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Autore: Semperinfelix    03/04/2020    3 recensioni
Per far fronte alla terribile minaccia francese che è in procinto di scombussolare il suo regno, re Ferrante di Napoli raduna alleati da tutta la penisola ed oltre, promettendo in moglie la bella nipote Beatrice a colui che più fra tutti i cavalieri si distinguerà in battaglia contro l'empio inimico.
Per causa di cuochi imbranati, pasticci coi filtri d'amore e francesi perversi, la giovane fanciulla si ritroverà, dopo essere stata rapita, ad affrontare mille pericoli per conservare la propria virtù e ritrovare la strada di casa, inseguita da frotte di pretendenti malintenzionati. Il suo cuore, ovviamente, batte per uno soltanto, il prode cavalier Baiardo, il nemico, l'unico a non essere stato toccato dal filtro amoroso e per questo intenzionato a consegnarla ancora intatta al proprio re. Riuscirà fra tante avventure Beatrice a realizzare i propri desideri o il Destino avrà in serbo per lei qualcos'altro?
~~~
Nel tempo in cui pestilenzia avanza,
che è inver castigo pe' nostri peccati,
affinché non perdiate la speranza,
per vedervi voi ogn'ora segregati,
di lasciare alfin sani vostra stanza,
mentre siete l'un de l'altro privati,
per merto mio più grato svago avrete,
che 'l capo batter contro la parete.
Genere: Commedia, Drammatico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nel tempo in cui pestilenzia avanza,
che è inver castigo pe' nostri peccati,
affinché non perdiate la speranza,
per vedervi voi ogn'ora segregati,
di lasciare alfin sani vostra stanza,
mentre siete l'un de l'altro privati,
per merto mio più grato svago avrete,
che 'l capo batter contro la parete.

Vorria dunque a lorsignorie contare,
come pur fecero un die altri cantori,
di storielle, fabule e nove rare,
che non ne trobereste de migliori.
Non più de Orlando e di suo lungo amare,
né de Ranaldo e de l'altri signori,
bensie como la brama de confisca
fu cagion de guai che mai finisca.

Avvenne adunque che per sventura
se trovò re Ferrante(1) travagliato
non da morbo, carestia o iettatura,
né da' saracini como in passato,
ma da mal di ben altra natura:
avea Carlo de Franza decretato
sì d'al mondo mostar la sua possanza
di Napoli ridurre in sudditanza (2).

Per fronteggiar il periglio incombente
ha senz'altro Ferrante adunato,
in gran copia arme e aiuti subitamente,
che vien da Italia, Spagna e da ogne lato,
sì da scacciar indietro el re fetente.
Son costoro che l'hanno affiancato,
marchesi e duchi e conti e gran signori,
che il mondo abbia i condottier migliori.

Ma se accorrono in sì gran frequenza
a condurre armati in copiosa schiera,
non per certo è senza ricompenza,
che se così fosse, come non era,
sarebbe Ferrante di aiuti senza.
Credean forse il reame una minera,
d'oro, gemme e ricchezze a mai finire,
e che venendo doveano arricchire.

Era però per troppe guerre e acquisti
rimasto il re senza in bocca un dente,
cosicché, essendo i tempi duri e tristi,
non poteva dar loro altro che niente.
Teme 'l dunque che se si fosser visti,
come di fatto era veramente,
da lui falsamente illusi e beffati,
tutti indietro se ne sarian tornati.

Or sappiate c'ha il re per suo maniero,
un castel cotrutto in mezz'al mare,
ch'ai ripidi scogli fa da cimiero,
dov'el con sua corte sole abitare,
né vi conduce strada o sentiero,
ma sol per nave vi si pò approdare.
Qui pensa adunque il furbo re Ferrante,
por rimedio astuto al dinar mancante.

Ognun nel bel castello invita a cena
e quando è ciascuno ingordo sazio,
d'impinzar sua pancia oltremodo piena,
«Signori, a cuor sincero vi ringrazio»,
comincia a dire, con voce serena,
«che mi evitate un sì acerbo strazio,
di essere in mia vecchia età privato
del tron che per trent'anni ho conservato.

Non reputate però che io sia ingrato,
piuttosto che re previdente e saggio,
se quando il periglio sia passato,
né oro né ricche terre a voi daggio,
come pur altrimenti avria usato,
se mi trovassi ancor ne l'antico agio,
perocché, sebben ne sia assai geloso,
vi darò il bene mio più prezioso».

