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Autore: _Lightning_    02/04/2020    2 recensioni
[INCOMPIUTA]
«Mi sembrava che ne avessi bisogno,» sussurra Natasha, con voce velata, e Tony sorride appena a quello sfoggio di spavalderia che sanno entrambi essere inutile.
«Decisamente,» non la contraddice, ma aumenta un poco la stretta e sente la sua farsi quasi disperata a sottolineare quanto ne avesse bisogno anche lei.
Come se quell’abbraccio potesse alleggerire il dolore di entrambi, o fonderlo in modo da renderlo più comprensibile, meno oscuro.
Non sa se Natasha lo stia trascinando verso il basso per piantare un ormeggio sicuro, o verso l’alto, a fluttuare incerto a mezz’aria. Ma sfiora la terra con la punta dei piedi e rimane lì, in equilibrio, in bilico con lei.

In un universo in cui lo schiocco ha reciso e distrutto legami, chi è rimasto è costretto a ricostruirli, ritrovarli, o crearne di nuovi, con il costante interrogativo di quanto sia giusto andare avanti quando ci si è lasciati così tanto dietro.
[pre-Endgame // Hurt-comfort // IronWidow + Pepperony // PoV Tony]
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Natasha Romanoff/Vedova Nera, Pepper Potts, Peter Parker/Spider-Man, Tony Stark/Iron Man
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Tentativi

 
 
 
 
 
“The stars collide
They're beautiful and much maligned
In a universe where you see the worst
And it's up to you to fix it
Now you've worked it out
And you see it all”
 
[Aftermath – R.E.M.]
 
 

Aprile 2019, Complesso dei Vendicatori

«Happy?» chiama Tony nella cornetta, inclinandosi pericolosamente sulla sedia con un ginocchio puntato contro il bordo del tavolo, mentre Natasha lo osserva in palese attesa del momento in cui si schianterà a terra.

«Tony? Tony, sei tu?» replica l’amico, con qualche secondo di ritardo e uno stupore malcelato.

«Uh… sì. Sì, lo so che non mi faccio sentire da un po’, ma… sei con May?» chiede poi senza pensare, colto dal dubbio e pregando di non aver interrotto nulla.

«No. Cioè, sto per tornare a casa adesso, quindi non ancora.»

«Oh. Bene. Bene,» ripete stentando ancora a realizzare il fatto che loro due convivano e cercando di smorzare la propria incredulità. «Bene, no?»

«Molto bene,» conferma Happy, e percepisce il mezzo sorriso nella sua voce. «Tu?» chiede, con una cautela che gli ricorda quella di qualcuno che si avvicina a una bomba innescata.

«Meglio. Relativamente. Con… molte clausole,» si sforza di dire, tendendo il ginocchio per dondolarsi un poco più in bilico. «Ma… sì, meglio,» annuisce tra sé, ignorando le occhiate non troppo discrete che gli invia Natasha e pentendosi di aver voluto fare la chiamata davanti a lei e non in privato. «Senti, sai… sai come stanno messe le Industries, di preciso?» si affretta a chiedere, sterzando con decisione da ogni argomento di natura personale.

«Cosa? Le Industries? Dipende da come lo…»

«In senso monetario. Mi servono i bilanci degli ultimi sei mesi per il progetto RESCUE e… un quadro generale basterà, giusto per capire quanto siamo vicini al lastrico e se devo sfruttare l’armatura per chiedere l’elemosina in metropolitana,» chiede in fretta, sfregandosi il pizzetto e ostentando noncuranza, mentre una parte di sé prega che nessuno squalo abbia preso le redini del consiglio d’amministrazione mentre lui era assente, in un’odiosa replica del 2008.

«Contatto Bambi e ti invio tutti i resoconti appena arrivo da May. Sarà contenta anche lei,» risponde Happy, con più prontezza del previsto, e lo sente sorridere di nuovo mentre parla.

«Ottimo,» annuisce lui, buttando fuori un respiro un po’ costretto. «Hap, quando la vedi, dille… dille che…» gli si spezzano le parole in bocca: non c’è un modo neutrale per salutarla, e chiederle scusa sarebbe ipocrita, meschino. «… che ci sono. Solo questo,» conclude, col mento puntato sul petto a nascondere lo sguardo.

«Lo sa, Tony,» lo rassicura lui, con voce ferma e un piccolo sospiro triste. «Lo sa. E non ce l’ha con te.»

