Storie originali > Soprannaturale
Ricorda la storia  |      
Autore: Harriet    29/03/2020    1 recensioni
Dietro di te, una creatura inquietante dagli occhi troppo grandi, che ti insegue.
Davanti a te, tuo padre che non vedi da dieci anni, con il quale devi intavolare due conversazioni importanti: una richiesta di perdono e un coming out.
Quale delle due cose fa più paura?
Genere: Drammatico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Masquerade'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Partecipa al COW-T X di Landedifandom. Missione 6, prompt: "Rimpiangere ciò che non è stato (e porvi rimedio)".
Questa storia è parte di una serie che comincia molto lontano, con la storia di Damiano, qui personaggio secondario. Beh, l'idea era di andare in ordine cronologico, ma in realtà penso proprio di no.



La via del ritorno è piena di spettri
 

            «Non ce l’hai una foto? Non lo vedo da quando aveva dieci anni.»
            «L’hai visto alla cena per il suo diploma.»
            «Sì, va bene, più o meno, siamo lì. Era piccolo. Con tutti quei capelli. Non ho mai capito perché Mirsada glieli lasciava così lunghi.»
            «Ecco, ecco qui… Me ne ha mandata una sul telefono… Se la trovo…»
            Le dita di Bernardo lottarono contro lo schermo del telefono finché non ebbe recuperato la foto che Samuele gli aveva inviato qualche giorno prima, dopo una lunga insistenza. La mano impaziente di Rosa s’impossessò dell’oggetto e la foto fu posta sotto il suo scrutinio. Bernardo rimase a guardarli entrambi – sua sorella seduta accanto a lui e suo figlio sullo schermo.
            «Me lo ricordavo diverso» disse Rosa. «Anzi, in realtà non me lo ricordavo proprio.»
            «Non è molto…» Bernardo rinunciò a concludere, sentendosi in colpa di fronte agli occhi scuri del figlio, seminascosti da un ciuffo di capelli castani mossi e disordinati. Era stato lui, a dargli la parte meno interessante delle sue fattezze, o così era solito pensare. Mirsada era una donna bellissima.
            «Ha proprio la classica faccia che si dimentica.»
            «Dai, Rosa, non è vero.»
            «Ma se lo dimenticavano tutti dappertutto, quando era piccolo! Com’era, la storia della maestra che lo lasciò dentro il Museo Archeologico? E anche tu, ti scordavi            sempre di andare a prenderlo in piscina.»
            «Sarà capitato due volte…»
            «Vabbè, dai, non è un brutto ragazzo. Certo che ti poteva mandare una foto un po’ meglio. È sfocata. E ci ho messo un’ora a trovarlo.»
            Bernardo annuì: era successo lo stesso anche a lui, quando aveva ricevuto lo scatto del figlio. Infagottato in un giaccone grigio scuro, dello stesso colore del palazzone alle sue spalle, si smarriva nelle tonalità deprimenti del paesaggio urbano.
            «Quanti anni ha?»
            «Trentaquattro.»
            «Sei stato troppo buono a volergli parlare di nuovo. Fosse stato figlio mio, gli avrei sbattuto la porta in faccia.»
            «È l’unico figlio che ho. E mi ha chiesto scusa.»
            La sorella fece un lunghissimo sospiro sonoro, uno di quei tipici suoni di Rosa, così eloquenti.
            «Lavora sempre in quel postaccio su a Fiesole?»
            «È un posto come un altro.»
            «Ma ci sei mai andato?» Rosa fece un risata. «È la fiera del brutto! C’è certa robaccia che, se fossi io il proprietario, pagherei la gente per farmela sparire dal negozio!»
            «Qualcosa deve pur vendere, visto che sono tre anni che ci lavora e lo pagano abbastanza da permettergli di tirare avanti.»
            «Dove sta di casa?»
            «Non ho capito bene. È molto vago al riguardo. Però vive con il proprietario del negozio»
            Le sopracciglia di Rosa balzarono in alto e gli occhi le si fecero grossi e tondi tondi.
            «Ma l’hai mai visto, il proprietario? È uno…» La sua loquela s’impuntò, come ogni volta in cui doveva esprimersi riguardo qualcosa che la imbarazzava. «Vai, vai a vederlo. Vedrai come va in giro vestito! Sembra una donna!»
            «Meglio che in mezzo alla strada, no?»
            «Mah, insomma, non lo so.»
            «Senti, Rosa, di dubbi ne ho tanti anch’io, ma Samuele al telefono sembrava abbastanza tranquillo. Abbiamo chiacchierato parecchio, in questi mesi. E sono felice di vederlo di persona, finalmente.»
