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Autore: ireland3    01/04/2020    15 recensioni
La sera dello strappo è stata raccontata sotto molte sfaccettatura, e resta sempre un "must".
Questo piccolo racconto narra la mia visione...
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Oscar François de Jarjayes
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Prima era fuori di lei, adesso era fuori da lei. Solo questo capiva, solo questo sapeva.
Nel buio fitto della sua alcova, ogni rumore restava ovattato. E quel fischio che le ronzava imperterrito nelle orecchie, le diceva che stava ancora decidendo cosa fare: restare lì, accoccolata su sé stessa, oppure alzarsi, sfidando il fresco del silenzio notturno. E ricomporsi, lisciando ogni piega del suo vestito buono, della sua facciata inappuntabile. Il sale delle lacrime nate nel momento del mancato oltraggio, le aveva bruciato la gola, lasciandola singhiozzante e afona. Grattava spietato, formando una scia profonda che solcava le gote, sino a diventare freddo e solido, come la cera che colava dalle candele morenti poggiate sopra il cassettone lì davanti.
Ne era sicura, se n’era andato. Dopo tutta la furia, i battiti del cuore come tuoni che squassavano il petto, la frenesia di ogni attimo convulso, da non capire più com’era iniziata e come sarebbe finita, se n’era andato in silenzio. Rapido, si era spogliato della vergogna, per rivestirsi della pesante coltre del dannato dolore. Aveva accostato piano la porta. E nella sospensione silenziosa del respiro macchiato di pianto, le imposte avevano iniziato a sbattere furiosamente, preda del vento improvviso di fine inverno.
Non poteva restare così. Immobile, come uno scoglio che cambia la forma nel tempo, frustato da onde arrabbiate e dominanti. Fece leva sulle braccia, artigliando le lenzuola sgualcite, scostando quel lembo di stoffa che aveva l’ardire di coprirla e prese atto delle sue fragilità ancorandosi al bordo del letto, leccando quel che restava delle lacrime approdate in punta di labbra. Avrebbe iniziato da quelle, alle ferite dell’anima, subite ed inflitte, ci avrebbe pensato poi.
Si mise a sedere, cercando di mettere bene a fuoco tutto ciò che la circondava. Come se la stanza stessa fosse cambiata, testimone unica di quanto era da poco accaduto e le sussurrasse dentro verità scomode e difficili da gestire. Troppe cose erano successe, troppe persone si erano affollate nelle loro vite.
Sorrideva amaramente Oscar. La sera prima, quel confronto aperto nella stalla. Dopo un momento di malinconica nostalgia, gli aveva quasi urlato in faccia che voleva riprendere sé stessa. La sé stessa di allora, quando essere bambina veniva coniugato al maschile e questo le regalava la beata inconsapevolezza, l’incapacità di riconoscere l’amore. E la rendeva libera dalla passione e dal cieco dolore, dall’estasi  e dall’inganno. Dal rischio, che comporta innamorarsi, di essere traditi, di non venir corrisposti. Di diventare palesemente fragili.
Aveva taciuto, lui. Silenzioso come negli ultimi tempi soleva essere. Non gli aveva chiesto un parere, non gli aveva detto che si sentiva fallita come donna, quindi tanto valeva fare l’uomo. Per meglio dire, il soldato. In grado di sfoggiare solo forza e determinazione, ed uno scudo di freddezza dietro il quale pensava di nascondere ogni suo sentimento per non esporre il fianco allo stesso nemico che l’aveva tradita: sé stessa.
Non l’aveva osservato bene. Non abbastanza. Presa dalla foga di rovesciargli addosso i suoi intenti, gli aveva dato le spalle ed era uscita fuori, incontro alle luci aranciate del tramonto che stava apparecchiando il cielo alla sera imminente.
