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Autore: Melabanana_    05/04/2020    1 recensioni
SPY ELEVEN AU. Raccolta di oneshot prequel/sequel incentrate su personaggi secondari che non hanno avuto molto spazio nella storia principale.
I. binary stars α (Fubuki Shirou & Fubuki Atsuya): una vicenda che si è svolta prima che arrivassero a Tokyo.
II. ribcage poetry (Yagami Reina): racconta l'infanzia di Reina, l'anno passato al centro di addestramento e la nascita della sua amicizia con Maki.
III. we dream of fire (Heat & Nepper): la storia di come Heat e Nepper sono diventati partner.
Genere: Angst | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Hayden Frost/Atsuya Fubuki, Isabelle/Reina, Nuovo personaggio, Shawn/Shirou
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Spy Eleven -Inazuma Agency '
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Grazie a RaffyRen97 e Shinkocchi_ per avermi fatto da beta.
 
ribcage poetry
~Yagami Reina~
 
 
China sopra di lei c’era una spiga di grano. Siccome era molto più alta rispetto a lei, sembrava guardarla dall’alto in basso, chiedendole, Cosa ci fai qui?, poco prima che un filo di vento la facesse ondeggiare su e giù, di qua e di là. Reina non sapeva cosa rispondere.
Poco prima, ne era certa, si era addormentata in veranda. Stava leggendo un libro illustrato e colorando diligentemente le figure bianche e nere, stesa a pancia in giù sul parquet, con una matita colorata dietro l’orecchio e le altre sparse in giro sul pavimento. Sua madre la rimproverava sempre quando la beccava a dormicchiare là per terra, eppure Reina non poteva rinunciarci: aveva imparato che, subito dopo l’ora di pranzo, il sole si spostava da quel lato della casa ed inondava di luce e calore la veranda, trasformandola nel luogo più piacevole del mondo. Proprio in quell’ora, quell’angoletto del loro giardino illuminato dal sole attirava anche degli uccellini, che venivano là per sonnecchiare e scaldarsi; un altro dei motivi per cui quello era il posto preferito di Reina.
Quindi, cosa ci faceva lei, adesso, in mezzo ad un campo di spighe dorate?
Si guardò intorno: quel posto le ricordava la loro casa di campagna, solo che non c’era la casa, né l’orto di suo padre... C’era soltanto il grano, che ondeggiava col vento. Sopra di loro si estendeva un cielo grigio, no, bianco sporco, no... Reina arricciò le labbra. Esiste un colore così… incolore? La sua mente non riusciva ad afferrare il concetto di un colore-non-colore. Può il cielo essere trasparente come l’aria? In quel posto tutto... non era. Non c’erano nemmeno i suoni, né la sua voce, né quella del vento. Riusciva, invece, non sapeva come, a vedere l’aria.
L’aria era fluida come acqua. Reina era stata una volta in piscina coi propri genitori, e sua madre le aveva insegnato a mantenere il fiato sott’acqua. Il ricordo riaffiorò in lei proprio in quel momento, perché l’aria era uguale all’acqua, quando scendi giù e spalanchi gli occhi e vedi tutto ondulato e non ci sono suoni. Reina tornò a guardare in su. Ora che la osservava meglio, la spiga sembrava più triste che altro; forse per questo si era incurvata. Forse non amava stare sott’acqua. A quel punto, Reina decise che era tutto un sogno: ecco com’era arrivata fin lì dalla veranda di casa sua. Si girò, scrutò la zona in punta di piedi e poi si incamminò nella direzione in cui credeva ci fosse il loro curatissimo orto. Avere solo nove anni non significava essere una sprovveduta e, anche se non c’erano stelle, Reina era sicura di saper ritrovare la strada di casa.
In realtà, la casa non la trovò, ma vide i suoi genitori. Stavano entrambi fermi in mezzo al grano e fissavano in giù, esattamente come le spighe. Quando Reina si avvicinò, provò a chiedere loro di riportarla a casa, ma loro non si mossero. Forse non l’avevano sentita. Mentre loro continuavano a fissare il terreno in totale silenzio, il vento si sollevò sempre di più, fino a travolgere il campo di grano come la marea e li fece ondeggiare insieme alle spighe. Ben presto, la marea si ritirò e i due adulti scomparvero in un vortice di fili dorati. Reina restò da sola, coi piedi ben piantati per terra.
 
xxx
 
«Chi vorrebbe mai tenere con sé una bambina come quella?».
Sebbene fosse stata bisbigliata, la domanda raggiunse perfettamente tutti i commensali a tavola. Subito dopo aver offerto le proprie condoglianze, gli invitati avevano passato la mattinata a bere e mangiare, e l’intera casa degli Yagami si era riempita di un solo colore, il nero, una grande macchia di inchiostro in continua, inesorabile espansione. Quando i primi bisbigli cominciarono a sollevarsi intorno alla tavola, tutti rallentarono i propri movimenti in modo da poter prestare orecchio alla conversazione, pur senza smettere di servirsi.
«Dicono che, poco prima della loro morte, avesse cominciato a dire delle cose terribili. È come se lei, la bambina, avesse portato loro sfortuna!».
«Stupidaggini! Io, lo sai, sono sempre stato un uomo ragionevole. Ma come potrei accogliere quella bambina chiacchierona e bugiarda nella mia casa?».
Mentre gli adulti parlavano male di lei, Reina se ne stava da sola in disparte, seduta a terra in posizione seiza, con un piattino di ceramica in grembo. Nonostante non avesse tanto appetito, stava spiluccando il riso da alcuni tamago-nigiri che aveva trafugato dal buffet poco prima che la stanza si riempisse. Ogni tanto, mentre prendeva un chicco di riso alla volta e se li portava alla bocca in totale silenzio, una lacrima le cadeva nel piatto. La foto dei suoi genitori che era stata utilizzata per la cerimonia giaceva accanto a lei, appoggiata al muro, e ancora adesso non riusciva a guardarli negli occhi.
 
xxx
 
(Pazza. Bugiarda.
Devi stare zitta e ascoltare.
                     Comportati da signorina.                      
Disgraziata.
Mio padre è morto per colpa tua!                                          
Vuoi attenzione, forse?!
Porti sventura. Porti sventura.)
 
xxx
 
La persona che era venuta a prenderla aveva l’aria di non voler restare molto in quella casa. Gli zii avevano parlato tanto di quella persona nell’ultima settimana: era stato l’argomento più discusso con parenti, amici e vicinato, anche se, naturalmente, a essere raccontata era una versione migliorata della storia. In teoria, era andata così: un sabato mattina, di punto in bianco, quella persona aveva telefonato e aveva chiesto di Reina. Il problema era che nessuno chiedeva mai di Reina. Studiava privatamente, a casa, e pochi nel vicinato aveva scambiato due parole con lei da quando era arrivata. Gli zii si erano premurati di rendere la sua esistenza il più insignificante possibile, così che nessuno avrebbe fatto domande su quella ragazzina che tutto il parentado si era scambiato per anni e anni, spedendola di qua e di là come un pacco postale, o un regalo natalizio che non piace a nessuno.
Tuttavia, quella persona, che sembrava essere piuttosto importante, sapeva dell’esistenza di Reina. Ed era persino disposta a prenderla nella propria “scuola per ragazzi speciali”.
La mattina dell’appuntamento, lo zio e la zia aspettarono l’ospite nell’ingresso di casa. Troppo nervosi ed indiscreti per distrarsi con altri servizi, lui fingeva di leggere il giornale, lei di fare la calza; e, anche se non si sentiva volare una mosca, di certo nelle loro menti c’era un gran lavorio.
Da parte sua, Reina aveva già fatto i bagagli da un pezzo e teneva d’occhio la strada dalla finestra della sua camera. Non appena vide un’auto sostare davanti alla casa, scese nell’ingresso. Traslocare da un posto all’altro non era una novità per lei, e certamente non aveva mai nutrito sentimenti di eccitazione o aspettative al riguardo. In questo caso, però, era incuriosita da quella persona. Si mise in un angolo, in disparte, e gli zii non la notarono neanche. Anche loro si erano accorti che l’ospite tanto attesa era arrivata e si affrettarono a mettere via tutto. Aprirono la porta con foga ancora prima che venisse bussato il campanello.
Davanti a loro c’era una donna giovane, ma sicuramente già adulta. Gli zii la fecero entrare e le offrirono del tè, ma la donna non sembrava apprezzare tutta quell’attenzione, perciò in breve tempo si passò dai convenevoli alle domande. Mentre gli adulti parlavano, Reina rimase a distanza, senza però perdersi un attimo del serrato interrogatorio. Il nome della donna era Kira Hitomiko. No, non era sposata. No, non insegnava da molto. Sì, veniva da Tokyo. La signorina Kira era molto riservata, fredda come un mattino d’inverno, e questo fu tutto ciò che gli zii riuscirono a cavarle di bocca.
Finalmente arrivò la fatidica domanda.
«Kira-san, sono terribilmente spiacente di doverlo chiedere, ma… Credo che dovremmo discutere dei costi» disse infatti lo zio. Non sembrava affatto dispiaciuto. La moglie, invece, appariva piuttosto imbarazzata della schiettezza del coniuge e evitava di sollevare lo sguardo dal pavimento. Ma la signorina Kira rimase impassibile.
«Come le ho già anticipato per telefono, la ragazza non dovrà pagare alcuna retta. L’unica cosa che dovrà fare è frequentare la nostra scuola, e le garantisco che ci occuperemo di lei al meglio. Vitto e alloggio sono inclusi, naturalmente».
Reina la fissò, sorpresa, poi azzardò un’occhiata verso gli zii. Era ovvio che avevano accolto la notizia con sollievo. Avrebbero forse acconsentito a pagare una retta, se fosse stata modesta, ma non avevano molti soldi da parte. Onestamente sembrava un affare troppo buono per essere vero. Reina tornò a guardare la signorina Kira e, per un momento, i loro occhi si incrociarono. La donna mantenne il contatto visivo per una manciata di secondi, poi si girò nuovamente verso gli altri.
«Se lo desiderate, vi terrò aggiornati sulle condizioni della ragazza» disse. Estrasse dalla tasca della propria giacca un biglietto da visita e lo offrì allo zio. «Qui ci sono tutti i nostri contatti. Sarà anche possibile chiamare per telefono la ragazza ogni due settimane».  
Marito e moglie si scambiarono uno sguardo discreto, ma eloquente.
«Lo terremo presente-» disse lui con un sorriso. «Ma sono certo che vi prenderete cura di lei... Sì, sono certo che questa sistemazione sarà la soluzione migliore per tutti». Intascò il biglietto, ma era chiaro che non aveva alcuna intenzione di chiamare.
«Tesoro, vai a chiamare la ragazza» aggiunse, e la zia annuì. Girandosi, si accorse finalmente di Reina e sussultò come se non si aspettasse di trovarla lì. Non era la prima volta che capitava. La zia si portò una mano alla fronte e sospirò, esasperata. 
«Oh cielo, da quanto sei lì in silenzio? Vieni qui, vieni, cara» le disse, esitante. Quando Reina si avvicinò, trascinando con sé i propri averi, la zia la scrutò per qualche istante. Poi la superò, andò all’appendiabiti e prese un giubbino nero, imbottito; lo diede a Reina.
«La tua giacca è troppo leggera per questa stagione, e come farai per l’inverno? Non ho avuto il tempo di comprartene una nuova... Prendi questo con te, non c’è bisogno che me lo restituisci» bofonchiò a capo chino, e Reina intuì che nessuno di loro tre si illudeva che si sarebbero più rivisti. Chinò la testa in segno di gratitudine, poi uscì con la signorina Kira.
Attraversarono il vialetto che divideva in due il cortile ed entrarono in una monovolume color ocra. Partirono subito.
Per un po’, nessuna delle due aprì bocca: la signorina Kira guardava la strada davanti a sé, mentre Reina cercava di allentare la tensione fingendosi interessata al paesaggio che scorreva fuori dal finestrino. Amareggiata, si accorse presto che non riconosceva nessun posto, nessuna strada: aveva vissuto in quel quartiere per quasi due anni, ma non lo conosceva affatto.
Fu la signorina Kira a rompere il ghiaccio, o almeno ci provò.
«Non ci siamo ancora presentate, tu e io. Il mio nome è Kira Hitomiko, ma puoi chiamarmi per nome» disse, senza distogliere gli occhi dalla strada. Tacque per un momento.
«Ora, se apri il cassetto di fronte al tuo posto, troverai una lettera. Lì c’è tutto quello che devi sapere, per il momento».
Reina eseguì le istruzioni e trovò la lettera, chiusa in una busta gialla. Cercò di non mostrarsi troppo interessata, ma in realtà quella lettera aveva tutta l’aria di essere la cosa più emozionante che le fosse mai capitata. La rigirò tra le dita un paio di volte, indecisa sul da farsi. Hitomiko si accigliò.
«Be’, che aspetti? Aprila» la incoraggiò. Reina scosse il capo.
«No... Mi scusi, ma a leggere in auto mi verrebbe la nausea» replicò sommessamente. Hitomiko parve sorpresa di sentirla parlare.
«È la prima volta che sento la tua voce. Sono sollevata» disse. Reina si accorse che la donna stava sorridendo.
«Io sono… Yagami Reina» mormorò. Anche se Hitomiko lo sapeva già, Reina aveva sentito il bisogno di dirlo, per non lasciare in sospeso la conversazione. Hitomiko annuì, sempre con un sorriso. Sul parabrezza dell’auto cominciarono a cadere alcune gocce di pioggia, che via via divenne più fitta. A suo agio nel silenzio che era nuovamente calato nella macchina, Reina seguiva con lo sguardo il cammino delle gocce lungo il finestrino. Alle elementari aveva imparato una canzone sulla pioggia, com’è che faceva? Era passato tanto tempo. Le gocce picchiettavano contro i vetri come picchi, e Reina resistette all’impulso di tracciare i loro percorsi con un dito. Strinse forte la lettera al petto, come se qualcuno potesse sottrargliela da un momento all’altro.
 