Lui deglutisce a vuoto, tendendo le labbra per non contraddirlo, e poggia di nuovo i piedi a terra curvandosi sul tavolo.

«Sì, okay, ma tu diglielo lo stesso,» ripete, chiudendo poi la chiamata senza attendere risposta.

Sente lo sguardo di Natasha addosso – ormai ha imparato a riconoscerne l’impronta, la lieve pressione che gli esercita tra le scapole – ma tiene il proprio fisso sulle scartoffie dinanzi a sé.

«Bene, tra poco sapremo se quei fondi che ti ho promesso esistono davvero,» annuncia, cercando di usare un tono di voce neutrale, e la vede annuire appena con la coda dell’occhio.

Torna a concentrarsi sulle carte e il principio di emicrania inizia a farsi più insistente, accerchiandogli le meningi; sospetta che oltre ai propri pensieri poco gradevoli c’entri anche il carattere microscopico in cui il mondo si ostina a stampare i documenti legali. Quello, almeno, non è cambiato.

«Queste dove vanno?» chiede distratto in un mezzo borbottio, sventolando sotto al naso di Natasha le domande d’affido temporaneo che ha appena compilato.

«Stark, giuro che se apri di nuovo bocca nei prossimi dieci minuti ti darò degli ottimi motivi per non parlare,» lo zittisce la donna, schiodando a malapena gli occhi dai moduli che sta firmando e rinstaurando il clima di terrore che regnava prima della telefonata.

Non le dà del tutto torto, visto che nell’ultima ora è stato leggermente pedante con le domande di natura burocratica. È un miracolo che non l’abbia ancora accoltellato con la penna.

«… terrificante, Romanov, ma avrei davvero bisogno di sapere dove vanno questi cosi. Non vorrai perderti dei minori in giro, spero,» la incalza lui impassibile, agitando ancora il pezzo di carta a mezz’aria ad attirare la sua attenzione.

Natasha sospira e si decide a puntellarsi su un gomito per sporgersi verso di lui e i moduli che sta compilando, senza lesinare sull’occhiata omicida che gli rivolge.

«Vanno spediti via fax al FEAST,» annuncia poi, lapidaria, lasciandosi ricadere di peso sulla propria sedia.

Tony è certo che si stia pentendo di aver accettato il suo aiuto in prima persona per gestire le scartoffie del RESCUE, anche se non l’ha ancora esternato esplicitamente. Sa di essere fastidioso, quando viene inchiodato a una scrivania, e avrebbe dovuto sapere che quel genere di distrazione gli sarebbe andato stretto. Si rigira la penna tra le dita, scuotendo appena la testa.

«Era… era Pepper, quella brava a districarsi in questo genere di cose,» mormora poi, sferrando un calcio mirato a quella porta blindata che sa di non dover tenere così chiusa, almeno non quando Natasha schiude porte che avrebbero molta più ragione di rimanere ben serrate. «Io non ho mai davvero imparato.»

Neanche ad annodare le cravatte. Neanche a cucinare un’omelette decente. Lascia sibilare un respiro tra i denti, sfregandosi la punta del naso e pentendosi di aver parlato. Peter, Pepper. Sono , anche se non ne sente più le voci e anche se non crede più di vederli ai margini della propria visuale. Ombre nella sua testa prive di riscontro, che si insinuano però nelle sue parole quasi a reclamare per loro un attimo di vita fasullo.

«Io non ho mai neanche iniziato,» replica tranquilla Natasha, a bassa voce. «Non sono mai stata portata per il lavoro d’ufficio, anche se Hill e Fury ci hanno provato, a impormelo,» conclude con una lieve alzata di spalle, senza mai alzare lo sguardo e fingendo di non aver sentito la prima parte della sua affermazione.

Tony serra appena la mascella, come sempre quando capta i nomi degli scomparsi, ma Natasha rimane imperturbabile, almeno esternamente. Forse anche internamente. Non sa più cosa pensare di lei, delle sue emozioni.

«Potresti…» lascia in sospeso la frase, picchiettando la punta della biro sul tavolo con improvvisa titubanza, e continua solo quando Natasha lo fissa di sottecchi, in attesa. «… fare entrambe le cose. Lavoro d’ufficio e lavoro sul campo, intendo,» ragiona quindi senza guardarla, con un lieve scatto dei palmi verso l’alto e un gomito che si poggia disinvolto sullo schienale della sedia.