Chiama allora in stanza una fanciulla
di sì grazioso e gentil sembiante,
che splendor del sole varrebbe nulla,
se messo lo si fosse a lei davante.
La prese Ferrante ancora in culla,
e crebbela come fosse sua infante,
'sendo dai genitori abbandonata,
poiché a torto femmina la era nata (3).

Il crine tiene ognor ricolto in trezza,
qual vespro è bruno allor che il volge a sera,
sì lunga che li piedi le carezza,
e del candor di latte la pelle era.
Ciascun quel che vede oltremodo apprezza,
così d'averla per sé solo spera,
ché maggior beltà non avrian trovato
nel pien di maggio in zardin incantato.

«Essa è Beatrice, mia amata nipote»,
la presenta Ferrante, il nonno fiero,
«e io prometto darla con degna dote,
quantunque mi angusti il sol pensiero,
a colui che pruovi sue virtù note
di nobile e valoroso guerriero,
dappoi che armato disceso in battaglia,
più de l'altri i franzosi sbaraglia».

Ora aveva el re servito in brocca
un vin fatato, ch'ognun innamora
de la prima donna che l'occhio tocca. 
Più potente è, per com'il core fora,
dei dardi che 'l puttin Cupido scocca,
così che par che ognun d'amore mora. 
Aveva il cuoco in veritate
per error le dosi esagerate.

Fra tutti più de l'altri ha inver bevuto
un cavallier il qual vien da Melano,
che più non l'avria fornito imbuto,
per como il tracannò sano sano. 
Così, non appena ebbe veduto,
della fanciulla il bellore inumano,
l'amoroso foco il cuor gl'invola,
e più non sa pur dire una parola.

Egli ha per proprio nome Lodovico (4),
e fin da fanciullo è detto Moro,
questo ogn'orbo, non solo io el dico,
per aver l'occhi azzurri e il crine d'oro. 
Adesso è di Ferrante buon amico,
ancorché inimici un tempo foro,
non per virtù o per bontà impellente,
ma per esser lui duca assai potente.

«Neppur depredando il mondo intiero
troverem, maestà, maggior ricchezze»
risponde a nom di tutti il cavalliero,
«che le dolci e gentili sue fattezze,
le quali, non ve ascondo il mio pensiero,
più che terre o che oro apprezze. 
Amor ne spinge ad accettar la sfida:
combattendo, adunque, si decida!»

Tutti quante pien di acclamazione,
Gonzalvo, Diego e Beltran de Ispania,
e altri che ancor non è da far menzione,
fra cui li condottier de Grecia e Albània,
fiduciosi applaudiro il suo sermone,
e ancor li cavallier de l'Alemania,
giudicando ognuno aver presto vinta,
colei che in core Amore avea dipinta.

Frattanto ha Carlo i suo' fanti forniti
de alabarde, cannoni e colubrine,
tutti son feroci e in guerra accaniti,
e in larga schiera seco oltre il confine
li conduce, ver gli italici liti,
giù pe' valichi delle terre alpine. 
Fra i villani ognun ver loro addita,
ben sanno che la pace è ormai finita.

Venuto è il gran dì de la battaglia:
Ferrante nel suo campo ha ragunato,
de la Lega l'audace soldataglia. 
Ognun ver l'inimico è incamminato,
per mostrar quanto sua possanza vaglia. 
Or scorti son dall'uno e l'altro lato:
Ciascun della croce sua fronte segna;
pria dell'aspro furor la quiete regna.

Li Cimbri, gettati in ginocchioni,
la terra bacian tutti co li grugna,
e i trombettier, coi loro accesi suoni,
i soldati eccitano alla pugna. 
Par che il terren di zoccoli risuoni,
mentre ognun correndo sua spada impugna. 
Grandissimo romore in ciel si leva,
e par già che sangue la terra beva.

Il primo a gettarse ne la mischia,
fra quei di Serenissima laguna,
è un che del periglio se ne infischia,
poiché conobbe i turchi ancora in cuna. 
Così, senza pensar, sua vita rischia,
ch'altro non teme che ira di Fortuna,
e vuole abbrancar la dama fiorita,
che a l'adulterio ognor lo invita.