xxx
 
La scuola dove Hitomiko insegnava non sembrava per niente una scuola.
Si trovava in mezzo a una radura, alle cui spalle si estendeva un piccolo bosco; dal momento che gli alberi erano ormai spogli, guardando tra i rami s’intravedevano in lontananza delle recinzioni, che forse delimitavano un cortile. L’edificio era una specie di cilindro di cemento, alto circa tre piani, ognuno dei quali aveva diverse finestre a pannelli trasparenti. L’ingresso era sormontato da un porticato di cemento armato.
Hitomiko parcheggiò la monovolume nello spazio davanti alla scuola, tra ceppi di alberi tagliati di netto. La donna aspettò che Reina uscisse dall’auto e prendesse tutti i suoi bagagli prima di incamminarsi verso l’entrata. A Reina non restò che seguirla, affrettandosi per non trovarsi sola in un ambiente sconosciuto. Le foglie cadute si erano ammucchiate sul terreno, probabilmente sospinte dal vento, e scricchiolavano sotto le scarpe. Quando Reina la raggiunse sotto il porticato, Hitomiko tirò fuori una tessera dalla tasca della giacca e la premette contro un pannello elettronico sulla parete. La porta a scorrimento si aprì automaticamente. Reina seguì Hitomiko all’interno.
Appena entrate, svoltarono a destra e sbucarono in un corridoio tappezzato di quadratini blu, azzurri, bianchi e gialli, disposti a mosaico per creare delle figure geometriche. Non incrociarono nessuno lungo la strada; forse erano tutti a lezione?
Dopo un po’ Reina vide una porta grigia alla fine del corridoio e immaginò che dovesse essere l’ufficio di Hitomiko. A conferma di ciò, la donna andò spedita verso la porta e la aprì senza bussare; poi, una volta dentro, si tolse la giacca e la sistemò su un appendiabiti a muro. Invitò Reina a fare lo stesso, ma la ragazza scosse il capo mentre osservava silenziosamente la stanza.
Era un ufficio modesto, molto semplice. In fondo alla stanza, proprio davanti alla finestra, c’era una sottile scrivania di metallo, girata in modo da poter godere della luce naturale fino all’ultimo istante. Lo sguardo di Reina scivolò sui pochi oggetti presenti: una tazza con tre penne, un pennello per calligrafia e delle matite con la punta finemente temperata; una boccetta d’inchiostro sigillata; una pila ordinata di fogli puliti; un portafoto di legno ovale, voltato verso la finestra. Reina spostò lo sguardo sulla propria destra. Una pergamena battuta a macchina era stata incorniciata con cura e, al di sotto, un tozzo mobiletto azzurro era stato incastrato in un angolo: attraverso le vetrinette opache, chiuse con un lucchetto, si riusciva a intravedere il dorso dei libri conservati al suo interno. Avevano l’aria consumata, come se fossero stati letti e maneggiati più volte. Al lato del mobile, c’era un ragazzo stravaccato su un divano blu a due posti. Per via della posizione, la felpa gli era salita un po’ sulla pancia, lasciando visibile una striscia di pelle scura proprio sopra la vita dei pantaloni.
La presenza di una terza persona era qualcosa a cui Reina non era preparata, e d’istinto fece un passo indietro. In quel momento il ragazzo alzò la testa verso di lei e, quando i loro occhi si incrociarono, si raddrizzò di colpo, quasi mortificato per lo stato in cui l’avevano trovato. I capelli bianchi gli ricaddero sul viso e coprirono gli occhi. Aveva un aspetto alquanto insolito, per cui Reina non poté fare a meno di fissarlo, finché non si rese conto che era scortese e abbassò lo sguardo a sua volta. Non sapeva come comportarsi con quel ragazzo, perciò esitava a sedersi accanto a lui.
Hitomiko, intanto, si era accomodata su una sedia girevole, dietro la scrivania. Non sembrava aver notato lo scambio di sguardi tra i due ragazzi, o forse non le interessava; si accorse, tuttavia, dell’esitazione di Reina.
«Qualcosa non va, Yagami?» chiese, accigliata.
Reina strinse le labbra.
«No» rispose. Mostrarsi debole il primo giorno non era una buona idea, e a lei non erano concesse false partenze. Questa era la sua unica possibilità di cambiare la sua vita, non poteva sprecarla. Perciò si sganciò lo zaino dalle spalle e si sedette accanto al ragazzo, stringendosi quanto più possibile nell’angolo opposto del divano. Era impossibile non accorgersi che lo stava evitando, ma il ragazzo non disse nulla. Sembrava essersi irrigidito.
«Per cominciare, Yagami, vorrei che leggessi quella lettera» disse Hitomiko, pacata.
Reina annuì e, anche se perplessa, aprì la busta. Dentro c’era un solo foglio, scritto molto fitto. Lo lesse con molta attenzione, con la speranza di trovare le risposte che cercava, ma, al contrario, il contenuto la confuse ancora di più.
«Non capisco» mormorò alla fine, abbassando il foglio. Hitomiko la guardava. Reina capì che quello era il momento di fare domande, e che forse non ce ne sarebbero stati molti.
«Questa non è una scuola, vero?».
«Non proprio, no. Ma, in un certo senso, è come una scuola. Parteciperai alle lezioni con altri ragazzi come voi e ti saranno insegnate varie cose. Sarò io la vostra insegnante».
«Lei è una...», Reina abbassò lo sguardo sulla lettera, esitante, «...Spy Eleven?» Corrugò la fronte. Sembrava inglese, forse aveva sbagliato la pronuncia.
Hitomiko scosse il capo.
«No, sono solo alle dipendenze di una Spy Eleven. Ma affronteremo più in là questo discorso. Se hai altre domande riguardo alla scuola, invece, risponderò adesso».
Reina si fermò a riflettere. Nel frattempo, il ragazzo accanto a lei alzò la mano, come se volesse dire qualcosa. Hitomiko gli fece un cenno col capo.
«Non siamo a lezione, puoi parlare liberamente» disse. Lui abbassò la mano, imbarazzato.
«Ah, mi scusi, Hitomiko-san, volevo chiederle... a proposito di Saginuma-san… Si trova anche lui qui?» domandò, speranzoso.
«Saginuma in questo momento non è qui. È partito ieri per occuparsi di alcuni affari importanti in Hokkaido. Prima di partire, però, mi ha spiegato qual è la tua situazione, Zell». Quando Hitomiko lo chiamò per nome, Zell ebbe un sussulto quasi impercettibile, di cui Reina si accorse solo perché erano seduti vicini. Poi il ragazzo sprofondò nel divano, imbronciato. Sembrava molto contrariato da quella risposta.
«Fin quando Saginuma non sarà di nuovo libero, dovrai restare qui, sotto la mia supervisione. Ma avremo modo di approfondire questo discorso, insieme a quello sulle Spy Eleven, ve lo prometto. In un certo senso, le cose sono correlate» continuò Hitomiko, imperterrita.
«Se non ci sono altre domande, vorrei parlare della seconda parte della lettera. Yagami, immagino che, prima di oggi, tu non abbia mai sentito parlare dei drifter e dei doni».
Non appena Reina annuì, Hitomiko si lanciò in una breve, ma esaustiva, spiegazione su cosa fossero i doni e i drifter, e a cosa servisse quella scuola...
Solo allora Reina capì perché la sua vita era stata segnata da tanta sventura. Aveva ricevuto un dono, no, una maledizione. Per anni si era chiesta cosa avesse fatto di male per meritarselo, ma la verità era che non aveva fatto nulla. Lei quel potere non l’aveva mai chiesto, né voluto, e se ne sarebbe volentieri liberata. Ripensò ai suoi genitori, e le venne quasi da vomitare.
Sussultò sentendo un leggero tocco sulla spalla.
«Ehi, stai bene? Sei impallidita di colpo» le bisbigliò Zell. Sembrava preoccupato per lei. Reina deglutì, non sapeva come rispondere. Forse doveva vomitare davvero. Si premette le mani sulla bocca. A quel punto, anche Hitomiko notò che qualcosa non andava e interruppe la spiegazione. Senza dire nulla, si alzò, fece il giro della scrivania e si chinò verso di lei.
«Yagami? Ascoltami bene. Inspira a fondo, espira lentamente. Non pensare a niente» le disse, e cominciò a massaggiarle la schiena con inaspettata dolcezza. Reina provò a liberare la mente ed eseguire quelle semplici istruzioni.
«Zell, nel cassetto ci sono delle buste di carta. Ne prenderesti una?» Sentì Hitomiko parlare sopra la sua testa, e con la coda dell’occhio vide Zell alzarsi, andare alla scrivania e tornare indietro. Hitomiko aprì la busta e la premette gentilmente sul viso di Reina.
«Respira qui dentro» le disse. «Andrà tutto bene. È solo un piccolo attacco di panico».
Sembrava abituata a gestire quel tipo di situazioni.
Reina la lasciò fare e, pian piano, riuscì a riprendere il controllo di sé. Zell era ancora in piedi davanti a loro, e fino alla fine Reina si concentrò sui lacci delle sue scarpe, su nodi e intrecci: grazie a quella distrazione, riuscì a scacciare la nausea.
Sollevò una mano tremante e la chiuse attorno al polso di Hitomiko. La donna capì al volo e allontanò il sacchetto dalla sua bocca, continuando però a massaggiarle la schiena con l’altra mano. Reina tirò due lunghi respiri prima di parlare.
«Hitomiko-san...» La voce le uscì spezzata e tremula, e lei la odiava. «Quella cosa, quello che io faccio... non è un dono, non lo è, non è utile a niente... Io, io non dovrei essere qui...!».
Stupida!, gridò la voce della ragione, nella sua testa. Ora ti cacceranno e non avrai più un posto dove stare!
Ma cosa importa?, pensò poi, sconsolata. Non potrò mai usare il mio potere in un modo utile. Non so come fare. Fallirò ancora prima di cominciare.
«Credo che ci sia stato un equivoco, Yagami. Non siamo qui per sfruttare i vostri poteri, quindi non importa che sia “utile” o meno. Questo posto esiste per addestrare i drifter e tenerli al sicuro dal mondo esterno» disse Hitomiko. «Vogliamo soltanto aiutarvi, così che possiate avere un futuro».
Reina alzò il viso di scatto e, con suo grande stupore, le parve di vedere un’espressione tenera sul volto di Hitomiko. Le diede il coraggio di azzardare una domanda che altrimenti non avrebbe mai fatto.
«Quindi… vado bene così? Posso... restare?».
«Certo che sì» rispose subito Hitomiko.
Anche se i suoi dubbi erano ben lontani dall’essere risolti, Reina si sentì inondare dal sollievo e dalla gratitudine. Mormorò un ringraziamento molto sentito, soffocato dall’emozione, e abbassò di nuovo lo sguardo. Un rossore le imporporava le guance. Adesso si sentiva molto in imbarazzo per come aveva reagito.
A quel punto Zell tornò a sedersi e Hitomiko decise che era meglio cambiare argomento. Cominciò a spiegare loro come funzionava il centro.
«Durante la vostra permanenza qui, questa sarà anche la vostra casa: vi allenerete qui, mangerete qui, dormirete qui. I ragazzi e le ragazze saranno divisi in due diversi dormitori. Non avrete camere singole» li informò Hitomiko.
In verità Reina sperava che fosse possibile fare un’eccezione, ma non ci fu il tempo di soffermarsi sulla questione perché in quel preciso istante qualcuno bussò alla porta. Reina aveva i nervi così a fior di pelle che sobbalzò come un gatto a cui è stato pestato la coda. Zell, invece, si girò verso la porta con un’aria interrogativa, come a chiedersi che altro stava succedendo. Hitomiko sbirciò rapidamente l’orologio da polso.
«Oh, bene. Ottimo tempismo» commentò con un sorriso compiaciuto, poi alzò la voce.
«Entrate, entrate, vi stavo aspettando».
A quel punto la porta dell’ufficio si aprì ed entrarono due ragazze. A una prima occhiata, Reina pensò che dovevano essere sue coetanee e, dalla sua posizione sul divano, le studiò con attenzione.
La più alta delle due appariva anche come quella più matura, sia per i vestiti, sia per l’atteggiamento. Il viso, già grazioso di suo, era reso ancora più adorabile dalla massa di boccoli rosa che lo incorniciava, in contrasto con la pelle scura. Indossava una gonna rosso vino, lunga fino alle caviglie, e un dolcevita nero con un maglione di pelo rosa.
La sua compagna, invece, sembrava essere uscita direttamente da un manga di streghette.
Portava una spumeggiante gonna verde con tanti veli e calze a righe viola e nere; quanto alla parte superiore, sotto una t-shirt bianca col disegno di un gatto spuntava una maglia viola, a maniche lunghe, fin troppo rispetto alle braccia: per questo le mani della ragazza sparivano al loro interno. I suoi capelli verde acqua erano striati di bianco e legati in due cipollotti alti. Di certo si faceva notare, anche se per motivi del tutto diversi rispetto all’altra.
La streghetta si accorse di essere osservata e si girò. Prima che Reina potesse distogliere lo sguardo per l’imbarazzo, il viso dell’altra si aprì in una grande sorriso. Reina provò a ricambiare, ma probabilmente il risultato fu più simile a una smorfia.
Intanto, Hitomiko riprese la parola.
«Fumiko, Sumeragi. Grazie di essere venute» disse. «Avete fatto ciò che vi avevo chiesto?».
La ragazza dai capelli rosa rispose per prima, rapidissima: «Sì, Hitomiko-san!».
L’altra si girò in fretta verso Hitomiko e annuì con vigore.
«Hitomiko-san, questa è la ragazza di cui ci ha parlato?» chiese, eccitata. Hitomiko annuì e il viso della ragazza si illuminò. Si avvicinò al divano e si chinò verso Reina per osservarla meglio. Reina si allontanò di scatto, infossandosi nello schienale del divano, ma l’altra non si offese minimamente.