«Non è una buona idea,» lo smentisce lei senza la minima vibrazione a incresparle la voce, che si srotola piatta e monocorde mentre riprende a lavorare.

Tony comprime le labbra, sbiancandole un poco, e fa oscillare rapidamente la penna tra due dita. Ma riabbassa lo sguardo sui propri incartamenti senza insistere, recependo senza difficoltà la sua richiesta di distanza da quell’argomento. L’ha schivato fin troppe volte senza mai irritarsi apertamente, come se sapesse che lui ha ragione, nel volerla spingere a riprendere il ruolo di agente operativa, ma non si fidasse abbastanza di se stessa per soppesare lucidamente quella possibilità.

«Potrei dirti lo stesso, comunque,» gli rimpalla dopo qualche secondo, facendolo quasi trasalire. «Abbiamo una seria carenza di personale e Iron Man ci farebbe molto comodo, in alcune…»

«No,» la tronca di netto lui, con molta meno moderazione di quanta ne abbia usata lei. «L’armatura sta bene dove sta: appesa al chiodo,» conclude mordace, riportando gli avambracci irrigiditi sul tavolo e chinando fermamente il capo per leggere così da escluderla dal proprio campo visivo.

Rinuncia a quella barriera dopo pochi minuti, poggiandosi con forza contro lo schienale fino a farlo cigolare, e davanti a sé trova Natasha che lo osserva placidamente da chissà quanto, le sopracciglia inarcate di mezza tacca nella sua direzione. Tony stringe il pugno sinistro in un riflesso condizionato che gli tende i muscoli del suo braccio più malmesso, rievocando alla mente vecchie battaglie. Trattiene l’urgenza di portare una mano allo sfregio sul fianco, irritato da un pizzicore sommesso. Distoglie lo sguardo da lei, puntandolo verso la vetrata affacciata sul campo d’addestramento deserto. L’erba incolta preme contro i margini di cemento, mentre foglie e terra intersecano le linee bianche e regolari che lo dividono. Gli ronza in testa la recente discussione con Rhodey, quei suoi pungoli fin troppo sensati a fare qualcosa.

«Tu vuoi tornare,» spara infine Natasha, con mira infallibile che gli pianta il proiettile proprio sotto al cuore. «E potresti, al contrario di me.»

«Perché mai tu non potresti?» la interroga svelto, sfuggendo all’affermazione principale e girando di nuovo il capo verso di lei, due rughe perplesse a incidergli la fronte in mezzo alle sopracciglia.

Lei lo fissa inespressiva, e non gli riesce di capire se quella sia stata un’informazione ceduta in modo volontario, così da stuzzicare il suo interesse, o semplicemente scivolata tra le maglie di segretezza che la avviluppano. La risposta che riceve non lo aiuta in nessun senso, criptica come sempre:

«Falsi contatti. Non si può fare affidamento su un operativo difettoso,» conclude con una scrollata di spalle, come se fosse il concetto più semplice del mondo.

Si sistema una ciocca di capelli sfuggita alla treccia che li raccoglie, col biondo che inizia a cedere il passo al rosso, e Tony scorge un tremito nelle sue falangi, nelle sue ciglia che si socchiudono per un istante. Lo fissa negli occhi, con un’aria che sa di sfida e le agita le iridi solitamente immote.

Tony inclina il capo in avanti, le dita strette sui bicipiti, incerto se riferire quell’affermazione ai “difetti” racimolati nella Stanza Rossa o, piuttosto, a falle più recenti dovute a perdite troppo profonde; le stesse che congelano a lui gli organi interni ogni volta che pensa ad Iron Man. E alla sua morte, su Titano, con un pugnale conficcato nel fianco a stillargli via sangue e vita. Una fitta gli punge la milza perforata.

«Concordo. Quindi dovresti intuire perché sarebbe controproducente ricacciarmi dentro quella lattina di Coca-Cola ammaccata,» dichiara infine, cogliendo la palla al balzo e mettendo da parte l’empatia in favore di una via di fuga rapida.

«Ma vorresti,» insiste lei, con tenacia insolitamente esplicita.

«Piantala, Romanov,» ribatte cupo, quasi in un ringhio difensivo, e nel vedere una scintilla di vittoria nei suoi occhi verdi finisce solo per irritarsi di più. «Pensavo che la nostra “partnership” dovesse essere una “distrazione”, non una trappola,» sbotta quindi, con filo aguzzo a bordare le sue parole.