            «Che ti devo dire: speriamo bene.»
            Bernardo non rispose, perché quelle ultime parole le aveva pensate anche lui, fin troppe volte. Si alzò dal tavolo e si diresse verso il frigorifero.
            «Io comincio a preparare la cena, sennò arriva che non è ancora pronto niente.»
            «Ma posso aspettarlo?»
            «Per oggi preferirei di no.» Si voltò a guardare la sorella, certo che non l’avrebbe presa bene. «Magari la prossima volta, eh?»
            «Quante storie. Siete sempre stati uguali, in questo: due lagnosi.» Rosa si alzò e iniziò a raccogliere la sua roba sparsa per tutta la cucina. Sulla porta si fermò e indirizzò a Bernardo uno sguardo da profetessa furiosa. «Digli che gli darò il benvenuto e forse anche il mio perdono, ma solo dopo che gli avrò fatto sapere tutto quello che penso di lui!»
 
            Per la quarta volta la signora prese un articolo dalla scaffalatura, lo soppesò attentamente, lo sbatacchiò e ci passò le dita sopra e poi lo rimise a posto. Damiano la osservava, da dietro il bancone, e capì che era la cliente pignola di cui gli aveva parlato Samuele. Gliel’aveva descritta con pochi tratti, ma precisi, perfettamente centrati. Era impossibile sbagliarsi. Nessun altro che Damiano conoscesse aveva la capacità di Samuele di fissare movenze, sguardi, dettagli che i più tendevano a trascurare.
            «Sei sicuro che in realtà non sia qui per la merce speciale?» aveva chieso a Samuele, ma lui aveva scosso la testa.
            «È solo una persona con dei gusti del cavolo. Non è una di noi.»
            E aveva ragione.
            Posato l’ultimo oggetto che non aveva intenzione di acquistare (non che Damiano potesse fargliene una colpa), la signora avanzò fino al bancone.
            «Sono venuta a ritare il portagioie che mi ha messo da parte l’altra volta, si ricorda?»
            «Glielo cerco subito, ma non ero io, quello con cui ha parlato.»
            «Non lo so. Non era lei? Non ricordo mica com’era fatto, quello lì!»
            Damiano s’inoltrò nel retrobottega e ricomparve poco dopo con il portagioie, un relitto degli anni settanta con una laccatura screpolata, e lo impacchettò per la signora.
            «Quindici.»
            «Non erano quattordici?»
            «Mi dispiace, quello era il vecchio prezzo. Devo aver scordato di aggiornare il cartellino.»
            Lei sbuffò, borbottò qualcosa ma alla fine pagò, prese il pacchetto e uscì senza salutare.
            «Buona serata!» disse Damiano, in risposta allo scampanellio dello scacciapensieri sulla porta. Attese qualche momento, poi aprì la cassa e prese un euro. Lo fece sobbalzare tra le dita e lo lanciò, centrando la scatola di legno intagliato sul bancone. La moneta sparì nel fondo buio, senza fare rumore, al sicuro in un posto irraggiungibile. «Giuro che lo userò per qualcosa di buono» disse, anche se sapeva che loro avrebbero capito anche senza parole. «Lo so, è stato un po’ una cattiveria, aumentarle il prezzo, ma non la sopporto, la gente che dimentica la faccia di Samuele.»
            Il telefono trillò e vibrò, perso in una delle tasche della larga veste a fiori. Damiano lo ignorò: tanto non era di sicuro Samuele, partito da poco per affrontare l’impresa del primo incontro con il padre dopo troppi anni, e non aveva interesse a interagire con nessun altro essere umano vivo, in quel momento.
            «Almeno lasciami fare qualcosa per capire se sta andando tutto bene. Un incantesimo. O magari potrei affidarti a qualche spirito» gli aveva detto quella mattina, ma Samuele era stato irremovibile.
            «Possiamo, per una volta, comportarci da persone normali?»
            Damiano aveve sciorinato una battuta stantia sul fatto che nessuno, in realtà, era una persona normale, ma il retrogusto di quelle parole era rimasto.
            Sperava che Samuele non si facesse attrarre troppo, da quella normalità così distante da loro.
 
            «Ciao.»
            La ragazza bionda smise di riporre i pennelli nell’astuccio e sollevò lo sguardo su di lui, perplessa.
            «E tu sei…»
            «Samuele. Ci siamo visti giovedì, alla serata di gioco di ruolo. Proprio lì, a quel tavolo.»
            «Oddio, sì, scusa! Tu eri quello che giocava il warlock, vero?»
