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Autore: BabaYagaIsBack    04/04/2020    1 recensioni
Félicienne ha perso qualcosa.
Qualcuno, in realtà.
Un giorno qualunque, di qualche tempo prima, si era decisa a confessare tutto ciò che aveva tenuto segreto per quasi dieci anni. Aveva trovato il coraggio per esporsi, per assumersi le proprie responsabilità, peccato che quello che avrebbe dovuto essere il suo confessore avesse scelto di abbandonarla per sempre. Così, costretta in una vita troppo stretta, in un quartiere di Marsiglia che è diventato ogni giorno più soffocante, Fèlì cresce, lottando contro sé stessa e ciò che non ha potuto dire. Il risentimento e la rabbia non l'abbandonano mai, esattamente come i ricordi e quello che ancora è suo - solo suo.
Il destino però non ama giocare leale e quindi, in qualche modo, ciò che le aveva portato via anni prima le rimette davanti agli occhi, aggredendola con sensazioni molto più vivide e profonde di quelle che lei abbia mai potuto conoscere, emozioni capaci di scavare sia nell'anima sia nella carne di una ragazza all'apparenza fin troppo fragile.
Genere: Erotico, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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Le mémoire que j'ai de toi

Avevo diciotto anni, lo ricordo ancora come se non fosse passato un singolo giorno, ma in realtà ne sono trascorsi a centinaia. Quel venerdì mattina, con il cuore bloccato in gola, avevo sceso le scale del Secondo stringendo forte le spalline di una eastpack che adesso mi osserva dal fondo dell'armadio gonfia, come lo stomaco gravido di una giumenta,  di memorie che ho cercato di nascondere alla vista, ma restano incise tra le costole.

Mi ero svegliata ancor prima dell'alba, sopraffatta dalla stessa ansia che mi aveva tenuta in piedi per buona parte della notte. Avevo temuto di non riuscire a sbrigare tutto per tempo, di fare tardi, di lasciarti prendere l'autobus da solo e perdere così l'occasione che mi ero decisa a creare, perché a furia di aspettare erano trascorsi inverni e primavere. Mi ero sistemata i capelli nel miglior modo che al tempo conoscevo, truccata come le amiche più esperte mi avevano insegnato e, sotto alla solita giacca di jeans, quella che ho abbandonato sulla moquette appena sono fuggita dalla cucina dove mi hai nuovamente colta impreparata, mi ero premurata di mettere una maglia che esaltasse le sottospecie di curve che Madre Natura mi aveva concesso; sempre troppo prorompenti dove non avrebbero dovuto e timide dove invece sarebbero servite. Volevo dimostrarti di non essere più la bambina di sei anni che ti eri ritrovato sul pianerottolo il giorno in cui arrivasti a Marsiglia, quella con cui dai giochi infantili eri passato ai divertimenti preadolescenziali per finire nei discorsi da quasi adulti, quindi mi ero premurata al meglio in vista di ciò che finalmente ti avrei detto - dopo tutto quel tempo, le giornate spese in casa tua a parlare, leggere e guardare film, dopo aver spiato silenziosa ogni bacio che avevi concesso a bellissime ragazze a me sconosciute, o ascoltato, con la faccia premuta sul cuscino, gli orgasmi che ti erano sfuggiti dalle labbra, finalmente mi ero decisa. 
Non avevo idea di come si facesse, di quali parole si usassero in simili circostanze, ma dopo tanti anni e a un passo dalla tua laurea mi ero convinta di non poter più aspettare. E allora ero corsa verso l'androne del nostro palazzo facendo i gradini a due a due, cercando di arrivare il più velocemente possibile lì dove ero certa tu mi stessi aspettando. Come sempre ti trovai intento a guardare l'orizzonte grigio, mentre il tepore del sole nascente ti accarezzava il profilo, dando al tuo biondo spento sfumature infuocate. Sembravi una sorta di Apollo caduto dalla vetta dell'Olimpo: nostalgico e invocato a gran voce dai fratelli che avevi perduto, a un passo dal fuggirmi via. Ed io ti osservai per un breve istante, persa a immaginare di poterti sfiorare come una serva devota che incontra il suo padrone, ignara del fatto che avrei potuto perderti da un momento all'altro.


L'odore acre della sigaretta che tenevi tra le dita, quelle che io bramavo come una lucertola in cerca di calore, riempiva l'aria, così come quello della mia sta ora infestando la camera, pizzicandomi il naso - questo vizio me lo hai lasciato tu, insieme a tutto ciò che mi fa male, eppure non smetto, né con la nicotina né con i rimpianti.


Quel venerdì mattina mi avvicinai sentendo lo stomaco ribaltarsi nella pancia, stretto in una morsa nauseante. Ero decisa e al contempo terrorizzata. Muovevo passi incerti senza mai fermarmi - e tu ti accorgesti di me prima ancora che ti fossi accanto; riconoscevi il mio andamento titubante, o forse le mie paure.