Se ne rammentava ora. Quello sguardo. Quell’uomo dinnanzi a lei. Immobile , incolore, remoto. Che aveva avuto l’ardire di seguirla nel Sancta Sanctorum della sua camera, dove da anni consuetudine e rispetto degli istinti e dell’età lo avevano disciplinatamente allontanato. Dopo che lei lo aveva esiliato dalla sua esistenza con glaciale cortesia, abbandonato il fervore del pomeriggio precedente. Dandogli ancora le spalle.
Se le stringeva forte, adesso, le spalle. Accarezzava la pelle con dita fredde e rigide, infreddolita dal languire del fuoco nel camino che nessuno, quella sera, s’era preoccupato di attizzare. Sentiva ancora bruciare le labbra, però, e quel pezzo di cuore che si era imbizzarrito poc’anzi, vittima della rabbia e di quel bacio che grondava disperata e furiosa passione, sembrava aver preso un incedere dolorosamente stanco.
Passò accanto al maestoso comò, ove troneggiava il suo necessaire. E lo specchio, che impietoso e magnanimo le rammentava ciò che Andrè aveva appena visto. Con quel po’ di saliva mista al sale delle sue lacrime, bagnò piano i polpastrelli e spense la lama fioca dei moccoli sopravvissuti, infilati nel candelabro d’argento.
C’era ancora qualcosa che la osservava: la sua uniforme vermiglia, ritta e fiera con le spalline dorate e luccicanti, perfetta persino lei nel portamento, poggiata elegantemente sulla gruccia riservata al suo riposo. “ Mi stai giudicando anche tu? Credi che sia solo un guscio vuoto come te?” I pensieri scorrevano impietosi ed impazziti, non riusciva a dar loro un senso, un ordine. Si ricordò d’essere una donna, mezza nuda, spogliata per un amore reso folle, incapace di riconoscersi davvero in quel soldato che stava impettito innanzi a lei, e col suo gelido fulgore, senza testa e senza anima, la stava fissando. Per un attimo pensò che fosse meglio essere così, come quel manichino che le ricordava un recente passato di gloria e onore. Ma era l’adrenalina di quei minuti veloci e violenti che le tornava in mente e le accelerava battiti e respiro, adesso. E le faceva riscaldare le gote, fino a farle provare la stessa febbre che la muoveva nell’azione, nel duello, nelle corse al galoppo sfrenato. Imporporandole la pelle, quella stessa porzione di pelle scoperta che il chiarore diafano di un cielo senza luna stava facendo ritornare spettrale.
Tolse in fretta i pantaloni, sfilò disordinatamente le calze, tanto che adesso penzolavano mollemente dal bordo della sedia. Doveva sfilarsi quella camicia, e si rese conto che stava inutilmente tergiversando su una questione banale: toglierla da sopra o da sotto? Lo squarcio era così ampio da permetterle di concentrarsi su quella stupida domanda.
Rimase nuda, quindi. Le imposte impietosamente continuavano a rumoreggiare, il fischio del vento non dava tregua ed il suo alito freddo penetrava attraverso gli spifferi. Il fuoco era morto, i tizzoni carbonizzati avevano ormai soffocato il caldo ardore che prima lì festeggiava. Lesta prese la camicia da notte, fresca di bucato, e se la infilò. Non aveva più forma così. Sembrava un fantasma, poteva passare attraverso qualsiasi cosa e non avrebbe sentito più nulla, o così credeva.
“Fermati Andrè o chiamo aiuto!” Adesso reggeva tra le dita quella maledetta camicia, e si accorse di quel brandello orfano delle dita di lui, che s’era pigramente adagiato ai piedi del letto, probabilmente quando si era destato da quella sorta di feroce ipnosi che non aveva saputo domare e che aveva infranto le fondamenta di quella casa che era sempre stata la loro speciale amicizia. “Fermati Andrè o chiamo aiuto!” Ancora. Le salirono nuovamente ai lati degli occhi quelle gocce brucianti di intenso dolore: l’avrebbe fatto davvero? O si sarebbe “sacrificata”alla forza dei suoi baci, delle sue mani, del suo disperato possesso, pur di proteggerlo? Si erano protetti a vicenda, una volta ancora, senza saperlo. Lei offrendosi, arresa alla sua sofferta furia. Lui fermandosi, riscosso dal suono delle sue lacrime. Entrambi condannati ad amare.