«Cavoli, sei davvero carinissima» esclamò senza peli sulla lingua. Reina non ebbe il minimo dubbio che lo pensasse davvero. Bastava guardarla negli occhi, e i suoi in quel momento sembravano brillare. Ancora una volta, Reina abbassò lo sguardo e ringraziò a bassa voce. L’altra le rivolse un sorriso, se possibile, ancora più luminoso di quello di prima.
«Sono Sumeragi Maki, ma puoi chiamarmi Maki! Tu sei Reina-chan, vero?». Maki liberò la mano sinistra dalla manica e gliela porse. Reina la strinse. Sentire il proprio nome seguito da un suffisso così carino la colse alla sprovvista: l’ultima volta in cui qualcuno l’aveva chiamata così risaliva alle elementari. Decise di non correggerla, perché essere chiamata così non le dispiaceva. In un certo senso, però, questo consolidò la sua idea che Maki fosse un po’ infantile, o che le piacesse comportarsi come tale.
«Yagami, loro sono le tue compagne di stanza. Ho chiesto loro di preparare la camera per il tuo arrivo. In questi primi giorni ti faranno anche da guide all’interno del centro, quindi se hai delle domande non esitare a fargliele» disse Hitomiko.
«Ti aiuto a portare i bagagli! Puoi darmi la tua borsa, se vuoi» propose Maki. Reina gettò un’occhiata veloce alla propria roba, poi scosse il capo.
«Ah, grazie, ma ce la faccio da sola» replicò. Si sentiva più a suo agio così. Maki la guardò con un’espressione perplessa.
«Eh? Sicura? Guarda che non è un problema, ti assicuro!» esclamò.
Ma Reina non si lasciò persuadere. Si alzò in piedi, mise lo zaino in spalla e indossò a tracolla la borsa, poi incastrò il giubbino tra la tracolla e il proprio corpo. Era pronta a andare. Maki sembrava divisa tra ammirazione e desiderio di insistere, ma in quel momento la ragazza coi capelli rosa decise di intervenire.
«Ora basta, Maki, la stai mettendo in imbarazzo» disse, arricciando le labbra in un broncio e incrociando le braccia al petto. Le sue parole sortirono un effetto immediato.
«Ah, ehm, davvero? Non era mia intenzione!» esclamò Maki. «Perdonami, Reina-chan. Se ne sei così sicura, non dirò altro!». Unì le mani come in una sorta di preghiera e le rivolse uno sguardo un po’ mortificato. Ricordava un cagnolino triste dopo essere stato rimproverato. In un certo senso, faceva tenerezza.
«Non c’è niente da perdonare. So che hai buone intenzioni» disse Reina. Finalmente riuscì a rilassarsi e sorridere, e il volto di Maki si illuminò di nuovo.
«Aw, allora andiamo, okay? Ti porto a vedere la nostra camera e poi facciamo un giro del centro, okay? E poi andremo a pranzo insieme, oggi c’è il budino di riso e non vedo l’ora perché qui lo fanno buonissimo e…».
«Sì, sì, Maki, però mentre la bombardi di informazioni cominciamo ad incamminarci. Se facciamo tardi in mensa, puoi dire addio al budino di riso- la interruppe l’altra ragazza con un mezzo sorriso. Maki si coprì la bocca con una mano.
«Ooops! No, no, andiamo! Buona giornata, Hitomiko-san!» esclamò.
«Buona giornata, Hitomiko-san» fece eco l’altra, più pacata.
Hitomiko ricambiò il saluto e augurò a Reina di ambientarsi presto. Poco prima che uscissero dalla stanza, anche Zell rivolse la parola a Reina.
«Ehi, allora ciao... Ci vediamo in giro» disse.
Reina si fermò a guardarlo. Anche se il ragazzo non sorrideva, non esattamente, la sua espressione calma e gentile offriva un certo conforto. Non aveva esitato un attimo, prima, quando Reina aveva avuto bisogno d’aiuto, e non aveva fatto domande. Nonostante non avesse molta affinità con i ragazzi, Reina pensò che non le sarebbe dispiaciuto affatto rivederlo. 
«Sì, immagino di sì» rispose, chinò leggermente il capo, poi uscì seguendo Maki.
Una volta richiusa la porta alle proprie spalle, la ragazza coi capelli rosa esclamò: «Allora, non ci siamo ancora presentate. Io sono Kii Fumiko. Puoi chiamarmi Fumiko».
Le porse la mano, ma non per stringergliela: nel suo palmo, infatti, c’era una chiave, la cui parte superiore era rivestita da un cappuccio di gomma azzurro. Appena Reina la prese, Fumiko ritrasse la mano, come per evitare il contatto. Reina non si offese.
«Yagami Reina. Puoi chiamarmi come preferisci».
«Potresti chiamarla Reina-chan anche tu!» suggerì Maki. Fumiko alzò gli occhi al cielo.
«Okay, vada per Reina» decise sul momento. Poi si lanciò nelle questioni serie, ovvero l’incarico assegnatole da Hitomiko, e Reina si concentrò sulla lunga spiegazione, in modo da assorbire quante più informazioni possibili.
Camminando passarono sotto diverse arcate e attraversarono due stanze di dimensioni più o meno simili, ciascuna delle quali era occupata da un largo tavolo rotondo e diversi sgabelli con altezza regolabile. Fumiko spiegò che erano delle aree relax, e forse per quello scopo erano state dipinte di colori rilassanti: le chiamavano l’area verde e l’area azzurra. Più avanti c’era la mensa e, a fianco, le scale per il piano superiore, dove c’erano le camere da letto. Per il momento si trattava soltanto di imparare quelle nozioni base. Per il resto, Reina era certa che si sarebbe abituata in fretta: se c’era una cosa di cui andava fiera, quella era la sua capacità di adattamento, anche se non l’aveva certo sviluppata in condizioni ideali.
A preoccuparla maggiormente era il pensiero di dividere la stanza con qualcun altro.
Reina non aveva amici da... be’, da parecchio tempo. Tutte le vecchie amicizie si erano interrotte quando i suoi genitori erano morti; in seguito non aveva potuto formarne di nuove, un po’ a causa dei continui trasferimenti, che le impedivano di mettere radici, un po’ a causa del suo carattere sempre più chiuso e distaccato. In più, la maggior parte dei suoi parenti desiderava nasconderla il più possibile dal mondo esterno, perciò avevano preferito affidarla a insegnanti privati piuttosto che mandarla a scuola.
Ancora non riusciva a farsi un’idea precisa né di Fumiko, né di Maki. Fumiko aveva risposto a tutte le domande di Reina con molta pazienza. Era garbata, ma distaccata e talvolta brusca, e non faceva mai commenti personali, al contrario di Maki. Sembrava che Maki avesse un’opinione su tutto (“Un’altra cosa che devi assaggiare assolutamente è il flan! Si scioglie in bocca, lo adoro!”, oppure “Odio i percorsi a ostacoli, sono la parte peggiore dell’addestramento…”) e non si faceva problemi a esternarle. Fumiko evitava il più possibile il contatto fisico, mentre Maki non poteva fare a meno di invadere continuamente lo spazio personale altrui; il solo concetto doveva sembrarle incomprensibile. Fumiko e Maki erano agli antipodi una rispetto all’altra e, in un certo senso, si bilanciavano a vicenda.
Ma, più di tutte queste cose assieme, a lasciare Reina interdetta era proprio l’entusiasmo di Maki. La riservatezza di Fumiko, quella poteva capirla. Erano simili, loro due. Ma perché Maki era così felice che lei fosse lì? Durante il tragitto dall’ufficio di Hitomiko alla loro stanza, che si trovava al secondo piano, Reina si formò un’idea di Maki come una persona estremamente estroversa, chiacchierona, sempre sorridente, sempre allegra: in una parola, solare. Se da un lato la trovava tenera, dall’altro non riusciva proprio a starle dietro. Anzi, alla lunga si sentì svuotata di energie.
Arrivate alla camera, Fumiko si fermò a cercare la chiave in una tasca della gonna, mentre Maki elencava tutti i colori di smalto per unghie che possedeva. Apparentemente collezionarli era una sua passione.
«Naturalmente il blu ti donerebbe tantissimo, ma forse è una scelta scontata? I tuoi capelli sono bellissimi, a proposito! Ma non per questo dovremmo escludere a priori i colori caldi! Mi fai vedere la tua mano?». La voce di Maki era così assillante che Reina sollevò la propria mano sinistra quasi senza pensarci. Si irrigidì quando Maki la strinse tra le sue e si chinò in avanti con un’espressione molto concentrata, come se stesse studiando accuratamente la mano. Reina la guardò come se fosse pazza.
«Che fate, vi tenete per mano? Entrate o no?» disse Fumiko. Aveva trovato le chiavi ed aperto la porta e ora le stava fissando, ferma sull’uscio, con le mani sui fianchi ed un sopracciglio alzato. Imbarazzata, Reina ritrasse la mano bruscamente. Maki parve un po’ delusa, ma riprese a sorridere come se non fosse successo nulla.
«Hai delle belle mani, con le dita affusolate. Sì, sono certa che anche i colori caldi ti donerebbero. Se vuoi, ti faccio io le unghie, ti va?» suggerì. Reina la guardò, incerta, poi scosse il capo.
«No, grazie, non sono interessata» mormorò. Maki si imbronciò.
«Eeeh? Ma perché?».
«Basta importunarla, Maki. E poi non è il caso di far baccano in corridoio. Visto che è il giorno libero, c’è chi vorrebbe starsene in pace in camera propria» la rimbrottò Fumiko, corrucciata. Poi si rivolse a Reina e la sua espressione si distese.
«Vieni, Reina, ti faccio vedere la camera. Sarai sicuramente stanca e vorrai sistemarti».
Le fece cenno di entrare e si spostò per farle spazio. Reina mise così piede per la prima volta in quella che sarebbe stata la sua camera fino al trasloco successivo.
La stanza in sé non era piccola, ma era chiaro che fosse stata inizialmente pensata per accogliere solo due persone; la mobilia che era stata aggiunta per ospitarne una terza aveva ristretto di molto lo spazio. Sulla parete a destra della porta c’erano un armadio a muro con un’anta sola a scorrimento e una cassettiera di quattro cassetti totali. Sulla sinistra, a pochi centimetri dai piedi di un letto, una porta aperta dava sul bagno. I letti non erano disposti uno accanto all’altro: due erano attaccati ai muri laterali, mentre il terzo era stato infilato nell’unico spazio disponibile, ovvero contro la parete in fondo, sotto la finestra sprovvista di davanzale. Non era difficile capire come fossero assegnati i letti e, soprattutto, quale toccasse a lei. Con la coda dell’occhio, infatti, notò che ai letti delle compagne erano stati affiancati due comodini di ferro che non c’entravano assolutamente niente con l’arredamento e, tuttavia, scoppiavano di personalità. Bastava un’occhiata per capire chi fossero le proprietarie: su quello di Maki erano allineate tutte le boccette di smalto di cui aveva appena finito di parlare e una lima per le unghie. Fumiko, invece, aveva poggiato sul suo alcuni bigodini e uno stick di lucidalabbra rosa. Nella camera le uniche sorgenti di luce erano quella finestra e un lampadario rotondo. Al centro della stanza, sul pavimento, c’era un largo tappeto rosa dalla forma ovale.
«Purtroppo non abbiamo un comodino in più per te, ma abbiamo svuotato il primo cassetto di questa e parte dell’armadio». Fumiko aprì la cassettiera e l’armadio per mostrarli a Reina. «Vuoi una mano a sistemare le cose?».
«Ah, non importa, non ho molta roba» replicò Reina. Attraversò la stanza e poggiò la borsa a terra, poi si sfilò lo zaino dalle spalle e cominciò a svuotarlo.
«Se per te non ci sono problemi, dormirai qui» disse Fumiko e, come Reina già sospettava, le indicò il letto sotto la finestra.
Reina annuì mentre tirava fuori dallo zaino una felpa sportiva e le cuffie attorcigliate, ancora attaccate al lettore CD. Non aveva mai potuto avere un telefonino, ma la zia le aveva regalato un vecchio lettore CD che non usava più e, siccome ogni mese le dava una sorta di paghetta da spendere come meglio credeva, Reina si era procurata da sola qualcosa da ascoltare. Si trattava, per la precisione, di un solo CD di musica classica contemporanea. Quando il mondo cominciava ad essere troppo stressante, o i ricordi della sua infanzia riaffioravano impedendole di dormire, ascoltare la prima traccia, Brielle, riusciva sempre a tranquillizzarla. Era come un incantesimo. Per paura che la magia sparisse, non aveva mai cercato informazioni sull’autore del brano, ma si era promessa di farlo, un giorno. Dopo aver messo la felpa nel cassetto a lei assegnato, vi appoggiò sopra, con cura, il lettore CD, lasciando accanto le cuffie arrotolate. E solo quando fu certa che tutto fosse in ordine e al sicuro, proseguì nel disfare i bagagli.
Intanto, Fumiko si era seduta sul proprio letto e aveva tirato fuori dal comodino un piccolo contenitore a forma di mela. Rimosse il coperchio, infilò dentro un dito e raccolse una generosa quantità di quella che sembrava crema per le mani. Un dolce profumo si diffuse in quell’angolo della camera mentre Fumiko si spalmava la crema sulle mani.
«Questo freddo mi rende la pelle secca» si lamentò. «Non sopporto le stagioni fredde!».
«Ah, come ti capisco! Voglio il sole, i fiori, l’estate! Certo, anche l’autunno ha dei colori meravigliosi, ma l’inverno no» commentò Maki. Si lasciò cadere sul letto opposto a quello di Fumiko e cominciò a maneggiare le boccette di smalto.
Da quel momento in poi, Reina smise di seguire la conversazione, o meglio si concentrò soltanto su quello che stava facendo, riducendo automaticamente il chiacchiericcio a rumori di sottofondo. Le due ragazze continuarono a chiacchierare per tutto il tempo. Con sua grande sorpresa, Reina scoprì che non le dispiaceva affatto avere compagnia.
 