Dai suoi fu questi chiamato Mercuro (5),
dappoi che venne dalle greche acque,
essendo in guerra rapido e sicuro,
avvegnaché Mäurizio il nacque. 
E sì l'abbaglia il suo pensiero impuro,
per quanto inver la fanciulla il piacque, 
che scordata ha la sua promessa sposa,
dacché scorso ha il viso de la rosa.

Appresso vien Melchiorre Trevisano (6), 
capitano rinomato e franco, 
e per natura fiero Veneziano, 
che di guerra non mai è sazio o stanco, 
e non invidia il paladin Tristano. 
Lì accanto a lui, dal lato manco, 
seguon due cavallieri assai prestanti (7), 
giunti al re nemico poco distanti.

Son Francesco, di Mantova marchese, 
e suo zio Rodolfo, assai virile, 
uomo l'uno di non poche pretese, 
l'altro ai dardi d'amore assai ostile, 
dappoi che un dì il suo onore offese, 
la moglie sua snaturata e vile, 
col cui sangue ei fe' la neve rossa 
poi che Lussuria le scavò la fossa (8).

Nondimeno non potendo soffrire, 
della fanciulla soave visione, 
poi che vide ella casta nel vestire, 
e sanza alcuna contaminazione, 
volendo per sé moglie pura avire, 
fece indi questa deliberazione:
o al nipote la vergine sottrarre, 
o ad ambedui il cor dal petto trarre.

Di lor più forti ancora, e più agguerriti,
son due cavallieri, prodi cugini (9),
di spirito indomiti e compiti,
fin da fantolini a la guerra inclini.
Dal medesmo nome sono uniti,
e per pugnar loro sempre vicini,
affinché non sia il racconto perverso,
ne convien chiamarli in modo diverso:

Il maggior, di Napoli il difensore
ed erede al trono designato,
onde ossequiar del padre il genitore,
dacché nacque Ferrandino è chiamato.
L'altro in età, non in virtù minore,
che è di Beatrice fratello adorato,
affettuosamente è detto Nandino,
anch'egli abbandonato da bambino.

Sono poi li cavallier de Bologna
guidati da un giovine virtuoso: (10)
Annibale, che la vittoria agogna,
fra i Bentivoglio il più impetuoso.
Il padre invero pel figliolo sogna
contrarre il matrimonio assai prezioso.
Almen lui, ch'ei da sé nol puote fare,
ché una moglie stallo ad aspettare.

V'è pur fra l'altri il giovinetto Astorre (11)
che piccolin fu signor de Faenza,
dacché la vita al padre volle torre
la madre perfida e priva di decenza.
Ancora vede che dal petto scorre
del padre il sangue ne la sua innocenza,
e perciò in battaglia infuria cruento,
che crede vendicare il tradimento.

Fra le schiere v'è però un tal guerriero,
che ogn'altro in impeto sorpassa,
sì che par redivivo Achille altiero,
e quei che stanno innanzi occide e scassa:
per tal ragione questo condottiero
da ognun è detto Capitan Fracassa (12).
Del sangue altrui è sua spada avara:
non per nulla se chiama Mortamara.

Vien per ultimo il duca Lodovico, 
che avanti ne la pugna ha mandato 
Galeazzo, suo genero e amico (13), 
di lui assai più ardito e preparato, 
il qual cognosce suo timore antico, 
e ha deciso, essendo già sposato, 
la donna addurre in vece sua a Milano 
ed ei guardarla solo da lontano.

Ora sappiate che da fancïullo, 
ebbe Lodovico un grave spavento, 
poiché il fratel suo, duca fasullo, 
essendo folle uomo e assai violento, 
solea prendere un orrido trastullo 
nel mutilar la gente a suo talento (14). 
Le grida ha ancora in testa, e le sevizie, 
né può patir sangue, morti o ingiustizie.

Così sol soletto è col suo Ciuchino, 
che ciuco è detto per combinazione, 
poiché in verità esso è buon ronzino, 
e il vero ciuco è il suo signor padrone: 
che sia vigliacco e pure un po' cretino, 
ben si vede da come è in su l'arcione, 
che par che cada e di tremar nasconda, 
e Trincarotta ha in mano ancora monda.

E comunque tuttavia è pur tranquillo
che niuno scopra il vergognoso inganno,
perché il genero porta il suo vessillo,
e l'elmo e la corazza scambiati hanno,
così l'infamia, che pur gli è assillo,
li altri intiera a Galeazzo danno.