Lei sembra quasi divertita dal suo disagio, come se cercare di metterlo all’angolo fosse il suo modo per distrarsi. Un po’ sente di meritarselo, ma non smussa lo sguardo che le ha piantato contro.

«Hai cominciato tu. E avevi detto di essere disposto a “dare una mano”,» osserva con schiettezza, con un piccolo scatto laterale del capo e un rapido cenno della biro verso di lui.

«A te. Non… non certo alla banda di casi umani che ti sta appresso,» si affretta a specificare precipitosamente, tornando al riparo delle proprie barriere in fretta e furia, con la sensazione di essersi sporto troppo su un crepaccio rischiando di cadervi a peso morto. «Andiamo, mi ci vedi, a dare una mano a Rogers? Che dovrei fare, aiutarlo ad attraversare la strada?» sbuffa poi, con un sorriso sardonico e maldestro a incrinargli le labbra contratte.

Torna a occuparsi delle sue scartoffie con rinnovata dedizione, apponendo un timbro di chiusura definitiva alla discussione. Natasha sembra indecisa tra l’assecondare quella sua scelta e il braccarlo di nuovo per fargli ammettere che, , l’idea di rimettersi l’armatura l’ha sfiorato… e gli causa un principio di attacco di panico ogni volta che gli veleggia per sbaglio in testa. Alla fine, però, opta per concederli una tregua lasciando posto al loro solito silenzio rassicurante, col solo rumore delle penne che grattano sui rispettivi fogli a colmarlo.

Ma, se Tony ha imparato a conoscere Natasha anche solo un minimo, sa che non è affatto finita lì.


 
§


Natasha, poco ma sicuro, gli ha messo la pulce nell’orecchio. Di quelle irritanti, insistenti e fastidiose che ripetono sempre la stessa frase in modo logorante. Iron Man. Iron Man. Un mantra infinito che gli rode i timpani e che cerca di mettere a tacere con tutto se stesso.

Può essere utile anche come Tony Stark, continua a ripetersi. Non ha bisogno di uno strato di metallo addosso. Cristo, Pepper glielo ripeteva in continuazione, gliel’ha ripetuto per quindici anni ininterrottamente, cercando di inculcargli nel cervello quel concetto che lui rigettava strenuamente. Gli viene la nausea a pensare che le stia prestando ascolto adesso.

A forza di imporselo, si ritrova davvero impegnato senza nemmeno realizzare bene come. Scopre di nuovo cosa voglia dire avere poco tempo per fare tutto ciò che ha in mente di fare, e si bea di quella sensazione e del fatto di non riuscire a percepire con chiarezza ogni suo singolo pensiero anche senza ricorrere all’alcol.

La situazione alle Industries è a dir poco catastrofica: il cercare di arginarla e rimettere in sesto la scomoda eredità piazzatagli sulle spalle da suo padre inizia a divorare gran parte delle sue giornate, tra riunioni, telefonate e montagne di burocrazia rimaste ad ammuffire per mesi durante la sua assenza. Non rischia di morire indigente, quello no, ma scopre di doverci andare piano con le donazioni e con le opere di beneficenza.

Il resto lo divide tra il recuperare una forma fisica decente e l’aiutare Natasha con la sua dose di impegni, avvicinandosi cautamente, un passo titubante alla volta, alla centralina di controllo del Quartier Generale. Si tiene nelle retrovie, schivo e restio a farsi vedere là dentro o a mostrare interesse per le sporadiche operazioni dei Vendicatori… ma è fisicamente lì. È cosciente di come quello sia un punto di non ritorno, e che la spia russa l’ha abbindolato per bene fino ad attirarlo esattamente dove voleva lei, fino a lasciargli sempre più spesso il compito di tener d’occhio i monitor delle emergenze mentre lei strappa un paio d’ore all’insonnia sulla poltrona nell’angolo. È una sconfitta che sa di vittoria, e si trova a non volerla rifiutare.

Questo… questo riesce a farlo, si trova a concludere, durante una notte in bianco che trascorre monitorando a distanza un’operazione di soccorso marittimo capitanata da Rhodey e Steve. Rimane in silenzio, nell’ombra, senza interferire nelle comunicazioni tra i suoi due compagni che non sono nemmeno consapevoli di averlo come osservatore esterno. Ma si occupa comunque di gestire le loro interfacce virtuali in modo che siano efficienti al massimo, di manovrare personalmente un paio di droni da ricognizione e altre mille minuzie di certo superflue, ma che apportano un contributo alla buona riuscita della missione.