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Quella notte, Reina si svegliò di colpo, col respiro corto e il cuore che sobbalzava nel petto.
Ancora inseguita dalle voci dei suoi parenti, rimase sveglia per un po’ a fissare il soffitto. Questo era il problema di essere sveglia nel cuore della notte: aver paura di riaddormentarsi e fare sogni peggiori. Nel silenzio e nel buio della stanza, intuì dal picchiettio contro i vetri che stava piovendo. Era un rumore quasi confortante, così come il respiro delle sue compagne di stanza, serenamente ignare e addormentate nei propri letti.
Reina si alzò in punta di piedi, andò alla cassettiera e prese il lettore CD; poi tornò a letto, silenziosa come un gatto, si infilò sotto la coperta e strattonò le lenzuola fino a coprirsi il capo, creando una specie di cupola, sotto la quale si nascose. Mise le cuffie, accese il lettore e poggiò la fronte contro il cuscino mentre ascoltava le prime note della melodia. Il suono del pianoforte si mescolò delicatamente a quello della pioggia e dei respiri, e così Reina sprofondò in un sonno più tranquillo prima ancora che se ne rendesse conto.
 
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Abituarsi agli addestramenti non fu affatto facile. Reina non aveva mai praticato sport; al massimo aveva preso parte alle lezioni di ginnastica a scuola, o qualcosa del genere. Gli esercizi di riscaldamento la stancavano subito, e le prime notti andò a dormire con i muscoli doloranti; in pochi giorni capì anche di non avere fiato sufficiente. L’aria fredda era implacabile e affaticava ancora di più il respiro.
La mattinata cominciava sempre con la dei giri di corsa in un spazio recintato alle spalle dell’edificio. C’erano foglie dappertutto, perché il vento le strappava ai rami e le portava lontano, e non era neppure raro che te le gettasse in faccia. E, quando pioveva, bisognava stare attenti a non scivolare nella poltiglia di fango e foglie schiacciate.
Dopo la corsa, ci si riscaldava con esercizi di stretching, a volte a coppia, a volte ognuno per sé; e infine si passava ai percorsi a ostacoli ideati da Hitomiko.
Nelle prime settimane, Reina notò tre cose: primo, non sembrava fossero previste attività in cui usare i “doni”. Questo la confuse, ma la fece anche sentire molto meglio.
Due, allenarsi in quelle condizioni era difficile per tutti, anche se ognuno reagiva a modo proprio. C’era chi tollerava più facilmente il freddo, chi lo detestava ma si allenava comunque in silenzio, e chi invece si lamentava di continuo. Fumiko faceva parte della terza categoria. Era sempre la più vestita di tutti, con i guanti, svariate maglie sotto la tuta, e persino la giacca; eppure pareva che sentisse sempre freddo, anche dopo la corsa e i primi esercizi, che in teoria avrebbero dovuto scaldarla. Non faceva altro che borbottare e maledire il tempo dal momento in cui usciva fino a che non rientrava dentro. In quel momento, per esempio, si stava lamentando della pioggerellina che li aveva sorpresi.
Al contrario Reina pensava che la sensazione di una pioggia così lieve sulla pelle non fosse poi così male, e le piaceva il profumo della terra bagnata.
Quando cominciò a piovere più forte, tuttavia, anche lei fu costretta ad arrendersi e unirsi agli altri sotto il porticato. Dopo una decina minuti, Hitomiko cedette e sospese gli allenamenti all’aperto per tutta la mattinata. I ragazzi accolsero con entusiasmo la decisione, e molti decisero di tornare alle proprie stanze per godersi al meglio l’inaspettata vacanza. Gli altri studenti erano all’incirca una decina di adolescenti, ragazzi e ragazze, nonostante fossero più o meno tutti suoi coetanei, Reina aveva difficoltà ad attaccare bottone con loro.
Della terza cosa Reina si accorse quando, invece di rientrare subito con gli altri, decise di indugiare ancora un pochino sotto il portico per osservare la cappa di pioggia che avvolgeva il paesaggio. Dal momento che si trovavano vicini ad un bosco, l’odore di bagnato era ancora più forte e pregnante. Era tentata di uscire di nuovo, solo un pochino, ma non voleva essere sgridata. Reina si guardò attorno per verificare che Hitomiko fosse rientrata, e in quel momento notò, con la coda dell’occhio, un piccolo oggetto nero incastrato sotto il portico. Reina continuò a fissare davanti a sé, corrucciata, finché non le sfuggì uno starnuto e un brivido la percosse.
«Scusami...?».
Sentendo una voce alle proprie spalle, Reina sussultò e si voltò di scatto, trovandosi faccia a faccia con un viso familiare.
Il ragazzo indossava una t-shirt con il disegno di un drago, e reggeva fra le braccia una felpa bianca che aveva l’aria di essere molto grande e morbida. I capelli bianchi erano tenuti su da una fascia nera.
«Non volevo disturbarti» disse a mezza voce. Esitò, poi si avvicinò. «Passavo qui davanti e ti ho sentita starnutire... Se vuoi, posso prestarti la mia felpa».
Un rossore gli si diffuse sulle guance e sul naso, e Reina pensò che fosse per il freddo. Lo scrutò in cerca di un secondo fine, o un qualsiasi motivo per cui avrebbe dovuto aiutarla.
«Avanti, prendila. Dico davvero» insistette lui.
Reina continuò a fissarlo. Sentiva già un altro starnuti solleticarle le narici, e aveva le braccia intirizzite, perciò si lasciò persuadere. Quando prese la felpa, sfiorò con la mano quella del ragazzo ed entrambi si bloccarono per un momento. Lui trattenne il respiro. Reina ritrasse la mano e s’infilò la felpa in fretta. Dato che il ragazzo era più alto di lei, e aveva le spalle più larghe, le maniche erano troppo lunghe, e la felpa le arrivava alle ginocchia.
«Grazie» disse, imbarazzata. Tacque un momento, poi ammise: «Mi dispiace, ho dimenticato il tuo nome».
«Ah... be’, non fa niente, cioè, stai tranquilla». Il ragazzo si ingarbugliò nelle parole e Reina non riuscì a trattenere una piccola risata. Lui si bloccò e arrossì ancora di più. Realizzando di essere stata sgarbata, Reina si coprì la bocca con una mano.
«Scusa, non ridevo di te, lo giuro...».
«Ah, no, prego» farfugliò il ragazzo, poi si rese conto dell’errore e scosse il capo.
«Cioè, quello che volevo dire è che non me la sono presa. Uh... sto parlando a vanvera, vero?».
«Un pochino» replicò Reina, e gli tese la mano. «Cominciamo daccapo. Io sono Yagami Reina».
«Yagami» ripeté lui, come per testarne il suono. Sulle sue labbra comparve un sorriso incerto.
«Io sono Zell. Questa volta non dimenticarlo, okay?».
Era un nome piuttosto insolito, ma Reina non voleva essere maleducata. La mano che le porse era completamente fasciata, in particolare attorno alle nocche, e questo dettaglio catturò la sua attenzione. Mentre contemplava se chiedere o meno cosa fosse successo, sentì la voce di Maki chiamarla.
«Reina-chan! Reina-chan, dove sei?!».
Poco dopo, naturalmente, la porta a scorrimento si aprì e Maki apparve sull’uscio, trafelata. Non appena i suoi occhi si posarono su Reina, la sua espressione si rilassò.
«Reina-chan! All’improvviso non ti ho vista più dietro di noi, mi sono preoccupata! E anche Fumiko era…». S’interruppe di colpo. Reina vide il suo sguardo spostarsi da lei alle loro mani ancora strette, e i suoi occhi sgranarsi per la sorpresa.
Maki sembrava sul punto di dire qualcosa quando Zell ritrasse la mano di scatto ed esclamò: «Non è come sembra!».
Maki chiuse la bocca di scatto. Reina corrugò la fronte, interdetta. Cosa c’è che non va, adesso?, avrebbe voluto chiedere, ma Maki cambiò discorso bruscamente.
«Zell! Oddio, che hai fatto alla mano? Fammi vedere subito!» disse, concitata. In un attimo si avvicinò al ragazzo e gli afferrò la mano fasciata, facendolo sobbalzare. Reina indietreggiò d’istinto, per cavarsi d’impiccio.
Come sempre, Maki si comportava in modo molto invadente, per non dire bizzarro. Era chiaro che Zell era a disagio. Reina si chiese se per caso avrebbe dovuto salvarlo da tutto questo; gli doveva un favore, ma non era certa di volersi mettere in mezzo a... a quella cosa, qualunque cosa fosse. Francamente, non capiva bene cosa stava succedendo.