Le lacrime scesero per dispetto più dense, come cera che si raffredda. E Oscar strinse a sé ancora tutta quella stoffa, mutilata ed inutile, pensando solo che non gli voleva fare del male. Non lei. Non più. Ma il camino era beffardamente spento, non poteva liberarsi di quel fardello divenuto all’improvviso pesante come il piombo bruciandolo tra le fiamme di un fuoco purificatore che non ardeva più.
Faceva capolino dall’anta del grande armadio una piccola porzione di tulle. Era un ammutinamento! Non ne voleva sapere neanche lei di star rinchiusa come una reliquia in quella teca, assieme a tutti quegli strati di broccato e taffetà del colore e della consistenza della panna , che solo qualche settimana prima s’era beata di indossare, grata  e impaziente di risplendere agli occhi di colui che credeva d’amare, come donna. Nascondere la camicia là sotto? Il pragmatismo da ufficiale esperto la soccorse: le domestiche erano sin troppo scrupolose nelle pulizie, l’avrebbero trovata e sarebbero nate chiacchere difficili da sedare.
E poi, tosto o tardi, avrebbe portato lei stessa quell’ingombrante fagotto  sulla pira del suo personalissimo falò delle vanità, trasformando così in cenere la sua evidente debolezza di una sera.
Cercò di far ordine in quella stanza a soqquadro che era adesso il suo animo.
 
Le venne in aiuto allora un altro ricordo d’infanzia, di quelli che tieni sempre al caldo in fondo all’anima, che danno conforto quando non sai dove andare: la grande quercia in fondo al giardino. Vi avrebbe seppellito quella stoffa morta, scomoda testimone di uno sbaglio, accanto ai loro tesori di bambini. Il peccato e la purezza, nascosti sotto la terra. Anche quello era un loro segreto e sarebbe rimasto tale.
“Tieni bambina…..perdonami: Oscar. So benissimo che avresti preferito uno spartito, un libro o una spada, ma posso solo questo. E, anche se è un accessorio prettamente femminile, in cuor mio so che nulla toglie al tuo orgoglio di soldato. Ti servirà nelle fredde serate in cui vorrai stare accomodata a letto, a godere di una buona lettura…” Lo scialle che Marie aveva laboriosamente fatto a maglia per la nuora, anni prima. Uno dei pochi ricordi rimasti della madre di  Andrè che si potesse ancora toccare, non solo sognare. Lo custodiva lei, col suo consenso, e ne respirava il tiepido calore quando sovente anche la stanza di sua madre restava vuota. Lo mise veloce sulle spalle, se lo strinse addosso: doveva fare presto, passare per i freddi corridoi di mezzo palazzo, prendere l’uscita di servizio e chiedere ospitalità alle fronde dell’albero secolare, affinchè le consentisse di nascondere ad occhi indiscreti la prova tangibile che l’amore può portare anche ad un momento di devastante follia. L’unica possibilità che non aveva considerato.
Aprì piano la porta, scese leggera nel corridoio, svelta, giù dal sontuoso scalone d’ingresso, che coi suoi lucidi marmi dava il benvenuto ad ogni ospite della casa. Non c’erano più lumi a darle conforto lungo il tragitto, ma nonostante tutto, l’oscurità non era così fitta e il riverbero di quella notte intessuta di stelle d’onice pulite dal vento, entrava complice dai finestroni dell’androne.
S’infilò nella più angusta ala riservata alla servitù. Il cuore un tamburo che vibrava nel petto, doveva fare presto. Una, due, tre….quante piccole porte scure avrebbe dovuto ancora sorpassare per trovare l’uscita? Perché di notte era tutto più complicato?