            «Il barbaro. Ma va bene.»
            «Non sono brava con le facce. Che fai qui? Io ho partecipato al corso di pittura delle miniature.»
            «Cerco un gioco da regalare a mio padre.» Samuele girò attorno al tavolo al quale la ragazza era seduta, nel retrobottega del negozio di giochi, e si avvicinò alla parete, con i suoi scaffali stracolmi di scatole colorate. «Devo essere da lui tra mezz’ora. Non ce la farò mai a scegliere.»
            «Dai, ti aiuto io! Che tipo di giochi apprezza?»
            «Una volta gli piaceva sperimentare. Un bel po’ di tempo fa, quando ero piccolo. Mi ha detto che ultimamente gioca a carte o a Risiko con suo cugino e due vicini. Magari gli trovo qualcosa per movimentare un po’ le serate. Avevo pensato a Dixit
            «Ne ho sentito parlare ma non l’ho mai provato.»
            «È un po’ cervellotico ma valido. Devi fare dei ragionamenti su delle illustrazioni evocative. Insomma, uno dei vicini era un professore di filosofia. Magari è il suo genere. Anche se dovrei concentrarmi di più sui gusti di mio padre. E poi il cugino non è tipo da cose cervellotiche.»
            «Se giocano a Risiko puoi prendere qualcosa di strategico, tipo Terra Mystica.»
            Tirò fuori dallo scaffale la grossa scatola viola ma Samuele scosse la testa
            «Troppo lungo. E poi il gatto finirebbe per mangiare tutti i segnalini, e mio padre si irriterebbe perché gli ho regalato una cosa praticamente inutile.»
            «Shogun è molto bello.»
            «No, no, assolutamente no: devi fare la parte di un signore feudale che sfrutta i contadini. Lo prenderebbe come un insulto alle sue convinzioni.»
            «Ma è più tipo da gioco competitivo o collaborativo?»
            «È tremendamente competitivo nell’anima ma non lo vuole ammettere. Quindi dovrei regalargli un gioco collaborativo, perché se gli porto un competitivo magari pensa che sotto sotto lo sto accusando di essere un individualista. Certo, magari gli regalo un collaborativo e finisce che non si diverte, perché non è in grando di elaborare strategie di gruppo.»
            «Ci sono dei giochi che hanno entrambe le modalità. Ah, questo: Il sesto senso. Collaborativo, ma un giocatore ha un ruolo particolare e separato dagli altri.»
            Samuele prese in mano la scatola, la soppesò, la girò e lesse le specifiche del gioco.
            «Fantasmi» sospirò, rimettendola a posto. «Meglio lasciare la morte fuori da questo regalo.»
            «Quattro giocatori» riprese lei, instancabile. «Time Stories. Viaggi nel tempo e disastri temporali da risolvere.»
            «Questo potrebbe andare.» Lei gli porse una confezione enorme e tutta bianca. Non appena ebbe quel peso tra le braccia, glielo restituì subito. «No, aspetta. E se poi pensa che sia un maldestro modo di dirgli che vorrei tornare indietro nel tempo e mettere a posto cose che si sono irrimediabilmente rotte, quando so benissimo che ormai il passato è passato e…»
            Lei sollevò una mano, come per chiedergli la parola, e Samuele chiuse la bocca.
            «Senti, ma è davvero uno che ragiona così tanto sulle cose, tuo padre?»
            «No. Scusami. Ti sei offerta di darmi una mano e io ti sto annoiando con le mie paranoie.»
            «Ma no, figurati! E poi stiamo parlando di uno dei miei argomenti preferiti.»
            «So che è stupido, ma se azzecco il regalo, magari riesco a creare un’atmosfera migliore, e se lui è sereno e rilassato, forse non deciderà di tagliarmi fuori dalla sua vita per sempre, dopo che gli avrò detto...»
            «Secondo me ti stai facendo un film mentale drammaticissimo. Ma non è detto che le cose vadano così male, dai.»
            «Già. Lo spero. Non lo so. Credo che gli prenderò Dixit
            Lei scoppiò a ridere.
            «Quindi alla fine hai seguito la tua prima idea.»
            «Sì. Come sempre.»
            Samuele pagò e rimase ad aspettare che gli facessero il pacchetto, tamburellando con le dita sul bancone e cercando di distrarsi nella marea di colori e oggetti interessanti di cui era pieno il negozio. Finalmente uscì, corse fino alla stazione e riuscì a saltare su un tram un secondo prima che le porte si chiudessero.