Dopo un po’, Maki sollevò il volto e domandò, seria: «Ehi, posso togliere la fasciatura? Non dico niente, promesso».
Zell esitò, colto alla sprovvista, ma l’espressione di Maki non era una a cui si potesse dire di no. Si studiarono a vicenda per qualche secondo, poi il ragazzo annuì. Maki iniziò a disfare la fasciatura, in silenzio; come promesso, non disse nulla quando la fascia venne via e lasciò in bella vista la pelle rossa e scorticata. Era una brutta escoriazione, e probabilmente aveva anche sanguinato. Reina non poté fare a meno di sbirciare, incapace di trattenere la curiosità. Quando sollevò la testa, incrociò lo sguardo di Zell per errore, ma lui abbassò subito gli occhi, come vergognandosi. Reina rimase a guardarlo confusa, domandandosi come si fosse procurato una ferita tanto dolorosa.
Intanto Maki stava ancora osservando la ferita. D’un tratto si raddrizzò e fece un sospiro. Questo attirò nuovamente l’attenzione degli altri due su di lei. Maki si rivolse a Zell.
«Posso aiutarti, se me lo lasci fare» affermò, risoluta. Zell la guardò disorientato.
«Va bene, ma cosa vuoi fare?».
«Vedrai» disse Maki, e inspirò profondamente. Lasciò la mano di Zell e sollevò le proprie.
«Tienila ferma» mormorò Maki. Zell obbedì. Per qualche secondo, nulla parve cambiare, poi il ragazzo sussultò. I suoi occhi si spalancarono per lo stupore.
Reina spostò lo sguardo da lui a Maki e viceversa, senza capire cosa stesse accadendo. Decise di concentrarsi su Maki, in cerca di qualcosa di insolito... di speciale.
Come, per esempio, la tenue luce che avvolgeva le sue mani.
Reina rimase senza fiato nel momento in cui si accorse dei sottilissimi fili di luce che, fuoriuscendo dalle dita di Maki, stavano disegnando una sorta di motivo ad incrocio sulla pelle di Zell. Era come se… Come se la stesse ricucendo, realizzò Reina, e la colpì un senso di vertigine. Forse sarebbe svenuta. Come si regge lo shock di una cosa simile? Era la prima volta che vedeva qualcuno usare il proprio dono, e le sembrava di essere testimone di un miracolo. La ferita cominciò a richiudersi lentamente e, a giudicare dal comportamento di Zell, era anche un processo del tutto indolore. I fili penetravano la pelle senza romperla, senza versare una sola goccia di sangue, come se fosse del tutto naturale Il ragazzo non gridò, né svenne. E nemmeno lo fece Reina, nonostante tutto.
Finalmente Maki abbassò le mani. Fili e luce svanirono nel nulla.
La ragazza osservò il proprio lavoro per un paio di secondi, poi guardò Zell.
«Come va? Ci sono fastidi?» chiese.
Zell non rispose subito. Lentamente chiuse le dita in un pugno, poi le distese. Il suo stupore era evidente. Dopo aver ripetuto un paio di volte il movimento, un sorriso gli increspò le labbra.
«Va a meraviglia! Aspetta, questo è il tuo dono? Ma è una cosa fighissima!» esclamò, ammirato. Maki sorrise, a dir poco compiaciuta.
«Ma dai! Non è stato niente di speciale. Un mio amico si fa spesso questo tipo di... di... Be’, si fa male spesso. Da bambini lo guarivo spesso di nascosto, per non farlo scoprire alle mamme» replicò, e gli scoccò un’occhiata di complicità che lo mise di nuovo in imbarazzo. Zell borbottò qualcosa sottovoce, in cui si sentì solo un ‘grazie’.
«Comunque, sei stata fantastica! Quindi il tuo dono, cos’è che fa?» disse, ed era un palese sforzo di cambiare argomento. Maki decise di assecondarlo.
«Ah, è un potere solo di difesa, per questo sono qui» rispose. Per Reina quella frase non significava niente, Zell invece annuì come se avesse capito tutto. I due cominciarono a parlare animatamente di quello che era appena successo, tagliandola fuori, ma Reina non se la prese: il suo cervello stava ancora tentando di elaborare ciò a cui aveva assistito.
Il dono di Maki era la cosa più bella e pura che avesse mai visto.
«Reina-chan? Tutto bene? Noi stiamo rientrando, tu non vieni?».
Ancora una volta fu Maki a chiamarla, riscuotendola dai propri pensieri. Reina sussultò e, di colpo, tutti i rumori tornarono – la pioggia, il vento, la voce di Maki. In qualche modo, era riuscita ad astrarsi talmente tanto da non accorgersi che i due si incamminavano verso l’entrata. Adesso entrambi la fissavano con espressioni più o meno sconcertate. Un brivido la scosse, e Reina si sentì tremare dalla testa ai piedi. Non credeva fosse colpa del freddo. Non fidandosi della propria voce, si limitò a fare un cenno di assenso, poi si strinse nella felpa e li raggiunse.
Andarono in mensa, e Zell e Maki continuarono a chiacchierare tra loro, gettando ogni tanto occhiate ansiose alle proprie spalle per accertarsi che Reina ci fosse ancora. Siccome la ragazza era molto silenziosa, si girarono più di una volta, e ogni volta sembravano sollevati di trovarla ancora lì, come timorosi di perderla da un momento all’altro. Che stupidaggine, pensò Reina, vagamente irritata.
L’atmosfera non si alleggerì neppure quando si misero in fila per il pranzo. Reina prese un menù a caso, uno con gli udon in brodo. La sua mente era altrove.
Fumiko li aspettava seduta a un tavolo, e aveva tutta l’aria di essere sul piede di guerra.
«Finalmente! Sapete quanto mi avete fatta aspettare?! E tu, Reina, non farmi preoccupare così! Non è che devi stare sempre con noi, ma almeno avverti prima di sparire!» sbottò appena raggiunsero il tavolo.
Reina poggiò il vassoio accanto al suo già vuoto e si lasciò cadere accanto a lei.
«Mi dispiace» disse, sincera, poi divise le bacchette e iniziò a mangiare gli udon prima che scuocessero. Fumiko la scrutò per un momento, e lasciò perdere. Non fece nemmeno un commento sulla felpa, e si rivolse invece a Maki e Zell, seduti al lato opposto del tavolo.
«Be’, lui chi è?» disse Fumiko, schietta, fissando Zell con diffidenza.
«Uhm, ci siamo visti brevemente nell’ufficio di Hitomiko-san. Mi chiamo Zell. Vivrò anch’io qui, per il momento» rispose Zell, abbozzando un sorriso. Per qualche motivo, lanciò uno sguardo verso Reina. La ragazza se ne accorse, ma, non sapendo come reagire, lo ignorò. Lui tornò a guardare il proprio piatto di carne, un po’ deluso.
«Ah» commentò Fumiko in tono annoiato, e non aggiunse altro. Rimase in silenzio per tutta la durata del pranzo, e così anche Reina, mentre Maki chiacchierava con Zell, in sottofondo solo il rumore di piatti e posate e il brusio degli altri studenti.
 
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Ancora una volta, Reina si svegliò di soprassalto nel cuore della notte. Alcune notti erano insopportabili; notti bianche in cui cercava di sfuggire agli incubi rifiutando di chiudere occhio, ben consapevole degli effetti disastrosi che ciò avrebbe portato. Altre notti erano migliori. Erano le notti in cui pioveva. Il suono della pioggia era molto più forte del silenzio e, soprattutto, delle voci che la inseguivano nei sogni.
Quella notte, tuttavia, la pioggia non bastava a confortarla. La luce dei lampi rischiava di tanto in tanto la camera. Il vento sbatteva contro i vetri della finestra con violenza. Mentre un tuono particolarmente intenso rimbombava in lontananza, Reina si ricordò di ciò che aveva visto in cortile, quella cosa da cui l’arrivo di Zell e Maki l’aveva distratta.
Era una telecamera. Una presenza piccola, non ingombrante, che tuttavia bastò a metterle una strana inquietudine. Il dubbio che l’intero edificio fosse sotto costante sorveglianza si fece largo tra i suoi pensieri, e dopo pochi secondi diventò certezza. Se c’erano delle telecamere che affacciavano sul cortile, sicuramente anche gli altri spazi erano controllati.
In quelle prime settimane, era quasi riuscita a ingannarsi, ma gli eventi di quel pomeriggio le avevano ricordato che quello non era un posto per gente normale. Dopotutto, lei portava ancora addosso una maledizione. E Maki era in grado di fare miracoli.
 