Poggiando un palmo al muro, si rese conto che una porta era rimasta accostata. In altre circostanze, riservata di natura com’era, non avrebbe mai guardato. Eppure l’istinto rispose per lei: mise l’intero sguardo dentro quell’involontaria fessura sapendo di entrare in un mondo familiarmente sconosciuto. La stanza di Andrè. Sembrava che le sue gambe fossero d’improvviso diventate pesanti, di ferro, ed un magnete le avesse attirate lì di proposito. Si impose di non deglutire. Di non essere.
Non era cosa comune entrare lì, da diverso tempo oramai. Terreno di condivisione domestico restava la biblioteca: letture, commenti e pensieri, legati anche da un filo silenzioso, erano la loro merce di scambio consueta…..prima, prima della disgraziata notte del ferimento. E del ballo. Da allora aveva sostituito la quiete del sereno dialogo con la frenesia di impegni continui, che non permettessero a lui di perforarle l’anima con il peso di muti interrogativi. Di cui conosceva già la risposta.
Rivedere quella stanza, adesso, con l’occhio di una ladra, le fece uno strano effetto. Regnavano l’ordine e la pulita sobrietà che contraddistinguevano le azioni stesse del suo ospite. Ma qualcosa stonava: il buio, più denso di qualche settimana prima, quando lei vi aveva fatto capolino per salutare Andrè a riposo dopo il duello col Cavaliere Nero, riusciva a malapena a coprire delle tracce di delirante sofferenza. Confidò che la porta fosse stata ben oliata, di recente, e aprì ancora un po’ lo spiraglio dal quale avrebbe potuto allargare ancora la sua prospettiva, e forse capire.
E capì. C’era un piccolo catino in ceramica sopra il comodino, Andrè soleva ancora farsi medicazioni dopo il ferimento. Ma l’acqua era inspiegabilmente nera, e non solo perché il buio spegneva i colori….aprì d’istinto la porta, quasi del tutto. Il piccolo specchio da toeletta era divelto dal suo basamento e giaceva a terra  esanime, ridotto in frantumi, provato da una dura battaglia col suo proprietario. I cocci di vetro spezzati riflettevano immagini altrettanto spezzate di tutto quello che vi girava attorno. Ne mancavano alcuni.
D’improvviso il sangue alle tempie affluì scomposto e, pazzo, le fece dolere testa e cuore: lui dov’era? Infilò cauta la porta, come se dovesse entrare nella gabbia di una fiera affamata per portare la quotidiana razione di cibo. Ancora, il sangue in vena pulsava impazzito: sensi di soldato all’erta, misti al panico di donna…..e riuscì infine a scorgerlo. Nonostante la statuaria altezza, eccezione e vanto in quegli anni, sembrava più piccolo. Anzi, sembrava ritornato piccolo. Accartocciato su sé stesso, le spalle poggiate al muro, imprigionato tra il letto ed il modesto armadio.
Il respiro riprese la sua normale ritmicità, grazie a quella ventata di sollievo. Lui era ancora lì. Fissava un punto indefinito dinnanzi a sé e la lotta impari di poco prima pareva averlo afflosciato come un sacco vuoto. “Andrè…” si fece qualche spanna più vicina. Il suo sguardo diviso a metà scopriva occhi gonfi di pianto. “Andrè!!” alzò di colpo il tono. Il braccio sinistro reggeva il capo, divenuto pesante, che pareva scoppiare. Nell’altro teneva saldamente in mano un appuntito frammento di specchio, continuava a stringerlo tra le dita, striate, ormai, di grondanti rivoli cremisi. Ogni singola goccia stillava lenta e inesorabile tra le ginocchia piegate e aveva disegnato un’evidente chiazza sulla camicia di lino che aveva perso così il consueto immacolato candore.
Non riusciva ancora a guardarla. “ Oscar, che ci fai tu qui? Non hai più bisogno di me…” Più che una fiera affamata, sembrava ora un leone ferito. “Dopo quello che ho fatto, poi….” Più nell’anima, che nella carne, sebbene fosse evidente lo sfregio sulla pelle. Si avvicinò, di più, lenta e cauta. Un po’ capiva quanto indifesa dovesse essere apparsa  lei ai suoi occhi, nel momento in cui l’aveva coperta col lenzuolo. Lo capiva perché improvvisamente le saltavano agli occhi tutte le sue fragilità, esposte come fossero tante crepe in un vaso di cristallo.