E sente un grumo di nostalgia addensarsi nel petto al pensiero di parteciparvi fisicamente, ma l’alloggio per nanoparticelle rimane chiuso in un box di vibranio nei laboratori, dove avrà messo piede si è no tre volte dal suo ritorno da New York, e continua ad esercitare una forza repulsiva in netto contrasto con ogni volontà di ripararlo, anche se c’è un sottile, traballante filo che prova ancora ad attirarlo e che non riesce a recidere di netto.

Non sa bene dove stia andando a parare, con tutto quel fermento mentale che teme lo lascerà a piedi nel pozzo vuoto del suo dolore da un momento all’altro, ma le settimane passano e lui non se ne accorge, in modo positivo, in un modo che aveva dimenticato e gli ricorda anche come si respira.
 

§
 

Quel giorno si trova a scendere in laboratorio volontariamente, con lo stesso passo cauto ma fermo che userebbe un funambolo senza rete di sicurezza. Non è esatto dire che voglia entrare lì dentro: è piuttosto una naturale conseguenza del modo in cui si sono concatenati i suoi ragionamenti dell’ultima mezza giornata. Arrivando all’inconfutabile conclusione che, se davvero ha intenzione di metterli a frutto, deve sedersi a un banco di lavoro e avere sottomano le apparecchiature all’avanguardia che ha installato lui stesso, e non una cassetta degli attrezzi scalcinata e un paio di monitor che vanno in overload – dovrà anche occuparsi della manutenzione informatica, prima o poi, e se lo sta lasciando come impegno d’emergenza per ammazzarsi i pensieri.

Pensieri che al momento si muovono attorno a un singolo concetto basilare, quello che lo rincorre abbaiando da mesi: fare di più. Senza Iron Man. O meglio, marginalmente con Iron Man. Continua a ripetersi che quella che ha scelto è una distanza di sicurezza più che ragionevole, una che non lo farà ritrovare chiuso in quella trappola di ferro che ai suoi occhi assume sempre più i contorni di una vera e propria tagliola per orsi pronta a mordergli le carni.

Apre con titubanza malcelata una serie di schermate a mezz’aria, giostrandosi con un groppo in gola tra le sessioni lasciate aperte l’ultima volta e rischiando di perdere all’istante la propria determinazione. Schemi parziali delle Gemme, il tentativo fallito di ricostruire la matrice di Visione, teoremi senza capo né coda che fluttuano a mezz’aria, alcuni scritti in una grafia febbrile che non riconosce come sua.

I video. Il video recuperato dalla Mark in cui è quasi morto. Aveva avuto la forza di guardarlo una singola volta, alla disperata ricerca di un’intuizione, di un indizio qualsiasi che potesse indirizzarlo sulla giusta via. Aveva trovato solo cenere, parole rotte e occhi che si spegnevano davanti a lui con più nitidezza di quanto riesca a ricordare lui stesso. Non ha guardato i filmati di sorveglianza alla Tower. Non ha mai trovato il coraggio, ma la tentazione maligna lo pungola anche adesso, insensata, come se dopo più di dieci mesi potesse trovarvi un’illuminazione cosmica. Una soluzione a cui non ha mai smesso di pensare, ma che ha rinunciato a costruire con le proprie mani.

Quell’unica soluzione su quattordici miliardi che non smetterà mai di pulsargli nella mente ricordandogli che è vivo per una ragione che lui non è in grado di scoprire né comprendere. Rimane fermo al centro di quell’esercito azzurrino che sembra volerlo circondare per non lasciargli via di scampo, bloccandogli i pensieri e spingendoli a forza verso la voragine di materia oscura spalancata nel suo petto.

“Mi dispiace”
“Tony, torna subito qui–”

Inspira seccamente dal naso e con un gesto repentino chiude in un sol colpo tutte le schermate, liberando lo spazio attorno a lui e rendendo l’aria meno densa, più facile da scomporre in ossigeno. Si rende conto di avere la fronte imperlata di sudore freddo, oltre a un deciso principio di tachicardia, ma irrigidisce i muscoli fino a rischiare un crampo e si impone di non collassare su se stesso. È passato quasi un anno – quasi un anno, gli echeggia in testa come un rintocco funebre – e non sa se quella debba essere un qualcosa che condanni o giustifichi le sue reazioni.