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Il resto del mese passò in un battito di ciglia e, con la venuta di dicembre, arrivò la neve. Se Reina amava la pioggia, lo stesso non si poteva dire della neve – in primo luogo perché la neve non faceva alcun rumore quando cadeva, anzi portava con sé un silenzio assoluto, quasi spettrale. Ma c’era anche un altro aspetto, molto più pratico, da considerare. Quando durante la notte ne cadeva molta, la neve non aveva il tempo di congelarsi: restava morbida e rendeva ancora più difficoltosa la corsa. E, a quanto pareva, per Hitomiko la pioggia era un motivo valido di sospendere gli addestramenti; la neve no.
A più di due settimane dall’arrivo, Reina aveva imparato nomi e volti dei compagni, e così anche le abitudini, le stranezze, o comunque cose che li caratterizzavano. Erano appena una quindicina, lei compresa. All’inizio non c’erano state grandi occasioni per socializzare. Gli altri la osservavano senza avvicinarsi, come se la stessero studiando, cercando di capire chi era. Ma la situazione era cambiata: Maki, Zell e Fumiko parlavano con lei come nulla fosse, e dopo un po’ gli altri si erano semplicemente adeguati. Ora la salutavano, le sorridevano, o persino si fermavano a scambiare quattro chiacchiere a mensa e nei corridoi. Qualche volta capitava che le parlassero durante gli allenamenti, ma era meno frequente, poiché gli esercizi fatti al freddo e al gelo non lasciavano fiato per respirare, figurarsi fare conversazione.
Non che ciò impedisse a Maki e Fumiko di dire più o meno tutto quello che volevano.
«Morirò congelata» borbottò Fumiko. Era piegata in due, le mani tese per toccarsi la punta dei piedi. «Questa volta morirò davvero congelata. Non mi sento più le dita delle mani». Evitava molto accuratamente di toccare la neve con le dita, sebbene portasse i guanti.
Fumiko esordiva così ogni mattina, specialmente quando, dopo una massiccia bufera notturna, trovavano il cortile esterno e gli alberi totalmente imbiancati. A nessuno faceva piacere allenarsi nella neve, ma quella che meno sopportava il freddo, senza dubbi, era Fumiko. Sembrava che nulla riuscisse a scaldarla, né la corsa, né i molteplici strati di vestiario.
Anche Maki si faceva sempre notare. O, per meglio dire, era impossibile ignorarla: quella mattina era vestita tutta di giallo, come un gigantesco sole in un cartone animato per bambini. Anche i lacci delle scarpe erano gialli. Al contrario di Fumiko, Maki non perdeva tempo a lamentarsi, ma si buttava subito negli esercizi, cercando di coinvolgere l’amica il più possibile.
«Fumi, non serve a nulla se non tocchi bene le punte! Vuoi che ti dia una mano? Possiamo fare degli esercizi di allungamento insieme! Se ci sediamo, e mi dai le mani...».
«Non ci pensare neanche! Io non mi siedo nella neve!».
Maki provò a persuaderla ancora una volta, ma Fumiko era irremovibile quando si trattava di preservare calore. Per questo, dopo alcuni tentativi a vuoto, Maki sospirò e si voltò per cercare Reina tra gli altri ragazzi. Prima che Maki potesse trovarla, Reina afferrò il braccio di Zell.
«Fai coppia con me» disse in fretta. Zell la guardò sorpreso, ma annuì e si lasciò trascinare.
Reina si trovava a suo agio con lui. Dal giorno in cui le aveva prestato la felpa, avevano parlato sempre più spesso. All’inizio era sempre Zell ad attaccare bottone con lei; non perdeva mai occasione di parlarle. Di recente, però, Reina stava pian piano uscendo dal suo guscio. Zell era un bravo ragazzo e, in un certo senso, era più facile avere a che fare con lui che con le ragazze. Soprattutto quando si trattava di lavorare in coppia. Fumiko e Maki erano troppo esuberanti, ed era meglio lasciare che se la sbrigassero tra loro.
Maki parve un po’ delusa del fatto che avesse scelto Zell al posto suo, ma si riprese subito. Dopo aver rinunciato a convincere Fumiko, e avendo perso l’occasione con Reina, si girò e chiamò un’altra ragazza. «Ruru-chan, fai coppia con me!» gridò. Dall’altro lato del cortile, una ragazzina minuta con i capelli viola prugna agitò un braccio per farle segno di raggiungerla. Maki si illuminò, e Reina la osservò correre via allegramente con la sua tuta gialla: era come un girasole in mezzo alla neve.
«Yagami?» Zell richiamò la sua attenzione. Reina lo guardò, poi abbassò lo sguardo sulle loro mani unite e si rese conto di aver smesso di tirare, rendendo l’esercizio inutile.
«Scusa» borbottò. Sistemò meglio la presa e riprese a tirare.
«Se c’è qualcosa che non va, o se ti fa male, puoi dirmelo» le disse Zell. Dal momento che erano schiena a schiena, era impossibile vedere la sua espressione, ma dalla voce Reina intuì che era preoccupato per lei.
«Va tutto bene» rispose. Zell non insistette. Continuarono l’esercizio in silenzio, passando al successivo senza altri intoppi.
«Pronta?» chiese Zell, rompendo il silenzio. Reina inspirò a fondo, poi diede la conferma e, un attimo dopo, la terra le mancò da sotto i piedi. Zell era molto più forte di quello che appariva e riusciva a sollevarla senza problemi. Le prime volte Reina aveva avuto un po’ di paura, adesso era abituata a quella routine; si fidava di Zell al punto da riuscire persino a rilassarsi in quella scomoda posizione. Alzò il viso verso il cielo grigio e, per alcuni minuti, dimenticò di avere i piedi sospesi in aria. Con la coda dell’occhio vedeva ancora la tuta gialla di Maki.
Quando Zell la mise giù, sciolsero la presa e si divisero. Zell aveva il viso rosso e accaldato.
«Ho bisogno di riposare un po’» disse e, per qualche motivo, fissava i propri piedi anziché lei. Sapendo che non avrebbe mai potuto sollevarlo a sua volta, Reina lo lasciò andare. Non avrebbe certo detto di no a cinque minuti di pausa. E inoltre, a giudicare dalla frequenza con cui Hitomiko guardava l’orologio da polso, il tempo dell’addestramento stava per scadere.
Si guardò intorno. Zell era seduto su un ceppo d’albero, reciso chissà quanto tempo prima, e non sembrava affatto turbato dal freddo. Fumiko si era rifugiata sotto il porticato, mentre Maki chiacchierava con Ruru e con Komazawa, un ragazzo con meche bionde che partivano dalla frangia e cadevano, morbide, sulle guance. Reina decise di camminare un po’ per non perdere subito il calore accumulato.
Se non altro, la neve dava al paesaggio un tocco magico, una bellezza unica che poteva essere ammirata solo in quella stagione. Per Reina, che aveva sempre abitato in città ed era cresciuta circondata da palazzine, trovarsi davanti a un bosco innevato era una novità. Poggiò la mano sulla corteccia di un albero e fissò il sentiero bianco che serpeggiava tra i tronchi, diretto chissà dove. In quel tipo di paesaggio, sarebbe bastato passare attraverso un varco tra due alberi per immaginare di essere dentro una fiaba... Be’, se fosse stata più romantica, magari l’avrebbe pensata così. Invece, pensò che quei rami appesantiti dalla neve non avevano un aspetto sicuro.
Reina stava per voltarsi e tornare indietro quando sentì un suono debole, appena percettibile nel silenzio circostante. Reina tornò sui propri passi, incerta se guardare in alto o a terra. Il suono non era costante, ma somigliava piuttosto a un pianto spezzato. Arrivò fino all’albero dove poco prima si era appoggiata e abbassò lo sguardo, chinandosi per osservare meglio la distesa di neve. Fu allora che lo vide: un uccellino completamente blu, tondo come una pallina da pingpong, stava su un fianco a terra, proprio sotto l’albero. Era così piccolo che non l’aveva visto, nonostante il colore brillante. D’istinto Reina alzò gli occhi, cercando il posto da dov’era caduto, poi tornò a guardare l’animale. C’era qualcosa che non andava. Il fatto stesso che non fosse scappato subito significava che probabilmente non poteva farlo. Forse era ferito. Reina si accovacciò, ma esitava a toccarlo, per paura di fare più danni del necessario. Non sapeva che fare. Non poteva andarsene e fare finta di niente.
«Reina-chan? Che succede?».
Maki arrivò alle sue spalle, facendola sussultare. Dietro di lei c’era anche Zell. Reina non disse nulla, ma si spostò leggermente e indicò a terra. Maki seguì con lo sguardo la direzione del suo dito e sgranò gli occhi. Senza esitare, si inginocchiò accanto a Reina. Le sue calze si bagnarono subito, ma non sembrava che le importasse.
Maki raccolse il piccolo volatile con estrema delicatezza e, tenendolo nel palmo delle mani, con le dita semichiuse, lo sollevò per guardarlo da vicino.
«È ferito ad un’ala» constatò tristemente.
«Forse è caduto dal suo nido» disse Zell, sporgendosi per vedere meglio. «O la madre lo ha abbandonato. A volte succede».
«Cosa? Poverino!» esclamò Maki.
Vedendosi circondato, l’uccellino cominciò ad emettere dei deboli stridii, forse di minaccia, benché di minaccioso non avesse nulla; anzi, era proprio carino. Il piumaggio non era uniforme: solo la testolina e il dorso erano blu, con un misto di bianco e giallo sul resto del corpo. Reina ricordava di aver visto uccellini simili nel giardino di casa, da bambina, ma proprio non le veniva in mente il nome della specie.
Reina si sporse verso Maki, quasi inconsciamente, e urtò per errore la spalla di Zell, che farfugliò una scusa e si ritrasse di scatto. Aveva le guance e le orecchie molto rosse, e Reina si accigliò, temendo che gli stesse venendo la febbre. Intanto, Maki si era accorta del suo interessamento per il piccolo volatile e girò le mani verso di lei per mostrarglielo, ma, prima che Reina potesse commentare, arrivò Fumiko.
«Maki, lascia perdere» disse. 
«Cosa? Perché? Non è una ferita grave, possiamo guarirlo facilmente!».
Fumiko si spostò i boccoli dalle spalle con un sospiro ed incrociò le braccia sul petto, nascondendo le mani sotto le ascelle per tenerle calde.
«Perché se davvero la madre lo ha abbandonato, vuol dire che era più debole degli altri. Anche se adesso lo prendiamo, prima o poi dovremo liberarlo, e non ci sono garanzie che non succederà di nuovo! Non possiamo prenderci cura di lui per sempre».
Maki tacque per qualche secondo, poi mormorò: «Ma… è crudele».
«È la natura» ribatté Fumiko, con lo sguardo basso. «Il mondo è crudele con chi non sa difendersi. Se lo aiuti adesso, rischi solo di prolungare la sua agonia…».
«Ma non puoi saperlo» la interruppe Maki. «Potrebbe morire, ma potrebbe anche diventare più forte! E vivere! Solo perché è partito svantaggiato, questo non significa che debba arrendersi!».
C’era qualcosa di estremamente vulnerabile nella sua voce. Era la prima volta che Reina la vedeva fare un’espressione simile; sembrava quasi una questione personale. Quindi, dopotutto, anche Maki aveva dei problemi che la preoccupavano.
«Lo guarirò» dichiarò Maki. «Potrebbe non servire a nulla, ma lo farò comunque. Mi prenderò cura di lui finché non potrà volare di nuovo».
Con l’aiuto di Zell, si rialzò lentamente da terra senza usare le mani. Non solo le calze, ma anche il bordo della gonna si era bagnato e insozzato di fango. Senza badarci, Maki guardò teneramente l’uccellino che cinguettava tra le sue mani, poi si rivolse di nuovo a Fumiko.
«So cosa vuoi dire, ma non posso abbandonarlo. Arrendermi prima di averci provato proprio non mi va» disse.
I suoi occhi tradivano ancora tracce di vulnerabilità, ma al tempo stesso bruciavano di determinazione. Dopo un attimo di esitazione, Fumiko sospirò di nuovo e scosse il capo.
«Ora non voglio passare per quella cattiva» brontolò, e tese le mani in avanti. Le sue dita erano fasciate da soffici guantini di lana nera. Sul bordo, all’altezza del polso, erano ornati con un sottile cerchio di pelliccia finta. Fumiko fece cenno a Maki di passarle l’uccellino.
«Da’ qua. Io ho i guanti, starà più al caldo».
Reina e Zell la guardarono sorpresi, ma Maki non sembrava pensare che ci fossero contraddizioni. Il suo volto si aprì in un sorriso sollevato.
«Oh! Grazie, Fumi!» esclamò. «Non penso tu sia cattiva... Fumi, tu pensi sempre agli altri. E mi piace molto la tua franchezza, la rispetto».
Fumiko s’imbronciò. «Non è niente di speciale» bofonchiò.
Maki non si lasciò scoraggiare dalla reazione imbarazzata e continuò a sorridere mentre lasciava scivolare l’uccellino dalle proprie mani a quelle della compagna, con delicatezza. L’uccello emise soltanto un lamento di protesta, ma non oppose resistenza, né cercò di liberarsi beccando loro le dita: forse sentiva, istintivamente, che restare lì era l’unica possibilità di salvezza.
Poi sentirono la voce di Hitomiko richiamarli all’ordine. La donna doveva essersi accorta che mancavano all’appello ed era venuta a cercarli. Senza dubbio li aspettava una bella ramanzina.
Maki, Zell e Fumiko si affrettarono a raggiungere Hitomiko, mentre Reina indugiò ancora un attimo. Alzò la testa e scrutò gli alberi più vicini, cercando un segno, una traccia, o una qualsiasi altra prova che là, da qualche parte, c’era stato un nido. Soltanto quando Hitomiko cominciò a chiamare più forte, e proprio il suo nome, Reina rinunciò e corse via, senza guardare più indietro.
 