“Forse…forse sei tu che hai bisogno di me adesso..” le era scivolato dalle labbra. Oscar non sapeva nemmeno quante volte , nelle ultime assurde giornate, lui avesse invocato la sua vicinanza. Perché aveva una fottuta paura dentro, quando le ombre del tramonto gli comparivano davanti sempre più spesso, anche di giorno, all’improvviso, vietandogli la luce piena. E si era  trovato di colpo più vulnerabile di quando era bambino, quando sua madre era stata costretta a lasciare questa Terra, a lasciarlo solo, per congiungersi a suo padre. Lui non era mai stato solo.
 
Respirò a fondo Andrè. E l’aria inalata sembrava avergli infuso una piccola nuova linfa. Un mezzo sorriso amaro “Ho giurato su Nostro Signore che non ti avrei mai più toccato. Per favore, Oscar, torna nella tua stanza. Non temere, adesso mi alzo. Lasciami ancora un po’ qui…”
“Fammi vedere la tua mano, te ne prego. Smetti di stringere quel vetro…..continui a sanguinare….” Sembrava non avere nemmeno ascoltato quella richiesta. Le aveva giurato che non l’avrebbe mai più presa tra le braccia in quel modo, non l’avrebbe più baciata sostituendo la rabbia alla passione. Ma non poteva certo smettere d’amarla. E amare vuol dire anche custodire, che fosse nel cuore o tra le dita, poco importava. Oscar lo stava capendo. Non aveva paura.
“Non starmi così vicino Oscar, ti scongiuro….non hai più paura di me? Sei tu che vuoi toccarmi adesso?” Si rese conto che stava involontariamente alzando il tono, riprese il respiro, il dominio di sé. Era lì Oscar, con quella camiciola che la vestiva di niente, solo il caldo scialle di sua madre a coprirle le spalle, che lo guardava. Sì. Lo guardava. Forse provava solo pena per lui: non lo voleva sapere e nemmeno gli importava. Ma lo stava fissando. Come non aveva fatto prima, nella sua stanza, quando gli aveva comunicato con lo stesso tono con cui si declamano i bandi reali, che “non aveva più bisogno di lui”. Non era un ingenuo, sapeva che la sua , la loro vita, non sarebbe stata più uguale a ieri. Ma adesso si stava sfamando di quelle briciole di perdono che intravvedeva nell’umido lucore dei suoi occhi. Bastava così.
Le dita tremanti, non sapeva più se per il freddo o per lo strano effetto che faceva adesso avvicinarsi a lui, le ginocchia poggiate sulle severe assi del pavimento, si fece ancora più accosta. “ Dammi quel vetro Andrè, sono io a pregarti….” Non aggiunse altro. Non aggiunse che era già la seconda volta che lo pregava quella sera. Sarebbe stato ingiusto e lo avrebbe inutilmente gravato di un fardello che, se non se n’era chiaramente resa conto prima, lo stava sbranando dentro, come un mastino che dilania senza requie la carne. Andrè voltò piano la testa, come se muoverla di scatto gliela facesse scoppiare da un momento all’altro, ma non alzò ancora gli occhi, non riusciva ancora a rimetterli nei suoi. Fu facile quindi toglierli quella scaglia di specchio dalle dita, aprirgliele piano, capire l’entità della ferita.
