me, inesperta sciocca, guardiana del tuo tempio che però non mi desidera affatto. Dell’albero oramai quasi nudo, e della sua corteccia graffiata. Delle sue radici che sorreggono ancora il peso di questo vecchio strapiombo, per quanto ancora solo nostra madre lo sa.
Qualcosa di lontano, qualcosa che oramai non temo più, non più del tuo giudizio, maestro.
E porgo le lanose orecchie bianche verso il grido mattiniero; Le voci, che salutano da giorni addietro questo luogo, sostituendosi a te, senza riuscire ad imitarne il calore, ma solo la fermezza.
Dimmi, la senti ancora la corsa dell’acqua? La sorella che cerca di battere il vento, nella loro continua gara. E dimmi, parli ancora con i rapaci della loro ultima danza?
Se si, dimmi…
«Maestro, cosa voler dire infe, inferi, inferiore?» Il profumo di fiori freschi è forte, e mi pizzica un po’ il naso a star così vicino ai suoi ciuffi aggrovigliati.
Così, sposto il volto verso un incavo liscio, dove le Primule si sentono un po’ meno, mischiandosi all’odore della carne.
Percepisco un movimento brusco, ma non cado, trattenuta dalle sicure braccia, come gli alberi che trattengono il vecchio terreno. Nonostante ciò mi stringo verso la mia roccia, mentre la coda mi dondola ad ogni passo un po’ inquieta.
Mi piace farmi trasportare come un piccolo sacco di legna, ma a volte mi è difficile concentrarmi sulle giuste parole quando passeggiamo. Tutto diventa confuso, ci sono così tanti colori da ricordare, tanti nomi e tante domande che vorrei fare, senza sapere come.
«Per noi non significa nulla» sento la sua figura ingobbirsi, come le scimmie vivaci che ho visto scivolare fra le fronde folte e spesse. Adesso vuote prive di ogni movimento, che non sia il ciondolare dovuto al venticello.
Avvicino la mia smorfia alla sua spalla, celandola dietro la moltitudine di simboli scuri e circolari che si fondono con la sua pelle ambrata. E che nascondono a loro volta chissà quale significato, in una lingua mai anche solo immaginata.
Si accorge della mia delusione, lo nota sempre quando qualcosa non va. Sente me, così come le scimmie, così come le foglie. Ed ogni volta che lo sente, lui parla. Parla così tanto, in così tante forme diverse, che le sue parole diventano il suono che preferisco, qualsiasi esso sia. Il suono che riconosco, anche se raramente capisco.
«Ricorda ‘Rai, tutti hanno uno scopo, bisogna solo capire quale.»
Scopo, lo dice così solenne, ma vorrei capire cosa significa avere uno scopo.
Ed invece capisco solo che un Bucaneve è un bucaneve, mentre una Lepre è una lepre. Capisco solo che quando non piove, ciò che mi circonda s’indebolisce, e che quando qualcosa s’indebolisce, muore.
Ma la causa non sempre è l’assenza della pioggia, o così ricordo.
«‘Rai… ha- quale scopo?»
Strofino due delle bianche ed affusolate dita sul suo braccio, dove linee color fuoco s’incrostano ogni giorno di più come la cenere appena bruciata, tranciando ed interrompendo le sconosciute parole marchiate, che narrano chissà quale racconto.
Non lo vedo sorridere, ma credo lo stia facendo, e divento gelosa del tronco appena passato che deve sicuramente averlo visto, con i suoi circolari e scuri occhi fatti di legno. Scuri come quelli che non vedo. Ma sento. Sento che mi stanno prestando attenzione, pur non guardando me, ma il lontano albero sul verdeggiante dirupo.
«Lo troverai prima o poi, ne sono sicuro.»


Perché non mi ascolti, né parli con me?


Non ricordo come, ma credo di averlo perso per quello in cui credeva.
Poggio la piccola e dura nocciola intagliata ad occhio, sotto la pila di sassi, piantati come boccioli nel terreno oramai umido.
Le cordicelle, figlie dello stesso albero che mi dà le spalle, scivolano dalle mie grinfie, mescolandosi con il loro ciondolo nel fango.
Quando mi alzo, il vento fratello tumultua per l’ira del padre, e rimbomba nella mia testa. Dissolvendosi nel vuoto ancestrale.  E lo stesso fango, scorre dalle ginocchia come fosse argento.
Non il tuo, ma il mio sangue.

Un giorno ricorderò, e quel giorno parleremo ancora una volta.
Perché è questo il mio scopo, maestro.

 
   
 
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