Serra i denti e avvia con gesti scattosi una nuova sessione, borbottando a FRIDAY dei comandi frettolosi. Finalmente, apre di fronte a sé le cartelle relative alla Iron Legion. È praticamente in stato di fermo da Ultron, salvo qualche sporadica armatura di stanza in zone problematiche – ma quale luogo non è problematico, adesso? – e quel paio che tiene da anni in stato dormiente, pronte ad attivarsi in caso d’emergenza. Una per Peter, l’altra per Pepper. Fissa quella rimasta, blue oro, e la lascia dov’è, senza toccarla né modificarne le impostazioni.

Si concentra piuttosto sul resto, sulla sua… armata di droni che non è più un’armata, quanto uno sparuto gruppo di ferraglia troppo malmessa per cadere sotto il controllo di Ultron, all’epoca. Natasha è stata molto chiara, nel suo essere allusiva: i Vendicatori, se ha ancora un senso chiamarli così, sono pressoché inutili. E forse questo può essere il suo modo di dare una mano… senza darla direttamente, mettendo così a tacere Natasha, le pretese inespresse dei suoi ex-compagni di squadra, le aspettative del suo migliore amico e il proprio rovente senso di colpa che vorrebbe spingerlo a calci in culo in un’armatura per dissolversi in un altro provvidenziale portale alieno o esplosione atomica.

Butta fuori un respiro e scardina i propri occhi dal box in cui ha rinchiuso l’alloggio per nanoparticelle, accostandosi invece a un banco da lavoro libero. Tamburella sulla superficie liscia e metallica, e quello è l’unico suono che gli picchietta i timpani. Vi fa aderire i palmi, percependo la pressione sui calletti un po’ più smussati per la lunga inattività, e si concede di chiudere gli occhi per trenta secondi. Forse più. Forse passano ben più di cinque o dieci minuti, prima che si riscuota, tiri appena su col naso e dispieghi il progetto olografico di fronte a sé, saldatore e occhiali protettivi già alla mano.

 
§

 
«Tones?»

Tony balza quasi via dal banco di lavoro quando Rhodey lo coglie sul fatto come un bambino con le mani nella marmellata. Cincischia col saldatore a penna tra le dita, incrociando lo sguardo decisamente sorpreso dell’amico, poi lo aggancia al proprio sostegno prima di ustionarsi con qualche movimento inconsulto.

«Oh, ehi,» riesce ad articolare poi in un encomiabile sfoggio di dialettica, togliendosi gli occhiali e scollandosi le ciocche appiattite sulla fronte con un gesto nervoso. «Che ci fai qui?» spara poi, dando il fuoco! Alla prima frase coerente che il suo cervello gli mette in canna.

«Stavo per chiedertelo io,» ribatte Rhodey, circospetto, oscillando tra quello che sembra un sorriso incredulo e l’espressione più corrucciata che gli abbia visto addosso ultimamente.

«Uh… armeggio,» risponde in un riflesso condizionato, per poi mordersi in silenzio l’interno della guancia.

«Lo vedo…» commenta Rhodey, decidendosi a schiodarsi dalla soglia per allungare il collo verso il banco di lavoro su cui è chinato lui.

«Non– ti assicuro che non è come sembra,» si affretta a mettere in chiaro Tony, con un movimento agitato che sballottola a destra e a manca gli occhiali che gli pendono dal collo.

Il fatto che sul bancone faccia bella mostra di sé l’esoscheletro rudimentale di quella che sembra un’armatura non gioca in suo favore, ne è consapevole… ma conta sulla laurea in ingegneria aerospaziale dell’amico per capire che là dentro non potrebbe mai entrarci una persona, nemmeno rachitica. Però vede comunque un guizzo speranzoso che gli accende gli occhi per un istante, scacciato da un cenno del capo.

«Non torni a svolazzare,» dichiara infatti, incrociando le braccia.

«Oh, no. Decisamente no, non capisco perché vi siate tutti fissati con questa storia assurda,» rincara lui, scuotendo con energia il capo. «No, è che… insomma, devo tenere attivi i neuroni o di questo passo mi ridurrò a un vegetale, e poi dovrei… sì, dovrei fare terapia, e lo sai che vado più d’accordo con le macchine che con uno psicologo,» borbotta, articolando a malapena le parole.

«È per questo che in giardino è appena atterrata un’armatura da trasporto con DUM-E e U?» indaga l’amico, e Tony sillaba un “ops” muto, senza negare.