“Dobbiamo pulirla Andrè, a quanto pare non è fonda, ma continua a sanguinare”
“ Ti avevo detto che ci avrei pensato io, solo … adesso non ne ho voglia….torna nella tua stanza Oscar, ognuno di noi porta le sue ferite ed io non riesco a curare le tue….anzi…”
Oscar non replicò. Sì l’aveva ferita, l’aveva persino dominata ad un certo punto, ma non riusciva a volergliene e a non volergli più bene. E non era solo umana pietà la sua. Lo aveva escluso dal suo mondo, anzi, il loro mondo non esisteva più da un pezzo…..da quando lei gli aveva taciuto come Fersen ritornato dalle Americhe stava prepotentemente occupando ogni pensiero ed ogni battito, da quando lo aveva sospettato d’essere il Cavaliere Nero, per poi accorgersi che anche lui le taceva di quelle riunioni clandestine di liberali che frequentava. Stavano diventando due estranei sotto lo stesso tetto, non si incontravano più nella loro “terra di nessuno”a parlare anche di niente, si erano rinchiusi nella muta convinzione di potersela cavare da soli.
Oscar si levò lenta, sospirando piano. Spostò lo specchio che rifletteva a pezzi la sua figura e raccolse con attenzione ogni vetro, riordinando i pensieri. Una scena uguale a quella vissuta qualche sera prima nello studio: il tavolo rovesciato, i cocci dei bicchieri sparsi ovunque e lei che li raccoglieva. Come fossero tanti pezzi d’anima, sparsi tra le sue mani. Si ridestò da quelle malinconiche riflessioni, andò verso il catino, di cui ricordava la presenza e tornò da lui. Aveva lasciato la camicia sul bordo del letto: iniziò a strapparla, di più, sino a ricavare alcune porzioni allungate che servissero da bende.
Accucciata iniziò ad intingere la stoffa nell’acqua, non più trasparente. “ Dammi la mano Andrè” Obbedì, lui, stavolta. Era un sollievo mostrarle il palmo, in segno di resa, in segno di gratitudine. Era l’unica chiromante che poteva leggergli il Destino in quel momento, l’unica che sapeva esattamente dove portasse la sua vita. Perché la sua vita era lei.
Mentre le loro mani si accarezzavano nel bisogno, il silenzio li avvolgeva, nonostante l’intrusione di quel vento ribelle che ululava nella notte assonnata. “ Ecco, ho finito…” Stava per aggiungere “Vado”, ma non ne aveva forza abbastanza. “Ti ringrazio, Oscar. Vai a riposare, te ne prego” Fu in quel momento, quando Andrè alzò finalmente il capo verso di lei, che se ne accorse: una piccola, ma decisa incisione appena sotto il pomo d’Adamo. Il sangue già rappreso era scuro e la sua leggera scia era scesa sino al petto.
Si raggelò, di nuovo. Dopo che era riuscita a trovare quell’esile filo in grado di condurla da lui, tutte le carte disposte in tavola come un castello dal precario equilibrio ricaddero a pioggia su loro stesse. “Cos’è questo Andrè?” Gli occhi indagatori, trafelati, cercavano una risposta: quella che non volevano sentire. “E’ semplicemente un graffio…nulla di cui preoccuparsi, adesso lo ripulirò da solo.” Glissava la domanda, Andrè, ostentando una calma che in realtà non percepiva. E nemmeno lei. Ancora quel ronzio nelle orecchie, quel senso di vertigine, come stare ai bordi di un burrone sperando che un mulinello di vento più agguerrito non ti spinga di sotto. Andrè restava imperturbabile, ma non gelido, com’era accaduto prima. Tutto il ghiaccio su cui aveva sbattuto la faccia Oscar, s’era sciolto nel doloroso calore del pianto.
“Che cosa intendevi fare??” Il cuore in rivolta, Oscar lo scosse, stavolta prendendolo per le spalle, che risentiva forti e tenaci, ma incapaci di tenerla prigioniera come solo pochi momenti fa era accaduto. “Lascia stare Oscar, non è affar tuo! Lasciami solo adesso..” E suo malgrado le immobilizzò ancora i polsi, perché non lo scuotesse più, perché potesse vedere quei suoi occhi iniettati di sangue, gli stessi di quando poc’anzi s’era specchiato e ci aveva visto riflesso il suo fallimento, come amico, come fratello, ma soprattutto come uomo. Un fallimento colmo d’amore. “Basta Oscar, basta!” Ricordò il giuramento, s’impose di lasciarla. La mano fasciata gli bruciava da morire, e comunque non era sua intenzione spaventarla più di quanto quel misero taglio quasi rammendato non avesse già fatto. “ Mi sopravvaluti, Oscar. Non sono così coraggioso come pensi….” Lei inclinò il capo, incredula, smarrita: cercava di trovare una chiave di lettura che ancora non aveva. Continuò, lui, non sapeva se volesse farsi ancora del male, o passare parte di quel peso a lei, per alleggerire il carico da portare sul sentiero della vita.
