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Autore: Mirajade_    31/03/2020    0 recensioni
Raccolta di one-shot, in ordine cronologico, che vede protagonisti Angela Ziegler e Genji Shimada (subito dopo essere diventato un cyborg).
Le storie racconteranno il percorso della relazione tra i due dal loro primo incontro.
[GenjixMercy]
***
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Genere: Introspettivo, Romantico, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Genji Shimada
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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My heart's an artifice
I'd make you look, I'd make you lie
I'd take the coldness from your eyes
But you told me, if you love me
Let it die

(Let it Die - STARSET)
 
Quel giorno il quartiere generale sembrò emanare un’aria fredda, quasi angosciante osò pensare Angela mentre con passo affrettato si apprestava a seguire la figura composta e austera del nuovo medico della divisione Blackwatch: Moira O’Deorain.
Sguardo annoiato e braccia incrociate dietro la schiena attraversava i corridoi della centrale svizzera non curandosi minimamente della biondina al suo fianco, che a fatica riusciva a mantenere il suo passo, quasi come fosse un inutile moscerino e infondo, Moira, lo pensava ma malamente riusciva a camuffare la sua espressione saccente mentre ascoltava Angela parlare. Fu quasi tentata di terminare quello che lei definiva sproloquio con un commento acido sulla figura professionale di Mercy ma si limitò a far ticchettare le scarpe sul pavimento ghiacciato sperando riuscissero a coprire la voce della svizzera.
Quest’ultima fu tentata più volte di rifilare malamente le cartelle mediche della Blackwatch alla donna al suo fianco senza curarsi dei dettagli ma si disse più volte che si trattava pur sempre di persone che erano state suoi pazienti e non avrebbe mandato all’aria la professionalità per una scienziata dalla sensibilità umana alquanto minima.
Ancora ricordava la sua irruzione nello studio del comandante Morrison per discutere di quella pessima idea nel trasferire la dottoressa O’Deorain nella divisione citata ma lo stesso comandante aveva proferito parola su come il trasferimento fosse una richiesta di Reyes e sul fatto che avrebbe giovato anche alla svizzera vista l’enorme mole di lavoro nella ricerca e con i pazienti, a cui era sottoposta.
-Hai sentito quello che fa nelle sue ricerche, Morrison- aveva proferito – Come puoi fidarti di una donna che usa i suoi pazienti come cavie per… per creare degl’esseri ammazza uomini. Non posso credere che…-
-Il lavoro di Moira come medico della Blackwatch sarà proprio quello del medico, Angela. I tuoi pazienti non saranno usati come cavie; in ogni caso non si hanno prove su quello che tu affermi, giusto?- le disse ovvio irritando non poco Mercy.
Il solo ricordo di quella discussione era capace di smuoverle una sensazione di puro fastidio dentro, mentre guardava la figura glaciale di Moira soffermandosi sulla mano destra dal colore violaceo quasi fosse un pezzo di carne morta.
Terminò l’ultima informazione sul braccio prostetico di Mccree prima di tastare un punto dolente: - Vorrei che mi informassi di tanto in tanto sulle condizioni di Genji Shimada. Il suo corpo sembra stabile ma non è raro che sorgano complicanze con gli impianti di termoregolazione e le gambe-
Moira sorrise aspra, quasi divertita – Ziegler – proferì – Trovo alquanto inappropriato relazioni di tipo romantico con i propri pazienti. Il fatto che tu voglia camuffare il tutto dietro la maschera della dottoressa apprensiva e alquanto…squallido, oserei dire-
Angela sentì chiaramente la rabbia colorarle il viso e la vergogna comprimerle lo stomaco. Avrebbe voluto risponderle a tono ma sapeva che qualunque frase avrebbe tentato di formulare sarebbe uscita balbettante e fin troppo enfatica. Si limitò quindi ad agire come la testa le aveva imposto fin dall’inizio, da quando aveva avuto la grande idea di presentarsi nello studio di Moira armata di finto sorriso: schiantò le cartellette contro il petto della donna con un –Congratulazioni per il trasferimento-