Dite se il gesto è ignobile e meschino:
pur v'è in questo chi 'l supera perfino.

Benché se pugni infatti da ogni parte
perché alcun la vita non gli toglia,
stassene re Carlo a la disparte,
che di combatter non ha proprio voglia,
e lascia che a mostrare in guerra l'arte
siano il conte Lignino e La Tremoglia,
o La Palisse e il cugin d'Orleante,
o ancor Cesare Borgia il gran furfante (15).

Però Ferrante ha la bella nipote
condotto in campo con questo espediente:
perché rimirando sue dolci gote,
non sentano i suoi né botte né niente,
neppur se alcuno in capo li percote,
tanto è in loro foco d'amore ardente.
Così senza neppur troppo travaglio
l'inimici mandarno a lo sbaraglio:

Fuggono essi disordinatamente
al di là del fiume che il pian divide,
e in mezzo al ponte immantinente
un sol cavallier rimaner decide:
Morte non teme e non teme niente,
ché all'Onnipotente sua vita affide.
Elmo non ha, e non indossa corazza,
e pure in sul quel ponte sol se piazza (16).

Quel cavaliere, di bianco vestito,
ver l'inimici sua spada mulina,
di essi ne affronta un numero infinito,
ch'a cento a cento vegnon con ruina:
tiene a bada ognun senza esser ferito,
e l'audaci tutti a morte il destina.
Frecce, lance, picche piovvon dirotte:
balzando le schiva e il fiume le inghiotte.

In brieve dirimpetto a lui s'avanza
di corpi alta una montagna al suolo:
l'inimici perdono lor baldanza,
sicché coperta è, per uno solo,
la ritirata a tutti quei de Franza,
e respinto è de l'italiani il stuolo.
La principessa, che pur questo vede,
a quel veder, per non poter, non crede.

Benché un poco bassa di statura,
è essa figliola già di quindici anni,
né de duchi né de principi ha cura,
né la impietosiscono i loro affanni,
ma del nonno solamente ha premura,
cosicché non pensa ai propri danni
e per lui compiacer fe' promissione
di sposar de la battaglia il campione.

Ma or che veduto ha il cavaliere ardito,
vedeste como la si strugge in core!
Il viso bianco se fa colorito
e sente in corpo un gran calore.
Da come il cor balza in gola impazzito
la crede avere un mortal malore,
e vuol saper chi sia costui che vede
che neppure innanzi a morte cede.

Adunque viene il giovine gagliardo,
cavalier senza macchia né paura,
da ch'il conosce chiamato Baiardo.
Gli è di nobile e genuina natura,
e di Franza il vero e il sol baluardo,
ma se mai qualcuno, per sua sventura,
il vero nome errando pronunzia,
gravi disastri per lui il cielo annunzia.

Mal fece il re che in campo l'ha menata,
quella giovinetta dal viso adorno,
non solo perché la si è innamorata,
ma perché Carlo, che sta lì dattorno,
sua beltà sopraffina ha ben notata,
e non passa invero un solo giorno
che chiede il re potere incontrare
e con lui senz'arme parlamentare.

Accetta Ferrante la sua richiesta,
poiché il è scaciato ma non sconfitto,
e in periglio pur sempre il regno resta.
Fra i due campi, a metà del tragitto,
un padiglione a erigere s'appresta.
Dunque per un pacifico convitto
qui s'incontrano i due re senza scorta.
Ognuno pochi uomini con sé porta:

Orbene ha Carlo voluto il cugino,
imperciocché solo non vuol restare,
e l'altri capitani a sé vicino,
mentre Ferrante pensò ben portare
li soi nipoti e il cantinier col vino.
Beatrice, che in tenda non volle stare,
spera sia il bianco cavallier venuto,
ma tutti guarda e pur non l'ha veduto.

Mal fece, ahimè, saper non poteva
quante doglie e guai d'ora in avante
per quel sol capriccio aver doveva!
Assai la guarda infatti l'Orleante,
che a stento cosa umana gli pareva,
né distoglie l'occhi pur un istante.
Ha infatti il duca moglie sciatta e brutta:
quan Beatrice vede, la vole tutta.