            Si lasciò cadere sul primo sedile libero, sentendosi improvvisamente stanchissimo. Appoggiò la fronte al finestrino e chiuse gli occhi. Aveva voglia di scrivere a Damiano, o meglio ancora, di telefonargli, ma ne avrebbe fatto a meno, perché voleva affrontare quella situazione in maniera adulta, cavandosela da solo.
            Il tram si animò e cominciò a spostarsi lentamente. Ormai le cose erano in movimento e lui non poteva più sottrarsi. L’importante era arrivare. Anche se l’orario dell’appuntamento era già passato.
            «Mi scusi.» Una voce sottile alle sue spalle lo fece sobbalzare. «Non le sembra che abbiamo sbagliato strada?»
            Uno strano brivido gli percorse la pelle del collo. Gli arrivò il guizzo di un odore floreale e dolciastro. Lentamente si voltò per guardare chi l’aveva interpellato. Vide una piccola suora, anziana e pallida, con indosso un abito grigio chiaro, quasi argenteo. Fece per risponderle, quando si accorse che poteva intravedere le ossa sotto la pelle diafana. La bocca della donnina s’increspò in un sorriso ma gli occhi si erano fatti troppo grandi e neri. Una mano bianca e scavata salì fino a serrarsi come una morsa attorno al polso di Samuele.
            «Forse farai un po’ tardi, stasera.»
            Vedeva le vene pulsare sotto la pelle trasparente della donna. Guardava la mano chiusa attorno al suo polso e per qualche istante la curiosità sovrastò qualsiasi altra emozione. Avvertì a mala pena l’altra mano che strisciava a raggiungergli una gamba.
            Ebbe un sobbalzo quando si accorse che qualcos’altro gli stava afferrando la caviglia. Abbassò gli occhi e vide una terza mano, al termine di un braccio lungo e sinuoso, una spira bianchiccia apparentemente priva di ossa. Allora il lieve sbigottimento che lo aveva instupidito si dissolse e Samuele guardò bene in faccia l’essere che aveva davanti.
            «Suvvia, stai tranquillo» disse quella, con una voce roca da nonna fumatrice incallita. Il suo viso sembrava essere mutato: si era fatto come più liquido, più vago, come fosse stato in continua trasformazione.
            Come ho potuto pensare che fosse una suora?
            Adesso aveva lineamenti più giovani e capelli lunghi e chiari. Gli occhi erano rimasti gli stessi, così grandi da rendere disturbante l’osservazione di quel volto. Somigliava a qualcuno che conosceva. Ebbe come un capogiro e fu costretto ad appoggiare la testa al finestrino. Provò a respirare a fondo e si trovò a corto di fiato, con il battito cardiaco lanciato in una corsa furiosa.
            Un altro tocco lo raggiunse alla nuca. Ebbe la consapevolezza della reale consistenza di quelle mani: leggera, ovattata, appiccicosa.
            L’essere emise una risatina. Improvvisamente ricordò a chi appartenessero quel viso e quei capelli biondi: era l’infermiera odiosa che spesso accoglieva Damiano in ospedale.
            Si alzò di scatto, dando un forte strattone, e sentì le manine appiccose che si staccavano, lasciandogli però addosso tracce di qualcosa di biancastro e vischioso.
            Sembra zucchero filato.
            La creatura rise e si alzò in piedi. Samuele indietreggiò con un grido soffocato sulle labbra.
            «Ehi!»
            Crollò addosso a un tizio robusto e si riprese aggrappandosi a una maniglia del bus.
            «Mi scusi.»
            «Questo ha bevuto» commentò qualcuno.
            «Hai bevuto?» gli domandò la suora-infermiera, e emise un trillo acutissimo di risata. La risata della zia Rosa.
            Cercò di farsi largo fra la gente. Insulti e commenti seccati si unirono al riso sempre più martellante.
            «Per favore, posso scendere?» ansimò Samuele, raggiungendo la conducente. «Mi sento male.»
            «Tra un minuto ci siamo. Stia fermo. E cerchi di non vomitare.»
            Samuele si voltò e la vide che strisciava tra la gente, con la lunga gonna bianca che si allargava per terra come una pozzanghera collosa. Si appiattì contro la porta del tram, che in quel momento si arrestò a un semaforo. Samuele si passò una mano sulla faccia sudata. Il mezzo ripartì un attimo dopo, con uno scossone che gli fece rivoltare lo stomaco.
            Era a un soffio da lui. Allungò una delle sue manine tremolanti, ma il tram raggiunse la fermata.
            «Eccoci qui» disse l’autista.
            «Eccoci qui» gli fece eco la creatura.