***
Schegge di legno.
Ecco cosa rimaneva dei fantocci utilizzati per il tiro a segno.
Nella stanza d’allenamento affidata alla divisione clandestina poche luci erano accese, quanto bastava per il ninja per intravedere i suoi bersagli inanimati, in una penombra tale da essere angosciante se Genji in quel momento avesse avuto una frequenza cardiaca nella norma e la muscolatura rilassata. Ma tutto ciò che sembrava costruire e controllare il suo essere sembrava essere offuscato da una sensazione di rabbia fitta e densa come nebbia. Tra le iridi il volto furioso del fratello.
Hanzo mentre sguianava la spada.
Hanzo mentre affondava la katana nel suo stomaco e la ritraeva per infliggerli moltitudini e incessanti tagli profondi sulla pelle.
Hanzo che con sguardo liquido lo abbandonava lì, nel tempio, nel suo sangue e nelle sue lacrime.
Sangue del suo sangue.
La sua mentre sembrò produrre solo pensieri e scene venefiche come se gli si fosse rivoltata contro e tentasse di fargli raggiungere l’apice della pazzia. Voleva urlare, aprirsi il cranio in due ed estirpare a mani nude ogni ricordo, ogni sensazione e sentimento. Desiderò realmente di essere solo un ammasso di circuiti, per la prima volta dopo aver fatto i conti con il suo corpo.
Perché?
Perché suo fratello era arrivato a tanto?
Perché suo padre lo aveva abbandonato, lasciando tutto in mano sua?
Se solo Sojiro avesse potuto vivere più lungo lui sarebbe ancora umano, la sua mente cristallina e suo fratello non sarebbe un mostro che a tutti costi avrebbe voluto far fuori con le sue stesse mani.
E ricordò suo padre: i capelli neri sbiaditi, le sopracciglia folte e il taglio d’occhi deciso come quello di Hanzo. Suo padre però riusciva ad ammorbidirne ogni singolo dettaglio.
Si premette con forza le dita sulle tempie, digrignando i denti in una smorfia incollerita… aveva bisogno di un bicchiere d’acqua, ma il tragitto verso la cucina della base sembrò lungo abbastanza da farlo ricadere nuovamente in quel baratro di ricordi.
Quando afferrò il bicchiere nella debole luce della cucina ebbe modo di vedere quanto effettivamente stesse tremando, si lasciò scappare un urlo battendo malamente il bicchiere sul ripiano della cucina, facendolo esplodere in grossi cocci di vetro.
Chiuse gli occhi, doveva calmarsi o sarebbe impazzito.
I volti dei suoi familiari che si susseguivano e ripetevano.
Gli parve di vedere suo madre stringerlo a se, così bella e pacata con le labbra sottili che tanto gli ricordavano le sue.
-Genji- e finalmente i ricordi sembrarono svanire, paralizzandolo. La voce di Angela sembrò stordirlo; non volle voltarsi.
Poi la mano della ragazza si appoggiò delicata sulla sua, su quella ancora viva, fatta di carne e sangue e sembrò trasferirgli sottopelle una calma che aveva bramato fin troppo in quelle ore di solitudine con la sua mente.
-Ci sono io con te- continuò la dottoressa e si ritrovò a singhiozzare, lui, assassino senza scrupoli, contro la spalla della ragazza. Sentì la sua mano accarezzarle i capelli e il suo cuore battere ad ogni sua lacrima, con lentezza inaudita.
Era veramente un angelo... il suo.
La guardò in quegl’occhi cerulei, lucidi come perle e si lascio carezzare su quelle cicatrici che aveva odiato vedere infinite volte davanti lo specchio.