Non è pure il solo che la desira:
La Palisse, il Lignino, La Tremoglia,
ciascuno assorto la donna rimira
e ciascuno di goderne ha voglia,
perfino il Valentino ora sospira,
ch'ella i miseri d'ogni pace spoglia!
Aveva il cantiniere assai sbadato
il vin buon scambiato col vin fatato.

«Ho mosso invero contro voi le armi»
a cominciare allora è Carlo indotto
«per questa pingue terra procacciarmi
ma certo non è da re saggio e accorto,
come molti sogliono giudicarmi,
ai buon cristiani fare ingiusto torto,
quando si può in altro modo accordarsi
acciocché niuno abbia a lamentarsi.

Vostra maestà può farsi sicura
che dacché io ebbi negli occhi riflessa
la dolcissima e angelica figura
di questa virtuosa principessa, 
non ebbe più la mia bontà misura
e ogni ostilità da parte ho messa.
Dite: conoscete voi il duol selvaggio
che nel cuore perpetuamente aggio?

Se in giovinezza foste innamorato,
e aveste per qualcuna zelosïa,
certo quel che io provo, avete provato,
perciò me vogliate per cortesïa
dar vostra nipote in concubinato,
ché se sposarla potessi, il farïa,
ma per trovarmi io già in catene,
darle non posso altro che il mio bene».

Sappiate ora che questo scostumato
Carlo Magno era detto non invano,
non per virtù o per animo elevato,
ma perocché era alto quanto un nano.
Le gambe ha storte e il naso smisurato,
e un tremore incessante ne le mano.
La testa ha poi grossa fuor de misura,
così mostruoso è che fa paura.

Vile assai saria stato, e sozza cosa,
accostar marrubbio fetido e olente
ad una fresca e profumata rosa,
over lezzo di farinel fetente.
Come Beatrice ode la proposa,
il bel viso sbianca in men di niente,
e piuttosto ch'essere in sua balïa,
chiede a Dio che presto morte le dïa.

È re Ferrante cinico e spietato,
ha ucciso, incarcerato e sempre ogni
torto crudel nel sangue vendicato,
ma ancorché finir la guerra agogni,
il ben che le vuole è sì sconfinato,
che mai le daria nulla che le rogni.
Così, all'osceno e indecente sermone,
subito rende giusta responsione:

«Detto mi è stato di voi in veritate
che solete innamorarvi assai spesso
e se davver stoltamente sperate
il mio ben più prezioso aver concesso,
è bene che la bocca v'asciugate
fin da adesso, ch'io ho inver promesso
darla in sposa legittimamente
fra i miei al condottier più promettente.

Villana non è, né d'infimo rango,
anzi nacque fra porpora e oro
né consento che macchiate col fango,
la sua virtù candida e il suo decoro,
perciò saldo al proposito rimango
di darla a colui fra tutti costoro
che per merito si dimostri degno
e di sposarla si prenda impegno».

Pensate adesso se non fu acerba,
per quel francese vizioso e arrogante,
questa risposta dura e superba!
né può tollerar l'affronto umiliante,
ma nuovo rancore in petto serba,
e così, in preda a furore accecante,
non si ritiene, ma in piedi scatta
e un'altra sentenza a quella adatta:

«Tutto v'avrei dato immantinente,
per aver de la dama il fiore incolto,
e nondimeno preferiste niente.
Superbo foste, e però tra non molto
perderete il pane e anche il dente».
Don Ferrante non gli dà pur ascolto,
bensì lascia che coi suoi se ne vada,
ed egli altrettanto prende sua strada.

Tuttavia avea Carlo disegno fatto
a sua insaputa orrido e meschino
d'ottener la fanciulla con un ratto
affinché quella, come l'ermellino
che allorché in inganno col fango è tratto
per non lordare il suo biancor divino
si lascia infin dal cacciator pigliare,
s'avesse così di lui a innamorare.

Dunque aspetta che la tenebra scenda
e il cugino manda con due sgherri
al campo nemico affinché la prenda.
Stanno però due guardie coi ferri
a protezione della di lei tenda,
perché niuno di nascosto l'afferri,
e seco dorme anco il fratel Nandino
che veglia come un toro il vitellino.

Ora s'appressano i tre con cautela
per non far di lor presenza accorgere,
ma l'impresa assai ardua si rivela:
quasi è l'or che il sole debba sorgere,
e udir non vonno alcuna lamentela
che poi debba loro il re rivolgere,
perciò le guardie ferono alla schiena
e a Nando il duca un colpo in capo mena.