“Sono uscito dalla tua stanza strisciando, mi ha riparato il buio, non mi ha visto nessuno…..e quando sono arrivato qui, beh, mi sono sentito pesante, come una zavorra su una zattera piena di falle….La mia faccia, Oscar, non riconoscevo più la mia faccia, mi vedevo senza forma. Tu mi hai visto senza più il mio cuore! Dio! E’ stato un attimo, lo specchio in frantumi…ne ho raccolto uno…lo stringevo, forte, fra le dita. E più sentivo bruciare, più pensavo che sì, se scappare da te non è la soluzione, forse lo era fuggire da me stesso….Ho avvicinato la punta alla pelle. Di più, più dentro, ancora….Ma non ne ho avuto il fegato! Sono un codardo, un vigliacco, non ho il coraggio nemmeno di farla finita….
La verità è che non riesco a lasciare la mia vita perché non sono capace di lasciare te.”
E, vinto da tutto, anche dalle sue stesse promesse, chiuse gli occhi liberando un respiro e allungò tremando le dita che poggiò lievissimo tra i suoi capelli. Lasciò fare Oscar, calmierava anche quella confessione dentro di sé: ormai aveva talmente tanto posto nel suo cuore da poterla raccogliere. E intanto puliva anche lì, tra le pieghe del collo, dove il sangue coagulato era più difficile da lavare via. Un bel tacer non fu mai scritto, diceva la saggezza popolare, e più volte Oscar aprì le labbra in un soffio, per profferir parola, e poi le richiuse. La mancanza di quei piccoli gesti li aveva imprigionati nelle pieghe dei loro tormenti, fino a farli correre accanto, senza mai toccarsi, come due rette parallele che non s’incontrano mai. Preferiva stare così.
Gli strinse leggera la mano, per farlo ridestare. E ridestare sé stessa. “ Adesso torno di là. Avevi ragione, è soltanto un graffio…”Di graffi che oltrepassavano la pelle se n’erano provocati abbastanza, restavano quasi invisibili in superficie, ma dentro avvelenavano il cuore. Vide che anche il camino di quella stanza era spento. “ Ti chiedo un favore, fallo in nome di ciò che eravamo: nascondi tutta questa stoffa inutile e appena possibile, bruciala..” Non erano più amici, non erano più fratelli, non sapeva nemmeno più cosa fossero. Anime che bruciavano, forse.
Andrè fece un cenno d’assenso, un ringraziamento silenzioso…..”Oscar…ma…come mai sei venuta qui? Dopo…dopo che…”Non continuò…
“Siamo entrambi colpevoli di non essere più gli stessi, di non aver avuto il fegato di dircelo. Non ti odio, Andrè, non potrei mai, nonostante tutto, nemmeno se volessi. Stavo andando a nascondere sotto le radici della grande quercia la camicia….quella… quella che abbiamo strappato.” E che è servita a medicare le tue ferite – pensò, mentre un’altra goccia si insinuava tra le pieghe del suo mesto sorriso.
“….non sei un vigliacco, non lo sei mai stato.” Una sorsata d’acqua cristallina, quelle parole, mentre stava con la fronte appoggiata alla porta, indecisa quando andare.
E uscì silenziosa, l’eco di un timido “grazie” portato dal vento la rincorreva alle spalle.
Domani sarebbe cambiato tutto, non sarebbero rimaste tracce di quella sera. Non sapevano cos’erano, ma si erano protetti ancora.
Forse per l’ultima volta.
 
 
 
 
 
   
 
   
 
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