            Samuele si gettò fuori, nella sera umida, correndo a testa bassa senza guardare nemmeno la strada. Un’auto gli tagliò la strada, evitandolo per un soffio. Una strombazzata furiosa gli rimbombò nelle orecchie. Corse senza fermarsi fino al palazzone grigio dove stava suo padre. Una volta entrato si rifugiò nell’ascensore che lo portò con estrema lentezza al sesto piano. Quando ne fu uscito si guardò le scarpe: vi erano rimasti impigliati filamenti biancastri.
            «Tutto bene?»
            Sollevò gli occhi con orrore, aspettandosi di vedere di nuovo la creatura. Invece c’era suo padre.
 
            Ogni volta che Bernardo fissava gli occhi sulla faccia deprivata di colore di Samuele, l’estraneità del figlio rimbombava nella stanza. Bernardo aveva aspettato così tanto quell’incontro, e ora non aveva idea di cosa dire o fare per non peggiorare ancora la situazione.
            Samuele affogava in un giaccone nero che evidenziava il pallore. Se l’era tolto appena entrato ma poi aveva voluto rimetterselo poco dopo, dicendo che gli faceva freddo. Eppure Bernardo aveva riscaldato la casa, e vedere il figlio che tremava lo mortificava. Ma Samuele gli aveva ripetuto di non preoccuparsi: gli sarebbe passato.
            No, non gli passava. Si stringeva nella giacca e faceva fatica a tenere la forchetta tra le dita. Si sforzava di aggiungere un commento a tutto ciò che Bernardo raccontava. Ma il calore era ben lontano da quella stanza. C’era stato un solo momento in cui il gelo si era attenuato: quando Samuele gli aveva dato il regalo.
            Samuele non aveva detto una parola su di sé. Aveva chiesto di tutti i parenti, sforzandosi di ricordare i nomi di quelli che non vedeva da più di dieci anni. Aveva mangiato ciò che Bernardo gli aveva messo nel piatto anche se pareva non avere fame. Stava di fronte al padre come un condannato, senza mai alzare la testa, e ogni tanto si voltava e lanciava occhiate al buio dell’atrio oltre la porta della cucina, come se si aspettasse di trovarci qualcosa.
            «Ne vuoi ancora?» Bernardo offrì il vassoio a Samuele ma lui scosse la testa e allontanò il piatto.
            «Senti, babbo, ti devo parlare.»
            «Certo. Siamo qui apposta, no?» Tentò una risata ma gli uscì male.
            «Non possiamo far finta che io non abbia fatto certe cose.»
            «A me interessa solo che ora sei qui.»
            «Non funziona così. Uno la verità la deve dire. Ti ho abbandonato quando la mamma stava male.»
            «Lavoravi tanto, in quel periodo.»
            «No. Scappavo e basta. Vorrei chiederti scusa, ma non credo che una cosa del genere si possa scusare. Capirei, se non ne volessi più sapere di me.»
            «Se non ne volessi più sapere di te, non saremmo qui.»
            Samuele respirò a fondo e mosse la testa, come per dire di sì, che prendeva atto di quell’affermazione e si sforzava di crederci.
            «Ho fatto un sacco di cose di cui mi vergogno. Mi dispiace. Odio la persona che ero. Vorrei dirti che sono cambiato, ma non è una cosa che si può dire. Te lo devo dimostrare. E se sono cambiato in meglio lo devo ad alcune persone. Una di queste è l’uomo con cui vivo.»
            «Il proprietario del negozio dove lavori, no?»
            Samuele abbassò la testa e gli scappò una specie di sorriso.
            «Non è solo quello. È il mio compagno.»
            Bernardo non sapeva che rispondere e il silenzio galleggiò tra loro finché un rumore lo spezzò, facendo trasalire Samuele. La porta dell’ingresso. Poi la luce dell’atrio si accese e Bernardo si alzò per vedere chi fosse entrato.
            «Rosa, che ci fai qui?»
            «Ho perso il cappello» rispose sua sorella, entrando in cucina. «Eccoti qui. Bentornato, eh? Era l’ora. E mi pare di essere arrivata proprio al momento giusto, visto quello che hai appena detto!»
            «Stavi origliando?»
            «Macché. Ero davanti alla porta e ho sentito, per caso.»
            Si tolse il cappotto e lo buttò su una sedia, posò la sciarpa sul tavolo e la borsa per terra e poi sedette accanto a Samuele.
            «Ma non ti vergogni? Torni dopo quasi dieci anni per dire che sei diventato gay!»
            «Non sono diventato gay, zia.»
            «Ma le donne ti piacevano!»
            «Mi piacciono ancora. Mi piacciono anche gli uomini.»