***
All’ennesima unghia spezzata Angela sbuffò spazientita. La vista che dava il quartiere generale verso l’esterno si era marchiata con decisione nella sua mente, tanto da immaginare la vista dell’Orca nel cielo buio, in procinto di atterrare.
La notizia dell’attacco di Blackwatch a Venezia l’aveva scossa tanto da non permetterle più il proseguimento delle sue ricerche, lasciate su un pc che aveva deciso di spegnersi.
Da quel momento sarebbe andato tutto in malora, giusto?
La gente adesso sapeva e Overwatch sarebbe stata gettata nell’ombra.
Un peso sembrava essersi posato sul suo cuore, sulle membra stesse e pensò ad Ana e Jack, i quali avevano speso anni, tempo e rapporti nel costruire quella che adesso era diventata Overwatch. Non poteva, non voleva immaginare il dolore che avrebbero provato nei giorni a seguire.
Ricordava ancora il suono sordo del pugno di Jack sul metallo di un tavolo circondato da coloro che si erano rivelati una famiglia per lei. Neanche Reinhardt aveva osato sdrammatizzare la situazione come al suo solito e quell’angoscia sul viso di Lena stonava, si era detta.
Poi, in un attimo, si ritrovò fuori al gelo, sotto un cielo nero, opaco di nuvole.
L’Orca che atterrava e il comandante Morrison con un ombra di rabbia sul volto, dietro di lui Ana rimaneva in allerta pronta a interrompere il peggio.
Quando Reyes uscì dalla nave si ritrovò per poco tempo con i piedi per terra, con una guancia contusa e occhi vividi di furia, ma non parlò né tantomeno rispose al pugno assestato dal comandante, sapeva di non avere scusanti. Al suo fianco Jesse tremava nervoso volgendo lo sguardo altrove da quella scena che Moira avrebbe definito patetica.
Lo sguardo di Genji era pacato, fin troppo. Lo sguardo di chi si era rassegnato al proprio destino e da cui ne traeva costantemente giustificazione.
Angela sentì la delusione gelarle le vene non captandone realmente perché, neanche quando lo seguì lungo il corridoio freddo aspettandosi una spiegazione che agl’occhi della dottoressa l’avrebbe fatto vedere come una vittima, ma niente di tutto ciò parve succedere e i passi di Genji le sembrarono sempre più rilassati.
Le luci erano fioche in quel punto del corridoio, le lampadine quasi bruciate.
-Non ti rendi conto di ciò che avete fatto, vero?- gli chiese fermando il tragitto del ninja, il quale si limitò a voltare di poco la testa verso la sua direzione –Si- continuò Angela –Si, che lo sai. Eppure non te ne importa nulla. Come puoi rimanere così… così impassibile davanti alla consapevolezza di aver ucciso, di nuovo- e marcò le due ultime parole.
Gli occhi di Genji brillarono di un rosso particolarmente vibrante, le sopracciglia piegate in una smorfia furiosa –Sono un assassino- disse ovvio
-No che non lo sei!- gli urlò la donna contro e fu la prima volta. L’eco della sua voce ferita fu dilaniante per il cyborg -La tua è solo  una dannata scusa- tremò visibilmente e forse fu la fermezza con cui si disse di non piangere –Dai colpe al tuo passato, alla tua famiglia, al tuo clan perché pensi sia l’unico modo per giustificarti da quello che sei diventato-
-Beh, come avresti reagito tu se ti fossi risvegliata un ammasso di rottami?- le chiese velenoso.
Angela tacque.
-In ogni caso non cambia quello che sono- continuò il ninja –Un assassino. Sono sempre stato addestrato per diventare quello che sono ora, fattene una ragione. Tu…- e parve bloccarsi un istante –Hai permesso anche che diventassi ciò-
Mercy parve vederlo sfocato -Ti ho salvato la vita- pronunciò quasi singhiozzando. La gola le andò in fiamme.
-Allora fai i conti con questo- fece per andarsene ma la sensazione delle braccia di Angela intorno al suo corpo lo fermarono. Percepì chiaramente la fronte della dottoressa poggiata tra le sue scapole e quei singhiozzi, che tanto aveva temuto di sentire, uscire dalle sue labbra. Eppure lui, quelle parole le aveva dette.
L’odore della ragazza gli arrivò dritto alle narici, qualcosa che gli aveva sempre ricordato gli agrumi.
Avrebbe voluto voltarsi, scusarsi, stringerla a se e dirle quanto gli dispiacesse di tutto, ma sarebbe stato ipocrita no? Come poteva rifilarle parole che lasciassero intendere un benessere che non esisteva, che faticava a raggiungere nelle condizioni in cui la sua coscienza si trovava. Coscienza che sembrava tacere solo quando agiva come suo fratello avrebbe voluto che fosse fin dall’inizio.
-Ti prego Genji- gli disse – Sei migliore di così, credimi. Sei buono, unico, vorrei solo che riuscissi a scacciare via i tuoi tormenti perché non fanno di te quello che sei- sospirò, mordendosi le labbra come a voler fermare quel flusso di pensieri che prendevano vita tra le sue labbra -Io ti amo- disse ingoiando una tristezza che aveva iniziato a prendere forma.
Lì, sotto la luce fioca di una lampadina sul punto di bruciarsi, aveva detto qualcosa che aveva tentato di negare con fermezza nei giorni in cui la presenza, la risata e la paura di Genji erano diventati i tasselli del suo cuore.
Sentì le mani del cyborg sulle sue, e la presa venire meno.
- Tenti troppo di vedere il buono dove non esiste- proferì Genji aggiungendo alla voce dei suoi rimpianti lei. Lei che sapeva attenuare quella malignità che non gli apparteneva, lei i cui sguardi sapevano lenire quelle ferite che mai se ne sarebbero andate.
E se ne andò portando con se i frammenti di un cuore spezzato.
 
   
 
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