Scostasti una ciocca facendomi sobbalzare appena e, così, mi riportasti violentemente con i piedi per terra, ricordandomi ciò che avrei dovuto fare. Quello era il momento perfetto, solo noi in quell'angolo di mondo che ci aveva uniti, eppure non trovai la voce. La persi nel momento in cui calasti lo sguardo su di me. Severo, assente. I tuoi occhi parvero guardarmi con una sufficienza che non mi sarei mai immaginata mi avresti riservato. Non era la prima volta che sul tuo viso prendeva forma un'espressione tanto ostile, fredda, ma al tempo non capii cosa vi si nascondesse realmente dietro. Non compresi la tua bocca stretta in una linea dura, né il silenzio con cui percorremmo la strada fino alla pensilina e poi al centro città. Mi convinsi che fosse colpa di un qualche esame imminente, della tensione che non potevi sfogare altrimenti - Clèmentine ancora oggi afferma che lo stress alle volte ci rende scontrosi, ma quel giorno c'era altro a turbare i tuoi pensieri - così attesi. Ti salutai alla biforcazione che divideva le nostre strade e lasciai che le ore di scuola passassero nella solita noiosa routine, attendendo con ansia il momento in cui ci saremmo nuovamente ritrovati sullo stesso autobus. Non immaginavo che da quell'istante i percorsi che avevamo preso si sarebbero divisi in modo così netto, impedendoci di camminare nuovamente sulla stessa striscia d'asfalto. Nella mia mente da ragazzetta, ancora troppo ingenua per capire determinate cose, non esisteva la possibilità che i nostri mondi prendessero a ruotare su due orbite differenti, eppure oggi, con il senno di poi, mi domando se non avessero iniziato ad allontanarsi tempo prima.


Quella, ad ogni modo, fu la prima occasione in cui dei ragazzi si accorsero di me, in cui ricevetti dei complimenti. Ne fui lusingata, anche se a metà - avrei voluto che fosse la tua bocca a pronunciare simili parole, ma qualcosa in te si era definitivamente spezzato, quel venerdì. Io mi ero fatta carina, avevo sciolto i capelli e tirato sul viso linee di kajal che avrei voluto tu notassi e apprezzassi, ma ancora mi domando se te ne sia reso conto o meno, se almeno uno dei miei sforzi avesse erroneamente catturato la tua attenzione. 
Mi ero preparata come una sposa per la sua prima notte di nozze, ma tu ignorasti ogni mio accorgimento. Silenziosamente rifiutasti ogni parola che avrei dovuto dirti ma non ti confessai mai - e quando a fine lezione non ti trovai né alla fermata né sull'autobus verso casa, iniziai a capire.

Alla fine di quell'orribile giorno, che nella mia testa avrebbe dovuto essere tanto speciale, bussai alla porta di casa tua e, ritrovandomi davanti il viso scavato e gli occhi rossi del Signor Petrov, il padre che per te era scappato dalla guerra dell'Est Europa, mi fu chiaro che non ci sarebbe stata una seconda possibilità. Avevo perso ogni occasione di svelarti il mio amore e tu, con quel gesto, mi spezzasti per sempre. Sì, perché il fatto che mi avessi tenuta all'oscuro di una simile vigliaccata fu sufficiente a farmi capire che mi avevi sempre considerato insignificante, un mero passatempo per le tue ore buche. Mi urtasti con la stessa violenza di un tir, lasciandomi sul ciglio della carreggiata a morire mentre il sangue sgorgava dal petto e da quella bocca che non era riuscita ad aprirsi quando ne aveva avuto l'occasione. 
Nella mia testa avevi commesso la più vile delle azioni, trasformando ogni momento insieme in una farsa. Mi convinsi che per te altro non ero se non la mocciosa che ti faceva compagnia, la rompiscatole che ti portavi appresso, la figlia dei vicini che sfortunatamente ti era capitato di avere accanto. Passai ore a crogiolarmi su quel pensiero, smettendo di trovare gioia in qualsiasi angolo di Marsiglia che ci aveva visti l'uno accanto all'altra. Diventai acida e scontrosa, mi lasciai sprofondare in una sorta di auto-commiserazione che ancora adesso fatico a staccarmi di dosso. Ci volle tempo, molto forse, ma alla fine arrivai semplicemente a credere di non essere mai stata abbastanza importante da venir informata della tua partenza, del tuo lavoro strapagato in una compagnia estera e della laurea che avresti conseguito altrove. La mia presenza nella tua vita non valeva alcuna spiegazione, figurarsi una lettera, una chiamata o addirittura un ritorno.

Andasti via e mai tornasti, se non stampato su qualche giornale di business o gossip.

Così, mentre ora apro le ante della mia finestra, nemmeno mi volto a guardare quelle di camera tua; tanto la luce è spenta e le tende sono tirate, il tuo letto è vuoto e se avvicino l'orecchio alla parete non sento nulla - non musica o risate, non gemiti o sospiri.

   
 
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