Salve
gente! E’ la prima volta che mi cimento in qualcosa sul Fantasma dell’Opera
(cioè, ho due fanfiction quasi concluse, ma non ho mai pubblicato niente, ecco
XD), ma ho trovato Challenge
indetto da Frøzen su Oscar Wilde [ancora complimenti per l’idea!] e
l’ispirazione è arrivata istantanea! *-* Forse sarò un po’ banale, ma come ho
letto queste splendide frasi ho pensato subito a lui.
Le
citazioni utilizzate sono fondamentalmente due (una da Il Ritratto di Dorian Grey e l’altra generale di Wilde) e le potete
leggere all’inizio della one shot. L’ultima, in particolare, l’ho trovata
perfetta per il Fantasma. *_*
E il luogo
che va in coppia con la prima citazione è: strade di bassifondi.
Spero
sia di vostro gradimento. :)
Marta.
The
Phantom of the Opera.
Nessuno.
Non seppe bene dove stava andando. Si ricordò di aver vagabondato per
stradine mal illuminate, di esser passato accanto a portici oscuri e a case
dall'aspetto sinistro. Donne dalla voce rauca e dalle aspre risate lo avevano
richiamato. Ubriachi vacillavano bestemmiando e parlando con se stessi come
scimmie mostruose.
[Il Ritratto di Dorian Grey]
Non vi è alcuna ragione per cui un uomo debba mostrare la sua vita al
mondo. Il mondo non capisce.
[Oscar Wilde]
C’era una cosa che lo faceva sentire piacevolmente
rilassato quando usciva dalla sua dimora e lasciava tutto alle spalle: non era
più l’uomo che tutti odiavano, non era più il Fantasma che infestava il teatro,
seminando il terrore tra le ballerine ed i manager.
Semplicemente
era Nessuno.
Il
buio e le ombre erano sempre stati i suoi più fidi compagni durante la sua
vita, lui stesso vi si mimetizzava per passare inosservato e non farsi scoprire
ad origliare e spiare chiunque potesse ostacolargli il cammino. Non c’era
giorno e luce per lui, ma solo un’infinita notte scura che sperava in un timido
raggio di sole.
Ma
quale alba avrebbe potuto illuminargli la vita?
Era
un’anima dannata, costretto a vivere all’ombra di un mondo che ignorava la sua
sofferenza e il suo genio, e che proseguiva per la sua via, fatta di ipocrisia
e beni materiali. Uomini e donne dell’alta aristocrazia lottavano ogni giorno
per ostentare ricchezza e sfarzi, sacrificavano la loro liquidità per
acquistare gioielli e tenute di lusso, cavalli e abiti sontuosi, per prepararsi
al meglio alla successiva serata lirica di Parigi.
Per assistere
a cosa? Alla sua musica. Al suo genio.
Se
solo avessero saputo che tutto quel teatro era sotto il suo più totale
controllo… Forse sarebbe scoppiato a ridere di sincero divertimento per la
prima volta in vita sua nel vedere i loro volti scioccati per la notizia.
Ma
quegli uomini che di giorno erano impeccabili nei loro panciotti ricamati e nei
loro completi di seta tirati a lucido, quegli uomini che erano i primi a
sputare sentenze su chiunque osasse fare o dire qualcosa fuori dalla
consuetudine, ebbene, quelli erano gli stessi che passeggiavano furtivamente
per le stradine più sporche e nascoste alla vita diurna. Quelle stradine
illuminate da fioche luci dai colori caldi che indicavano l’ingresso di qualche
circolo del piacere; quelle stradine silenziose, dove solo i gemiti soffocati
dei clienti e le risate di qualche ubriaco risuonavano come delle eco lontane.
Sembrava quasi che Parigi fosse lontana chilometri e chilometri, che
addirittura quella non fosse
Gli
uomini che vedeva, ma che non lo vedevano,
erano Conti, uomini d’affari, avvocati e medici in vista, che di notte lasciavano
sul letto di casa il loro appellativo, per dedicarsi a ciò che di più proibito
ci fosse.
Chi,
allora, poteva curarsi di un altro uomo incappucciato, ammantato di nero, i cui
occhi erano la sola cosa che brillavano nel buio?
Nessuno, si rispondeva. Nessuno avrebbe
fatto caso a lui, neanche i gendarmi che scopriva in qualche bettola a
divertirsi, anziché lavorare al servizio della sicurezza cittadina. Con che
coraggio, poi, osavano dargli la caccia?
Lo
disgustava sapere che chi pareva essere il migliore e rispettabile uomo, con una
bellissima donna al proprio fianco, potesse distruggere tutto così, per la
sciocchezza di una notte, o il desiderio di evadere da quella vita che andava
troppo stretta.
Anche
lui odiava la sua vita, odiava Dio per avergliela affidata. Anche lui avrebbe
preferito essere al posto di quegli uomini che potevano permettersi di uscire
alla luce del sole senza essere giudicati per il loro aspetto mostruoso, senza
dover nascondere il proprio volto dietro una maschera. Ma a differenza loro,
lui non avrebbe tradito la donna amata, viceversa se solo avesse potuto amare
alla luce del sole la sua piccola Christine, il suo Angelo, era certo che le
avrebbe donato la vita prima di farlo od osare anche solo pensarlo.
Ma chi era lui per giudicarli?
Nessuno.
Una
voce femminile, sensuale e roca, lo richiamò da una finestra, mentre la ragazza
fumava languidamente una sigaretta consumata. Lui si fermò in mezzo al vicolo a
guardarla, senza una parola. Era giovane, troppo giovane, si disse, e bella; ma
di una bellezza sciupata e una gioventù volata via prima del tempo. Forse aveva
la stessa età della sua bimba smarrita.