xxx
 
Come promesso da Hitomiko, ogni due settimane c’era la possibilità di telefonare alla famiglia o amici esterni al centro; perciò era stata allestita una stanzetta con tre telefoni a muro, vecchio stile, e tre pouf su cui sedersi comodamente. Inoltre, Hitomiko aveva predisposto dei turni, ben conscia che alcune persone erano capaci di stare al telefono per ore. La tabella da lei scritta e stampata era appesa alla porta della stanza, così che tutti potessero consultarla.
Sia Zell che Fumiko non erano nella lista, e Reina aveva saputo da Maki che avevano ceduto i propri minuti ad altri. Avrebbe dovuto farlo anche lei, ma non era riuscita a dirlo; non dopo che Maki le aveva confessato, piena di emozione e allegria, che non vedeva l’ora.
Ora, mentre Reina aspettava il turno in piedi, appoggiata alla parete con le braccia dietro la schiena, Maki era seduta davanti a uno dei telefoni. Aveva l’abitudine di giocherellare inconsciamente con il filo del telefono mentre parlava. Inoltre, sembrava che non riuscisse a stare ferma sul pouf, si muoveva di continuo; quando accavallò le gambe, una scarpa da ginnastica spuntò sotto la gonna verde, a pieghe lucide. Il suo viso si animava di espressioni sempre diverse, ed era facile leggere le sue emozioni. In quel momento, per esempio, era chiaramente divertita da qualunque cosa le stessero raccontando.
«Haruyan, nega pure quanto vuoi, ma se continui a parlarmi soltanto di lui, cosa vuoi che ti dica?». Maki scoppiò a ridere. «Mmh, ma è ovvio che ti interessa. Non negarlo! Parli solo di lui di recente! Ahah, lo so che ti stai lamentando. Ma questo non cambia un bel niente!».
L’altro dovette rispondere qualcosa di molto sgarbato, perché Maki esclamò: «Cattivo! Tanto so che è così!» prima di scoppiare di nuovo a ridere. Quando riuscì a calmarsi, il suo tono di voce si addolcì.
«Ehi, tra poco devo andare... Haruyan? Per il resto, tu come... come stai...?». Dopodiché Maki si coprì la bocca dal lato del ricevitore con una mano, in modo che nessuno potesse sentire cosa diceva. Reina, da parte sua, si spostò di qualche metro per lasciarle privacy.
In quel momento Nemuro, il ragazzino seduto accanto a Maki, terminò i minuti a sua disposizione. Mise a posto la cornetta, poi si alzò e, andando alla porta, si accorse di Reina.
«Io ho finito» le disse, poi la aggirò come se fosse stata un ostacolo qualsiasi e s’incamminò verso il piano superiore. Reina non riuscì a ringraziarlo in tempo.
«Non te la prendere. È un po’ scorbutico, ma non è cattivo» disse Ruru. Il suo turno era dopo quello di Maki, quindi anche lei era lì in attesa.
«Non ho mai pensato fosse cattivo» replicò Reina, scrollando le spalle. Ruru le sorrise, apparentemente sollevata nel sentire quella risposta.
«Il posto è libero, non vai?» chiese. Reina si schiarì la gola, impacciata.
«Uhm, sì... Allora, io... vado» rispose. Si sentiva terribilmente in colpa, ma occupò lo stesso il posto vuoto; quasi in automatico, si sedette e sollevò la cornetta. Per un attimo fissò la tastiera numerica, come se avesse avuto davvero un numero da chiamare. Questo le fece ricordare qualcosa. Una volta, alle medie, aveva perso la tessera per i mezzi e aveva provato a chiamare la zia con cui stava in quel periodo. Pioveva forte, quel giorno. Non c’era modo di tornare a casa a piedi, quindi sarebbe stato bello avere un passaggio in macchina. Sua zia aveva risposto, stizzita, di non chiamare mai più quel numero. Ma viviamo nella stessa casa, aveva detto Reina, sconcertata. La risposta era stata, più o meno: Solo per adesso.
Reina contemplò brevemente l’idea di appendere la cornetta e cedere il turno, o di chiamare i suoi zii e urlare loro tutto ciò che le passava per la testa, ma la voce di Maki la riportò alla realtà.
«Haruyan, devo andare, è finito il mio turno. Ci sentiamo presto, spero, ah, ma probabilmente non la prossima volta! Ho promesso a mamma che l’avrei chiamata! Cerca di tenere duro col tuo nuovo amico, okay?». Maki scoppiò in una risata cristallina. Alzò lo sguardo, lanciò un sorriso fugace a Reina e tornò ai propri saluti.
Reina compose un numero che sapeva essere inattivo e passò i successivi cinque minuti a sentirsi dire dal telefono: Il numero da lei chiamato è inesistente. Controllò il passare del tempo sull’orologio a muro. Dopo cinque minuti esatti, riappese la cornetta e si alzò. Intanto, Ruru aveva fatto a cambio con Maki. Reina la salutò con un cenno della mano e un sorriso che sperava non apparisse troppo finto.
Una volta fuori, scoprì che Maki era rimasta ad aspettarla in corridoio.
«Eh? Già finito, Reina-chan?» chiese, stupita.
«Mmh... Non erano in casa» rispose Reina.
«Oh...» mormorò Maki. Sembrava davvero dispiaciuta per lei, e di nuovo Reina si sentì in colpa. Evitò il suo sguardo, timorosa che facesse altre domande; con suo grande sollievo, invece, Maki cambiò del tutto argomento.
«Reina-chan, vieni con me! Ti faccio vedere una cosa!» esclamò. La prese a braccetto e Reina si lasciò trascinare via senza protestare.
Non riuscì a nascondere la sorpresa quando si accorse che Maki la stava portando verso l’ufficio di Hitomiko. Benché non ci fosse mai venuta dopo quel giorno, quel corridoio era indimenticabile.
«Cosa ci facciamo qui?» chiese, spaesata.
«Vedrai, vedrai!» rispose la ragazza, enigmatica.
Reina realizzò presto che Maki aveva le chiavi, e che quindi dovesse esserci un qualche accordo tra lei e Hitomiko. Senza esitare, Maki aprì la porta ed entrò nell’ufficio deserto.
«Ed eccoci qua!» esclamò, trionfante.
La stanza era esattamente come Reina la ricordava, eccetto che per un dettaglio.
Sulla scrivania c’era una gabbia per uccelli di modeste dimensioni, con il fondo foderato di carta di giornale e coperto di semini neri. Al suo interno, l’uccellino che avevano salvato dondolava pigramente su una minuscola altalena tutta per lui, pensando ai fatti propri.
«Ah!! Hai di nuovo fatto finire i semi dappertutto!» lo rimbeccò Maki, scattando verso la gabbia. L’uccello la ignorò e voltò il capo dall’altra parte. Maki lo fissò, imbronciata.
«Non ignorarmi! Tanto per cominciare, dovresti stare a riposo, sai?! E ora mi tocca pulire di nuovo...» Maki continuò a parlare con lui, ma l’uccellino era imperturbabile e ben presto cominciò a pulirsi le penne, sordo a ogni rimprovero.
Reina, che aveva assistito all’intera scena, non riuscì più a trattenersi e si lasciò sfuggire una risata. Maki ammutolì di colpo e si girò a guardarla con occhi spalancati. Reina si coprì subito la bocca con la mano.
«Scusami, è solo che...».
«Non scusarti» la interruppe Maki. «È la prima volta che ti sento ridere così!».
Reina abbassò piano la mano. «Non sono... una persona solare, ecco» disse, non trovava parole migliori. Provò comunque a sorridere prima di cambiare argomento.
«Piuttosto, non vorrei sembrare insistente, ma... Cosa ci facciamo chi?».
«Siamo venute a trovare lui, ovviamente!» rispose Maki.
«È un gran maleducato, ma è così carino che poi gli perdoni tutto... Be’, quasi tutto, non è simpatico per nulla quando lascia in giro tutta la sua...».
«Faccio a meno dei dettagli, grazie» tagliò corto Reina. «E non intendevo questo. Volevo dire, perché è qui? Cioè, mi chiedevo che fine avesse fatto, ma devo ammettere che l’ufficio di Hitomiko-san è l’ultimo posto che mi sarei aspettata».
«Ah, sì. È che ho parlato con Hitomiko-san dopo l’allenamento... Anche se ho detto tutte quelle cose, mi serviva il suo permesso... Be’, non solo me l’ha dato, ma si è offerta di comprargli una gabbietta e tenerlo nel proprio ufficio! Del resto, non so dove altro avremmo potuto tenerlo. Fumi non mi avrebbe mai permesso di tenerlo in stanza». Mentre parlava, Maki si era tirata su le maniche e si era messa al lavoro per raccogliere tutti i semi, anche e soprattutto quelli schizzati fuori dalla gabbia e atterrati sulla scrivania di Hitomiko.
«Mi ha fatto promettere di prendermene cura e mi ha dato le chiavi dell’ufficio, così posso andare e venire quando voglio... Ah, Reina-chan, puoi darmi una mano?»
Reina esitò, ma si avvicinò lo stesso. «Cosa devo fare...?».
«Darmi una mano, letteralmente» ripeté Maki, e aggiunse rapida: «Se non ti fa paura».
Solo a quel punto Reina intuì cosa voleva. In tutta risposta, chiuse le mani a coppa, con i palmi rivolti verso l’alto, e le stese in avanti. Il sorriso di Maki si allargò e i suoi occhi parvero brillare. Reina si morse il labbro inferiore mentre l’altra apriva la gabbietta ed estraeva delicatamente l’uccellino con una mano. L’animale protestò con un piccolo stridio, ma si tranquillizzò quasi subito appena si trovò sulle mani di Reina. Sentire le zampette ruvide e il piumaggio morbido contro la pelle era stranissimo, ma non spiacevole. L’uccellino cominciò a osservarla con discreta curiosità, inclinando la testolina di lato. Anche Reina lo fissava. Con una certa tristezza, notò che l’ala destra era legata a uno stecchetto di legno e fasciata con un bendaggio, affinché non la muovesse.
Quando l’uccellino decise di averla tenuta d’occhio a sufficienza, si sedette sul palmo e riprese la pulizia delle penne. La sua tenerezza era davvero irresistibile.
«Ha un nome?» chiese Reina.
«In realtà no» rispose Maki, sorprendendola. Per com’era fatta Maki, Reina era sicura che gli avrebbe dato un soprannome.
«Io lo chiamo semplicemente "uccello"» proseguì Maki senza guardarla. Stava smontando il fondo della gabbia per ripulirlo. «Ah, abbiamo accertato che è un maschio, però! Il giorno stesso in cui l’ho portato da lei, Hitomiko-san lo ha portato in macchina alla clinica veterinaria più vicina. È là che gli hanno fasciato l’ala».
Reina tacque per un momento, poi azzardò: «Non… non avresti potuto guarirlo tu?».
«Io? Non avrei saputo nemmeno da che parte cominciare! Sono cresciuta in città anche io, sai?».
«No, non era quello che io...». Reina sospirò e decise di andare dritta al punto. «Non avresti potuto guarirlo con il tuo dono?».
Le mani di Maki si fermarono, anche se solo per un istante, al punto che Reina pensò di averlo immaginato. Dopotutto, anche se le dava le spalle, Maki non mostrava alcun segno di tensione.
«Ah! No, non potevo» rispose in tono allegro. «Voglio dire, forse potrei, in teoria? Con un po’ di allenamento? Boh. Nessuno potrebbe insegnarmi come fare, ovviamente».
Maki rimosse i giornali, li accartocciò e li gettò nel cestino.
«Quindi, uhm... Non ne sono sicura? Al momento non so fare niente di incredibile. Posso richiudere solo ferite superficiali... Mettere a posto un osso fratturato, tipo, quello sì che sarebbe fantastico, ma al mio livello attuale...».
Non dire che non è incredibile, pensò Reina, punta dalla gelosia. Era più forte di lei. Ai suoi occhi, il potere di Maki era assolutamente desiderabile, era la magia buona delle favole trasportata nel mondo reale. Reina avrebbe dato qualunque cosa per fare a cambio...
Ma compatirsi non serviva a niente. Accusare Maki non l’avrebbe fatta sentire meglio. Maki ignorava quale fosse la sua storia, o il suo potere, e lei non aveva intenzione di parlargliene.
«Reina-chan? Qualcosa non va?» domandò Maki d’un tratto. Si era fermata e la stava fissando. Aveva un foglio pulito di giornale in una mano e la vaschetta vuota del cibo nell’altra.
«Sei ammutolita all’improvviso... Ho detto qualcosa che non dovevo?» aggiunse, preoccupata.
Reina scosse il capo. «No... Stavo solo pensando».
Maki sembrava sul punto di dire qualcosa, ma l’uccellino la anticipò cinguettando. Aveva interrotto la pulizia e si era rimesso in piedi; si spostò sulla mano destra di Reina e sollevò gli occhi neri e lucidi verso di lei. Quando i loro occhi s’incontrarono, lui inclinò il capo di lato, interrogativo, e Reina ebbe un’idea. Rimosse la mano libera e con un dito sfiorò il capo dell’animale. Dapprima lui protestò e si appiattì per non farsi toccare; non appena Reina si ritrasse, però, lui si zittì e la fissò curioso. La ragazza ci riprovò, muovendosi ancora più piano. Questa volta l’uccellino accettò le attenzioni, si rilassò e chiuse gli occhi, e quella vista riempì Reina di orgoglio ed emozione.
«È... un buon segno?» chiese. «Dici che... gli piaccio?».
«Oh, gli piaci, gli piaci un sacco!». Maki, dal canto suo, era visibilmente estasiata. «Quando lo prendo in mano io, non sta mai così calmo! Ah, ma forse è perché tu e lui siete simili».
«Simili?» ripeté Reina, perplessa. Maki sorrise e indicò i suoi capelli.
«Stesso colore, no? Siete praticamente fratelli!».
«Ah, in quel senso» mormorò Reina, come ricordandosi solo in quel momento il colore dei propri capelli.
«Ma sì, hai anche delle meche bianche, come lui! Manca solo il giallo».
Reina decise di accettare quella spiegazione decisamente poco scientifica, e intanto continuava ad accarezzare piano il capo dell’uccellino, che a sua volta premeva il becco contro le sue dita chiedendo maggiori attenzioni.
«Per caso vi hanno detto anche la specie? Sono certa di aver visto degli uccelli come lui, quando ero piccola, ma non credo di aver mai saputo cosa fossero».
«Sì, è una cinciarella» rispose Maki. Aveva finito di foderare la gabbia con fogli puliti, e ora aprì un cassetto della scrivania di Hitomiko e tirò fuori il sacchetto dei semi; ne versò una manciata nella ciotola del cibo prima di montarla nuovamente nella gabbia. Alla fine, si rivolse alla cincia.
«Ecco fatto, ora vedi di non buttare tutto fuori, eh?!».
Sfortunatamente per lei, l’uccellino la ignorò del tutto. Reina sorrise, come a scusarsi per lui, e Maki fece spallucce.
«Be’, ci ho provato» disse. «Se vuoi possiamo aspettare un pochino prima di rimetterlo dentro».
Reina guardò la cinciarella con affetto.
«Sì» sussurrò. «Sì, mi piacerebbe».
 