Si sveglia la donzella spaventata,
per li romor che d'improvviso sente,
una man la bocca le ha otturata,
per modo che gridar non le consente,
mano e piede la meschina è legata
e in un sacco la gettano piangente.
Quindi lo caricano in su la groppa
del cavallo che indietro galoppa.

«Aiuto! Aiuto!» crida disperata,
«Ahimè, chi sete? Ove me portate?
Nandino, accorri! Ch'io son sequestrata!
Deh, lassatemi! Abbiate pietate!»
E quanto pur si vede ignorata
tanto più strilla e chiama lo frate.
«Taci!» le grida il duca prepotente
«Morto è il frate tuo! Non te sente».

Pensate voi qual penoso sconforto
afflisse allora la miseranda,
non appena seppe ch'egli era morto! 
De seguirlo anch'ella a Dio domanda
e maledice chi gliel'avea estorto.
Non da Carlo intanto, ma a un'altra banda,
la porta il duca, e tolta da l'arcione
la mena seco al proprio padiglione.

Dal sacco egli allora fuor la tira,
e mentre le dispiega la ragione,
in tutta sua eccelsa beltà l'ammira.
Indossa ella solo un camicione
che 'sendo sottile lo sguardo attira,
e ben comprende che ha l'occasione,
per stoltezza di chi l'ha catturata,
di vedersi subito liberata.

«Se voi mi menaste al vostro signore»,
comincia perciò a dirgli smaliziata,
«commettereste certo un grave errore,
ché quando sua sete avrà saziatata
non penserà anche al vostro fervore
e sarà stata mia virtù sprecata.
Per primo invece alla fonte attingete,
che per certo non ve ne pentirete».

Ascolta il duca i suoi dolci prieghi,
sì seducente è nel suo cattivare,
che non trovereste chi le si nieghi,
e sì bisognosa d'amore pare,
quando allettante chiede che la sleghi
che subito la vuole accontentare:
le mani e i piedi lesto le dislaccia
e pur le offre da baciar la faccia.

La donzelletta invece, assai molesta,
getta la maschera e il favor gli rende,
nell'anguinaia un calcio gl'assesta
sicché agonizzante in terra il stende,
poi a fuggir senza esitar s'appresta:
la sua robba e il suo cavallo prende
e nel bosco galoppando si getta,
né vi è pur chi la riprenda in fretta.

Notte non era e non era pur giorno,
all'orizzonte un lieve chiarore
il sole spargeva tutto dattorno:
si desta Nandino dal suo torpore,
e quando s'avvede del grave scorno
più non ragiona dall'aspro dolore,
ma pur ringhiando in sul cavallo monta
e all'intero campo il misfatto conta.

Appena sono gli uomini avvisati
dell'oltraggio a la fanciulla pudica,
a tal punto si sentono indignati
che tutti quante in men che non si dica
armati sono e in sella balzati,
per vendicarsi contro li nemica,
né si saria placato il loro sdegno
prima d'aver di sangue il ferro pregno.

Arrivano, e una strage fanno dunque
nella gran baruffa che si scatena,
ogni tenda aprono e ammazzano chiunque,
ognuno e spade e mazze e pugni mena.
La principessa cercano dovunque
per porre fine a la sua ingiusta pena,
ma solo trovano pur l'Orleante
che ancora in terra sta dolorante.

Riconosce Nando il suo aggressore
e quei che la sorella gl'ha rapito,
gli monta in corpo un tal furore
che già per il collo lo ha ghermito
e inizia a picchiarlo con vigore.
«Canaglia! Manigoldo! Pervertito!
Se non mi rendi adesso mia sorella
ti scanno e ti strappo le budella!»

Tanto lo batte e tanto lo percote
che quello oltre al ratto gli confessa
di come sia rimasto a mani vote
e come l'ingannò la principessa,
ma su dove adesso sia, il capo scote,
e chiede che grazia gli sia concessa.
Nando si riserba finirlo dopo,
che ora gli pare di schiacciare un topo.

Vemente in sella monta e dà di sprone,
che salvar la sorella adesso occorre,
gli viene appresso un intero squadrone
con Galeazzo, Fracassa e pure Astorre:
deciso ha infatti il re che ne l'agone
la vinca chi per primo la soccorre.