Riprese il cammino, mentre quella rideva
sommessamente, probabilmente ubriaca e sotto l’effetto di qualche sostanza. Girò
l’angolo e si ritrovò nell’ennesimo vicolo buio, incorniciato da palazzi
fatiscenti e cadenti. Neanche lui sapeva bene dove stesse andando; erano i suoi
piedi che per inerzia camminavano su quei ciottoli sporchi e umidi,
indicandogli la via da seguire. I suoi passi erano lenti e cadenzati, come se
avesse tutto il tempo a disposizione davanti a se. E in un certo senso era
così.
Alzò
lo sguardo al cielo plumbeo e scuro, senza l’illuminazione della luna e delle
stelle. Probabilmente sarebbe piovuto a momenti, proprio come faceva da una
settimana a quella parte. Aveva sentito dire che l’acqua di quei giorni aveva
inzuppato troppo i terreni delle campagne, rovinando i raccolti e le vigne. E
lui che avrebbe dovuto dire del fatto che avesse l’acqua in casa tutto l’anno?
Si
ritrovò a sollevare un sopracciglio nel guardare un uomo seduto per terra,
contro il muro di uno dei tanti palazzi anonimi di quel quartiere. Era vecchio,
o almeno sembrava, con una lunga barba grigia e sporca, gli abiti altrettanto
luridi e una bottiglia di alcol che agitava pericolosamente in una mano. E, tra
un insulto e un esclamazione contro qualcuno invisibile accanto a lui,
canticchiava una canzoncina che non aveva mai sentito e che con molte
probabilità era inventata sul momento.
«Ehi…
tu… incappucciato!», lo richiamò il vecchio. Gli mostrò una sigaretta rovinata
e sciupata. «Hai da accendere?»
Storse
il naso nel sentire l’alito puzzolente del vecchio arrivargli alle narici;
tuttavia gli rispose che no, non aveva da accendere. Neanche fumava, lui.
Il
barbone abbassò lo sguardo e guardò con espressione vacua la sua sigaretta
spenta. Borbottò qualcosa tra se e se che lui non capì, ma non osò fiatare. Non
seppe il perché rimase lì a guardarlo per minuti, senza che il vecchio se ne
accorgesse, ubriaco fradicio com’era, ma quel povero disgraziato lo fece
riflettere.
Cos’era
la sua vita, se non un vagabondare continuo nella speranza di racimolare
qualche soldo per vivere? Quell’uomo sarebbe potuto diventare importante, se
solo il mondo si fosse accorto di lui, se solo la società non l’avesse
rifiutato per qualche assurda ragione. Eppure lui era lì, apparentemente disinteressato
alla vita altrui che gli scorreva davanti agli occhi, umiliandosi con le sue
stesse mani nel mostrarsi agli altri in quello stato pietoso. Così come
indifferente era chi lo guardava con pietà o con orrore, senza alzare un dito
per aiutarlo in qualche modo.
No,
lui non avrebbe mai sopportato una situazione del genere. Preferiva nascondersi
nella sua dimora sotto il teatro, la sua vera casa, e dedicarsi a tutto ciò per
cui viveva: la musica. Non c’era ragione alcuna per cui uno come lui dovesse
mostrare al mondo la propria vita, fatta di sofferenze e sacrifici. Il mondo
non capiva, ne mai avrebbe capito l’uomo che si nascondeva dietro il mostro.
Quando
decise di tornare a Teatro erano le quattro del mattino. Pioveva leggermente,
ma lui non se ne curò, continuando a camminare lento, fuori da quel meandro di
strade dimenticate da Dio.
Nessuno era sparito, come tutte le volte,
e lui era semplicemente tornato ad essere il Fantasma che tutti temevano, che
dovevano temere.
Anche
se, a ben vedere, non c’era poi così tanta differenza.
Note dell’autrice.
Ho
sempre immaginato che il Fantasma, nelle sue lunghe ed infinite notti passate a
comporre la sua splendida musica, desiderasse anche fare due passi nel momento
del giorno in cui nessuno avrebbe fatto caso a lui o al suo viso nascosto; ma
non perché volesse toccare con mano la vita fuori dal teatro, ne perché
sentisse il bisogno di avvicinarsi a quel genere di cose, ma forse solo per
auto convincersi che il mondo da cui si era allontanato quando ancora era un
ragazzino non era poi tanto cambiato e che lì, nel suo teatro, era più che al
sicuro. Del resto, non ce lo vedo Erik che si piange addosso perché non può
essere un uomo aristocratico o desiderabile dalle donne, piuttosto credo che
possa solo essere arrabbiato ed infuriato con quello che sta fuori dalla sua
casa. Quindi non leggete la sua “scappatella” come la voglia di evadere, ecco,
ma solo il suo modo orgoglioso di dirsi: “Avevo ragione”.
Tanti
giri di parole e magari non ho detto nulla, vabbè. XD
Spero
di non aver fatto così schifo, è la prima volta che mi cimento in un
personaggio caratterialmente difficile come lui :°
Sparisco,
gente! Ci si legge, e un grazie a chi leggerà o addirittura azzarderà un
commento! ;)
Marta.
PS: grazie a Frozen per avermi fatto notare le sviste e l'orrore che ho scritto (mi sto ancora chiedendo come diavolo mi è venuto in mente di scrivere "avrebbe piovuto"!), e ne approfitto per ringraziare tutti coloro che hanno letto e rinnovo il ringraziamento anche ai tre angioletti che hanno lasciato una recensione (a cui ho risposto con una mail ;) )!
Grazie carissime! :*