            «Ah, bene, non gli riesce bene nemmeno essere gay!»
            «Non è… Si dice bisessuale. Lascia perdere.»
            «Quindi devi stare con un uomo e con una donna?»
            «No, non è che mi piacciono tutti e due insieme! Sto con uno e basta!»
            «Rosa, perché sei dovuta venire?» mormorò Bernardo, nascondendo il viso tra le mani.
            «Perché ho perso il cappello e volevo vedere se era qui.»
            Bernardo non sapeva se infuriarsi con la sorella per essere piombata lì o esserle grato per aver squarciato l’immobilità di quella serata. Certo, Samuele non mostrava proprio entusiasmo nell’essere assaltato da Rosa. Ma almeno nel risponderle pareva aver riacquistato un po’ di energia.
            A un certo punto Samuele si interruppe a metà di una frase, sgranando gli occhi come per il terrore. Guardava i piedi di Rosa.
            «Cos’è quella roba bianca sulle tue scarpe?» bisbigliò.
            «Le mie scarpe stanno benissimo. Hai le allucinazioni?»
            Lui si alzò di scatto.
            «Devo… Torno subito.»
            Si precipitò nell’atrio e poi fuori dalla porta. Bernardo e Rosa si scambiarono uno sguardo e lo seguirono, ma non ebbero il coraggio di aprire la porta che Samuele si era richiuso alle spalle.
 
            Era stranamente umana, la forma che gli stava davanti. Era stata umanoide anche prima, quando gli si era presentata come un mosaico di facce e voci poco amate, ma adesso l’illusione era molto più efficace. Era umana nonostante il pallore mostruoso, le vesti ridotte a un groviglio confuso, i lineamenti incerti, come abbozzati su un foglio e poi cancellati e riscritti più volte. Era umana anche se gli occhi rimanevano troppo grandi e scuri. Era umana perché umanissima era la disperazione che pervadeva quel volto. E quando Samuele provò a indagarlo con più attenzione, ebbe per un attimo la certezza di essere di fronte a uno specchio.
            Avrebbe voluto distogliere lo sguardo ma non gli sembrava giusto. Aveva fatto tanta strada, per raggiungerlo. Lo aveva seguito giù dal tram, lungo la strada, su per il palazzo. C’era una tenacia encomiabile in quella presenza, sarebbe stato scorretto non ammetterlo.
            Il volto ora si era allungato e fatto più scarno, con quei fori neri gocciolanti oscurità che avevano imbrigliato lo sguardo di Samuele. La bocca era una specie di V rovesciata, un’incisione nella pelle bianchissima e fragile. Aveva una corona di capelli fatti di quello stesso materiale vischioso secreto dall’essere e lasciava ovunque tracce del suo passaggio. Una nuvola tossica, zucchero filato velenoso.
            Più fissava gli occhi del visitatore, più i suoi si facevano umidi e brucianti, come se avessero deciso di sfidare la luce diretta del sole. Ma nonostante il fastidio che rapidamente mutava in dolore, Samuele non si muoveva. Si stringeva nella giacca, puntando le mani dentro le tasche per arginare il tremito che ormai spadroneggiava per tutto il suo corpo. Ma non c’era alcun ristoro. Era assalito da un gelo incommensurabile, che andava ben oltre il banale concetto umano del freddo.
            Chi sei?, avrebbe voluto chiedere. Cosa sei venuto a prendere?
            Sperò che l’altro gli leggesse nei pensieri quelle domande: del resto, aveva già dimostrato di saperlo fare. Ma per il momento non sembrava più intenzionato a comunicare e pareva non volere altro che tenerlo lì fermo, separato da tutto, senza uno scopo. E Samuele non provava nemmeno a difendersi. E forse, poi, non c’era così tanta differenza tra quel freddo e quello dall’altra parte della porta alle sue spalle. E allora preferiva lo straniero dagli occhi grandi: il suo era un freddo che gli sembrava di conoscere ed era di sicuro meno doloroso.
            Si rigirava nei suoi pensieri come una pallina nel labirinto di un flipper e tardò ad accorgersi che l’altro si stava muovendo. Quasi non toccava terra, nello spostarsi, e aveva una sua grazia nel lambire appena il pavimento. Tutto cambiò quando gli fu proprio davanti. Un soffio raggelante gli si posò sulle labbra. Ora non aveva nemmeno più bisogno di toccarlo, per risucchiare via da lui qualunque cosa fosse venuto a reclamare.
            Poteva reagire? Probabilmente no. Non aveva le forze per opporsi a quella delicata condanna. Chiuse gli occhi e affondò le mani nelle tasche.