«Mh, più o meno, ho bisogno di bassa manovalanza per… per quest’idea che… per un paio di miglioramenti su progetti già sviluppati, e visto che l’Iron Legion era un’ottima iniziativa mal sfruttata…
» fa scemare la frase nel silenzio nel vedere che Rhodey sta sorridendo.

Non un sorriso triste, come quelli che si è ormai abituato a vedersi rivolgere, ma uno di quelli che ammorbidisce le linee dure del suo volto portando un brillio vivace negli occhi scuri.

«È bello vederti di nuovo “armeggiare”,» dice semplicemente, accostandosi lateralmente a lui e spingendolo da parte con la spalla.

Tony si schiarisce la gola senza dir nulla, puntellandosi coi palmi sul piano di lavoro, con una linea di tensione che cede sul suo volto permettendogli di rilassarlo un poco. Ricambia il sorriso in un modo timido che non gli appartiene, e ha paura che ogni sua mossa possa far scoppiare quella bolla di sottile serenità che si sta espandendo attorno a loro, più consistente di quella gita al Burger King di qualche settimana fa. È tentato dall’abbracciarlo, per la prima volta in modo spontaneo da mesi, adesso che sa che non gli si scomporrà tra le mani. Ma è sempre stato un idiota in queste cose. Coosì non lo fa, tiene lo sguardo puntato stoicamente sull’abbozzo di armatura davanti a lui.

«Ti ha convinto Natasha?» gli chiede Rhodey dopo qualche secondo, perspicace come è sempre stato per ciò che lo riguarda.

Tony fa un mezzo sorrisetto colpevole, portandosi una mano alla nuca.

«Diciamo che Natasha è un ottimo Grillo Parlante…»

S’interrompe e teme di vedere una punta di gelosia da parte dell’amico, in luce dell’ultima discussione. Ma non ne trova traccia sul suo volto pacato. Anzi, sembrerebbe… soddisfatto. Sta praticamente gongolando. Trattiene l’impulso di schiaffarsi una mano sul volto nel connettere i pezzi.

«… o forse sarebbe meglio dire che voi due siete il Gatto e la Volpe,» conclude, con uno sbuffo scenico.

Rhodey trattiene una risatina un po’ colpevole, un po’ compiaciuta che conferma le sue parole.

«Non c’è modo di prenderti direttamente, Pinocchio: ci fai fare sempre il triplo del lavoro.»

Tony alza gli occhi al cielo, senza dargli la soddisfazione di mostrarsi realmente contento nel vederli fare fronte unito.

«Dov’è lei? Scommetto che ci guarda mangiando popcorn,» sbotta invece, guardandosi intorno con un movimento esagerato e fissando gli occhi in una telecamera nell’angolo.

«Probabile,» annuisce l’altro, serafico.

Tony scuote la testa, ancora incredulo. È una sorta di smacco, realizzare che è davvero finito per tornare in laboratorio per colpa – o per merito – loro. Uno smacco che è ben lieto di sopportare.

«E che succede, adesso? Divento un bambino vero?» scherza poi, tenendosi ancora sulle sue con un briciolo di sussiego di facciata.

«Il piano è quello,» replica Rhodey, stando al gioco e aggiungendovi un pizzico di serietà. «Quindi vedi di comportarti bene.»

Tony tiene lo sguardo fisso sul prototipo adagiato sul banco di lavoro, e tira le labbra in un sorriso appena accennato di chi vorrebbe credere che basti quello, a farlo tornare un Tony Stark vero.

«Va tutto bene coi tuoi tutori?» tenta dopo poco, a voce bassa, con un’occhiata sfuggente verso i congegni che sibilano appena ad ogni movimento dell’amico. «Ti ho… trascurato un po’, ultimamente: sono un pessimo meccanico di fiducia e puoi sporgere reclamo per un rimborso, se vuoi, sono sicuro che riusciremo a…»

«Funzionano ancora a meraviglia. Ho un meccanico di fiducia idiota, ma molto competente,» lo rassicura lui, e adesso ha in faccia quell’espressione di puro affetto che gli ha rivolto forse tre volte in vita sua, con quella linea tremolante che gli attraversa le labbra e le palpebre senza strabordare, perché Rhodey è sempre troppo composto per lasciarsi andare – tranne quando il suo migliore amico cerca di autodistruggersi e poi riesce a salvarsi per il rotto della cuffia.