Partiti sono tutti i cavallieri,
perfino i francesi e i loro scudieri.

Ciascuno a conquistarla s'è deciso:
pien di ardore sono e pien di speme,
che per ritrovare il suo dolce viso
ognuno spasima e ognuno freme;
ma pur l'uno avrebbe l'altro ucciso,
che d'arrivare tardi infatti teme.
Da ogne canto si misero a cercare:
or può il poema nostro incominciare.

~~~

Note al Canto I:

(1) Ferrante d'Aragona, re di Napoli e figlio di Alfonso il Magnanimo.
(2) L'impresa del regno di Napoli di Carlo VIII di Valois avvenne effettivamente nel 1494 e si concluse più o meno con un disastro nel 1495, ma qui è collocata fuori dal tempo
(3) Si tratta di Beatrice d'Este, secondogenita di Ercole duca di Ferrara, che Ferrante crebbe appunto come fosse sua figlia poiché i genitori non si rallegrarono troppo della sua nascita.
(4) Ludovico Maria Sforza, duca di Milano, era soprannominato Moro per avere i capelli neri e la carnagione scura, e il primo a rifilargli questo nomignolo fu già il padre. Non era particolarmente avvezzo alla guerra e alle armi, per non dire del tutto incapace.
(5) Mercurio Bua Spata, nato in Grecia ma di antica stirpe albanese, fu condottiero della Serenissima Repubblica di Venezia.
(6) Melchiorre Trevisan fu anch'egli condottiero e provveditore della Repubblica Serenissima.
(7) Si tratta di Francesco Gonzaga, marchese di Mantova, e di suo zio Rodolfo.
(8) Stando a quanto si dice, nel giorno di Natale del 1483 Rodolfo Gonzaga sorprese la moglie, Antonia Malatesta, in flagranza di adulterio col suo maestro di danza, uccise l'amante con un colpo di stocco, poi trascinò la moglie ancora nuda in cortile, la sodomizzò e solo dopo averla obbligata a chiedere perdono la finì con un colpo di daga alla testa. Ora non tutti sono d'accordo nel ritenere che i fatti si siano veramente svolti così, quel che è certo però è che le Malatesta sono una brutta razza.
(9) Sono Ferrandino d'Aragona, nipote di Ferrante, principe eccezionale e veramente amato da tutti per le sue qualità, e Ferrante d'Este, fratello di Beatrice che loro madre Eleonora partorì e lasciò a Napoli insieme alla sorella durante un suo soggiorno alla corte del padre.
(10) Annibale Bentivoglio, primogenito di Giovanni II Bentivoglio e Ginevra Sforza.
(11) Astorre III Manfredi, signore di Faenza. La madre, Francesca Bentivoglio, uccise per odio il marito Galeotto Manfredi in una congiura quando il figlio aveva appena tre anni.
(12) Gaspare Sanseverino, detto Capitan Fracassa o anche il nuovo Achille, era figlio del famoso Roberto e condottiero letteralmente indistruttibile.
(13) Galeazzo Sanseverino, fratello di Fracassa, aveva sposato la figlia di Ludovico: Bianca Giovanna Sforza.
(14) Galeazzo Maria Sforza era sadico e perverso, nonché leggermente pazzo, suo diletti usuali erano: stuprare le mogli dei propri sudditi, costringere le amanti alla prostituzione, mutilare/castrare i suoi amici, condannare a morte innocenti, sguinzagliare i cani contro gli ambasciatori, e, ultimo ma non ultimo, ammirare i cadaveri nei sepolcri.
(15) Si tratta di Luigi di Lussemburgo conte di Ligny, Luigi de La Tremoille, Jacques Chabannes de La Palice, Luigi d'Orléans e Cesare Borgia, quest'ultimo il famigerato figlio del Papa.
(16) È Pierre Terrail de Bayard, Cavaliere senza macchia e senza paura, l
eale, giusto e misericordioso, ultimo vero esponete della cavalleria antica e dei i suoi valori. Divenne famoso per l'impresa sul ponte del Garigliano, in cui effettivamente affrontò da solo, si dice addirittura senza elmo e senza corazza, circa quattrocento cavalieri spagnoli, riuscendo a garantire ai suoi la ritirata.

 

   
 
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