            Le sue dita si chiusero attorno a un piccolo oggetto. Una moneta.
            Un calore inspiegabile pareva sprigionarsi dal metallo contro la pelle. Samuele rigirò la moneta tra le dita, incuriosito dalla sua presenza e per un istante immemore della presenza muta ed esigente che gli respirava contro il viso.
            Lentamente, guidato più da un vuoto di pensieri che da una decisione consapevole, strinse la moneta nel pugno.
            Respirò a fondo, mentre il ritmo cardiaco cresceva. Non sapeva quale facoltà mentale stesse seguendo, in quel momento. Forse qualcosa di simile a un’intuizione.
            Le dita sul metallo. La stretta salda sul piccolo oggetto.
            Il gelo tagliente del respiro sconosciuto contro il suo viso. Era così vicino.
            Tirò fuori la mano dalla tasca, scattò all’indietro con il braccio e sferrò un colpo contro l’altro.
            La mano trapassò il tessuto biancastro. Una specie di strepitio ferito gli riempì le orecchie. I margini del materiale viscoso erano strappati e inceneriti dov’era passato il suo pugno, le sue dita parevano risplendere di una luminescenza dorata. Samuele la guardava, senza capire. A un certo punto lo stupore inebetito che lo riempiva diventò più forte persino della paura.
            E poi, pian piano la creatura cominciò ad appallottolarsi su se stessa, sfaldandosi in onde di nebbia e manciate di polvere che piovevano sulle piastrelle nere. Poi quei resti disparvero in un guizzo bianco contro l’oscurità.
            Samuele rimase immobile, riempiendosi i polmoni di più aria possibile. Si aspettava di vederlo tornare, ma non successe niente.
            Allora frugò furiosamente nella tasca interna del giaccone e trovò il telefono. Dopo tre tentativi riuscì a chiamare Damiano.
            «Tutto bene?»
            «C’era una cosa…» Si fermò, senza fiato.
            «No, non va tutto bene.»
            «A guardarla mi sembrava che non ci fosse nessuna possibilità di futuro. Che tutte le parole e le buone intenzioni e le promesse fossero inutili, che…» Si interruppe, consapevole di stare dicendo cose senza senso. «Scusami. Non so cosa fosse. Mi ha spaventato. Ma ora sto bene.»
            «Ce ne sono molti, di esseri simili.» La normalità che il tono di Damiano sembrava suggerire gli fu di conforto. «Ti seguono e cercano di portarti via qualcosa. Ora come stai? L’hai mandato via?»
            «L’ho colpito e si è disfatto. Credo sia stato merito di una moneta. Era l’unica cosa che avevo in tasca. Ha senso?»
            «Una moneta? Ma cosa indossi?»
            «La giacca che mi hai regalato.»
            «Quella che era buona “giusto per andare a teatro o una festa di Halloween”?»
            «Non rompere. Sì, quella.»
            «Ho capito. Diciamo che ti succederà ancora, di trovare in tasca proprio quello che ti serve. Comunque non è insolito, esorcizzare certe presenze con un oggetto significativo.»
            «Era solo una moneta da un euro.»
            «Si vede che era un euro significativo. Vuoi che venga lì?»
            «No, tranquillo. Ci vediamo dopo.»
            «Ti aspetto in auto sotto casa di tuo padre.»
            «Ma no, dai, torno da solo.»
            Chiuse la conversazione certo che Damiano avrebbe fatto il contrario. Restò qualche momento a chiedersi cosa avrebbe dovuto fare. Rientrare e parlare con suo padre era l’unica risposta sensata. Tanto ormai il più era già fatto.
            Suonò il campanello e la porta si spalancò immediatamente.
            «Tu hai proprio qualche problemino, eh» disse la zia.
            «Samuele, va tutto bene?»
            Lui annuì (la risposta affermativa andava bene per entrambi), entrò e chiuse la porta. Improvvisamente la casa gli sembrò caldissima.
            «Scusate questo… Questa…»
            «Questa sceneggiata isterica?» suggerì la zia.
            «Qualunque cosa fosse, scusatemi. È che ho paura. Vorrei ricostruire un rapporto con la mia famiglia, ma so che ho molto da farmi perdonare.»
            «Altroché!» esclamò Rosa. «Ma lo sai che ne parlano ancora tutti? C’era la famiglia intera da parte del babbo. C’era mezza Serbia! C’era un intero campo Rom nella piazza della chiesa!»
            «Lo so.»