«Non farmi quegli occhioni dolci, grizzly scorbutico,» lo rimbrotta, e sente una mezza risata bloccata in gola, che esita a liberare ma che si fa comunque strada fino ai suoi occhi.

«Mi sei mancato, Tones,» si lascia sfuggire Rhodey, avvolgendolo d’un tratto nel goffo, preannunciato abbraccio che lui ha avuto paura di cominciare.

Tony sbuffa divertito contro la sua spalla, lasciandosi stringere e dandogli delle pacche impacciate sulla schiena. Rilassa il busto, e prende un respiro profondo come se così potesse incamerare la sua essenza, per poi rammentarsi che non ne ha bisogno: Rhodey c’è sempre stato, a prescindere da chi fosse lui in quel momento. A prescindere da quanto fosse rotto e allo sbando, o chiassoso ed esuberante e ingrato e insopportabile: è sempre stato lì, a condividere le sue gioie e a dimezzare il peso delle sue sofferenze. Lo stringe appena, con forza per tenerlo lontano dalla cenere, senza dirgli niente di tutto ciò. Non ce n’è mai stato bisogno. Lo sanno entrambi.

«Ti ricrederai quando ricomincerò a fare casino,» borbotta poi falsamente scontroso, senza staccarsi da lui.

Il solo fatto di aver pronunciato quella frase come se fosse posta in un futuro possibile fa fare un paio di piroette confuse al suo cuore malconcio.

«Non vedo l’ora, geniaccio,» lo rimbrotta lui, con una mezza risata che gli risuona nel petto e un’energica pacca sulla schiena. «Non vedo l’ora.»



 

Note dell'Autrice:

Cari Lettori,
avevo messo in stallo questa storia poiché non mi sentivo in vena di scrivere l'angst più puro in un periodo turbolento come questo, così ho preferito metterla in pausa per qualche tempo e dedicarmi a una revisione totale dei capitoli pubblicati. Sostanzialmente non è cambiato molto, se non per la correzione di refusi e qualche cambiamento minimo, quindi non c'è alcun bisogno di recuperare "arretrati". Poi, dal prossimo capitolo in poi ci immergiamo a testa bassa in una bella marea d'introspezioni e avvenimenti tutt'altro che allegri e leggeri... quindi vi consiglio di prepararvi psicologicamente ;)

A parte tutto, ho meditato un poco sul futuro svolgimento della storia prendendo un paio di decisioni piuttosto radicali, ovvero:
1) Come già accennato, i capitoli di Wattpad pubblicati da questo in poi non sono più "validi" (mi occuperò poi di riaggiornarli con quelli attuali). Per chi li ha già letti, i cambiamenti potrebbero non sembrare subito lampanti, ma nell'arco esteso della storia lo saranno;
2) In relazione a Natasha, ho preso la decisione di attenermi esclusivamente alla sua versione MCU, senza quindi andare a toccare il canone fumettistico se non per la sua relazione con Barnes (che in realtà aveva già un aggancio in Captain America: Civil War) e con un ulteriore dettaglio su cui ho ricamato sopra, che però svelerò successivamente per evitare spoiler. Per il resto, il tutto si muove attorno ai pochissimi punti fermi mostrati nei film, con i dovuti ampliamenti operati per deduzione logica che si distaccheranno dagli eventi fumettistici. Natasha ha una storia fin troppo complessa per essere raccontata tramite un PoV Tony rigido e senza scavalcamenti di campo che la includano direttamente, quindi preferisco muovermi su un terreno a me ben conosciuto che mi lasci libertà di azione e di riempire i buchi di trama con materiale/headcanon miei. Mi aspetto che il film su Vedova Nera aggiunga carne al fuoco sul suo passato sotto molti punti di vista, ma vedrò a tempo debito se tenerlo in considerazione. In luce di questa nuova ottica, ho modificato alcuni dettagli degli scorsi capitoli durante la revisione, ma ripeto che finora non era nulla di decisivo e sono state solo pignolerie mie :')

Chiudo il papiro e ringrazio tutti coloro che hanno commentato e/o letto la storia fin qui, in particolare _Atlas_, Miryel e shilyss per i loro ultimi splendidi commenti <3 Ah, e per chi dovesse vedere risposte sporadiche alla recensioni, non lasciatevi ingannare: rispondo sempre ciao, è solo perché alcune povere anime hanno la sfortuna di dovermi sopportare in privato :')
Spero a presto col prossimo capitolo,

-Light-

 
   
 
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