            «Non solo hai lasciato da solo il tuo povero babbo mentre quella disgraziata che ha avuto la sfortuna di metterti al mondo stava male, ma nemmeno…»
            «Lo so. Lo rimpiangerò per tutta la vita. Ma in quel periodo era come…» Le parole erano sfuggevoli e inservibili. Annaspò, in cerca della frase definitiva che gli avrebbe permesso di trovare comprensione e perdono. Poi decise provare semplicemente con la verità. «Come se avessi venduto l’anima al diavolo. Adesso l’ho ritrovata, l’anima, ed è merito di Damiano. So benissimo come sono considerate certe cose, nella nostra famiglia. Però, se di tutto il resto mi vergogno, di questo no.»
            «Senti…»
            «No, ora parlo io.» Suo padre tagliò la strada a Rosa e la sua voce incerta si impose. «Non sono così stupido da preferire di perdere un figlio solo per tenermi il rancore. E per quanto riguarda questo tuo amico… Fammi un pochino abituare all’idea, va bene?»
            Samuele mosse appena la testa per annuire.
            «Ora mettiti a sedere, levati quella giacca e prendi il caffè.»
            Obbedì, contento che qualcuno gli avesse detto cosa fare. Buttò la giacca su una poltrona e udì un miagolio risentito: non aveva riconosciuto il gatto di suo padre, grigio tra i cuscini scuri. La bestia, la cui esistenza fino ad allora era stata solo teorica, per lui, gli balzò ai piedi. Fu sprezzante per qualche momento, poi gli si strusciò contro le gambe, in un moto di inaspettata confidenza.
            «Che strano. Di solito non gli piace nessuno. Non si era neppure degnato di farsi vedere fino a ora» commentò suo padre.
            «Sarà gay anche il gatto.»
            «Rosa!»
            «Senti un po’: se questo tizio me lo porti al pranzo di Natale, vi butto fuori di casa tutti e due!»
     «Guarda, zia, non è molto tipo da pranzi di Natale.»
            «Alla Luciana non glielo diciamo, che già di cuore sta messa male, e nemmeno alla zia Nanda, che a novantaquattro anni ne ha viste abbastanza, di cose strane in vita sua.» Rosa gli si piazzò accanti. Samuele cercò aiuto in suo padre, ma lui si era spostato ai fornelli per fargli il caffè.  «Invece a Maria glielo dico subito, così magari è la volta buona che le prende un colpo.»
            «Rosa, lo lasci stare due?» sospirò suo padre.
            «Al pranzo di Pasqua la Luciana e la Nanda non vengono mai, ma mi sembra comunque un po’ eccessivo, portarcelo. Diciamo che può passare per il caffè.»
            Samuele ebbe una visione di Damiano in gonna di pelle, calze a rete, tacchi alti e ombretto glitter in mezzo ai suoi parenti. Lo immaginò prendere una delle adorate tazzine di porcellana della zia Rosa con le sue dita lunghe dalle unghie smaltate di nero, e gli salì un sorriso alle labbra.
            Il gatto intanto era balzato sul termosifone, scostando la tenda quanto bastava per mostrare la notte bombardata dalla pioggia. Improvvisamente soffiò, come di fronte a un nemico.
            «Dicono che quando i gatti fanno così, hanno visto uno spettro» disse Rosa.
            Samuele incrociò lo sguardo della bestia e per un istante condivisero la profonda consapevolezza di tutti gli spettri che il mondo conteneva.
 





Grazie di essere qui!
E con questa, si conclude la mia auto-sfida per questo COW-T, in aggiunta alle sfide ufficiali: scrivere ogni settimana di un coming out col padre.
(perché se c'è una cosa che ti fa paura, scriverci sette storie a volte può essere un buon modo per farti trovare il coraggio. Con me ha funzionato.)
Una piccola nota: quando la zia dice che "c'era un intero campo Rom nella piazza della chiesa" è un suo modo maldestro di ricordare il fatto che la mamma di Samuele era Rom e che al funerale c'era tutta la sua famiglia e tantissimi conoscenti. Rosa è un personaggio che si esprime senza alcuna delicatezza e con un po' di ignoranza (vedi tutte le sue uscite omofobe), per cui l'ho fatta parlare così, ma naturalmente non c'era alcun intento dispregiativo o altro. Semplicemente, è un riferimento all'etnia di Mirsada, la mamma di Samuele (e quindi in parte anche all'etnia di Samuele stesso), senza giudizio. Mi sento di specificarlo, visto quanto facilmente si cade in errori relativamente al modo in cui parliamo degli altri, ecco.


Licenza Creative Commons
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale.
   
 
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale / Vai alla pagina dell'autore: Harriet