xxx
 
Fumiko era stesa sul letto a pancia sotto e dondolava pigramente i piedi che sporgevano oltre il bordo del letto. Indossava la tuta, dei calzini di lana e una fascia di spugna rosa sulla testa. Da quando era rientrata, non aveva staccato un attimo gli occhi dal libro che si era portata in camera, e di cui Reina era riuscita a leggere solo il titolo, qualcosa che aveva a che fare con l’anatomia umana. Probabilmente lo aveva preso in prestito dall’ufficio di Hitomiko.
La camera era adeguatamente riscaldata, ma fuori aveva ripreso a piovere, una pioggia gelida e obliqua che aveva trasformato in poltiglia la neve, impedendo loro di uscire.
Reina tirò le gambe al petto e si strinse nella felpa troppo grande. Era passato quasi mezzo mese da quel giorno, ma non l’aveva ancora restituita a Zell; nessuno dei due aveva più tirato fuori l’argomento. La stanza era immersa nel silenzio, e c’era un’atmosfera domestica, confortevole. Si sentiva distintamente il rumore delle pagine Sul comodino di Fumiko c’era un bicchiere di tè ormai freddo, dimenticato mentre la ragazza leggeva. Da quel che Reina poteva vedere, Fumiko era arrivata a circa un quarto del libro.
Quel momento di quiete fu interrotto dall’entrata di Maki, che spalancò la porta di colpo, facendola sbattere contro il muro. Maki non ci fece caso; sembrava estremamente di buonumore. «Ragazze!! Indovinate cos’ho qui?!» esclamò, con le mani nascoste dietro la schiena.
Reina la guardò, senza rispondere. Fumiko non sollevò neppure gli occhi dal libro.
«Non lo so, Maki. Cos’hai?» disse, monocorde.
Maki si imbronciò, ma solo per un attimo, poi tornò a sorridere. Si schiarì la voce e, canticchiando qualche nota di presentazione, mostrò loro le mani: aveva con sé dei fogli di carta in stile pergamena antica e delle buste da lettere molto simili a quella che Reina aveva ricevuto da Hitomiko. Maki sventolò sotto i loro nasi anche una bustina trasparente, in cui c’erano una manciata di quadratini di carta scura, presumibilmente francobolli.
«Ta-dà! Guardate cosa mi ha dato Hitomiko-san!».
Con quel nome riuscì finalmente ad attirare l’attenzione di Fumiko. La ragazza alzò gli occhi verso di lei, la squadrò per qualche secondo e poi aggrottò la fronte.
«Carta da lettere? Non sapevo potessimo mandare lettere» disse.
«Infatti non lo facciamo, di solito» ammise Maki. «Però la mia mamma insiste sempre... Parlare a telefono ogni tanto non le basta. Quindi ho chiesto a Hitomiko-san se potevo fare qualcosa e lei mi ha dato il permesso di scrivere una lettera!» Il suo sorriso si allargò, se possibile, ancora di più. «Anzi, mi ha detto di dirlo anche a voi e a tutti gli altri! Ha detto che d’ora in poi sarà possibile mandare una lettera ogni tanto. Sarà lei, proprio, a prenderle in consegna!».
Fumiko sospirò. «Hitomiko-san è così gentile» disse con sguardo sognante. Chiuse il libro, si tirò su e tese una mano verso Maki. «Da’ qua».
Maki si illuminò, entusiasta, e consegnò subito a Fumiko tutto il necessario, ossia un paio di fogli, una busta e un francobollo. Quando Maki si voltò verso di lei, Reina sussultò.
«Io sono a posto così» disse subito. Maki le scoccò un’occhiata interdetta.
«Ma i tuoi saranno preoccupati! Sei figlia unica anche tu, giusto?».
«Sì, ma...».
«Allora devi assolutamente farlo! Mamma dice sempre che, per i genitori con un solo figlio, il distacco è ancora più difficile» disse Maki, e Reina era quasi certa che stesse quotando la madre parola per parola.
Maki le tese la carta e il resto e aspettò che le prendesse. La guardava dritta negli occhi, e la rendeva nervosa. Reina mantenne il contatto visivo, ma tenne sotto controllo le proprie emozioni. Era inutile discutere con Maki. Prima di tutto, per giustificarsi avrebbe dovuto raccontare l’intera storia.
Le due ragazze si fissarono per un lungo minuto, poi Reina cedette.
«Va bene» brontolò. Maki annuì e le ficcò tutto tra le mani.
«Io racconterò a mamma dell’uccellino! È quasi guarito, sarà felice di saperlo» annunciò allegramente.
«Davvero? Mmh... Quindi, quando lo liberi?» chiese Fumiko. Aveva già messo da parte il materiale per scrivere, sistemandolo in modo ordinato sul comodino.
Maki s’immobilizzò, colta alla sprovvista.
«Non te ne sarai dimenticata, vero?» la incalzò Fumiko.
Maki accennò una risata spensierata, ma non le riuscì molto bene.
«No, no, figurati» disse. «Sto solo aspettando il momento giusto!».
Fumiko sospirò e alzò gli occhi al soffitto.
«È per questo che non volevo» mormorò.
«Ti fai trascinare troppo dai tuoi sentimenti, così perdi di vista le cose importanti. Non basta avere buone intenzioni, Maki. Non puoi prenderti la responsabilità di una vita senza mettere in conto il fatto che prima o poi vi separerete» proseguì Fumiko. Anche se la stava rimproverando, la sua voce era colma di affetto. Maki abbassò il capo per evitare il suo sguardo.
«Ma Fumi... lo hai detto anche tu! Se esce, potrebbe farsi di nuovo male e... e potrebbe... Insomma, che bisogno c’è?! Potrei continuare a crescerlo io. Potrebbe restare con me, me ne prenderei cura...!».
«Non importa quanto è bella, una gabbia resta sempre una gabbia» affermò Fumiko, irremovibile. «Deve tornare libero, Maki. Anche se è difficile».
Rimasero per un po’ in silenzio, finché Maki non sbirciò verso di lei, esitante.
«Sicura? Sicura sicura?» chiese. Fumiko annuì, seria. Questa volta Maki non ribatté, ma poi parve riprendersi – la sua capacità di recupero era terrificante – e rivolse a Fumiko un sorriso sincero, anche se un po’ colpevole.
«Ho capito!» esclamò. «Ora vado dagli altri! A dare la notizia! E la carta! A dopo!». Di nuovo allegra, Maki lasciò la stanza con la stessa turbolenza con cui era entrata.
Reina rimase a fissare la porta, nervosa e confusa. Non aveva capito per nulla lo scambio appena avvenuto, e sembrava che si fossero completamente dimenticate di lei.
«Chissà se ha capito davvero» disse Fumiko tra sé e sé. Chiuse la porta, poi, nel girarsi, incrociò lo sguardo di Reina. Scrollò le spalle in risposta a una domanda non espressa e se ne tornò a leggere. La calma tornò, ma Reina non riusciva più a godersela. Continuava a pensare alla lettera che avrebbe dovuto inviare.
Dando le spalle a Fumiko, così che non potesse vedere cosa faceva, piegò il foglio e lo infilò nella busta. Senza scriverci nulla.
«Yagami, tu non parli molto, vero?» disse Fumiko d’un tratto, facendola sussultare. Reina ficcò in fretta busta e francobollo sotto il cuscino e si voltò lentamente, ma l’altra non la stava guardando, i suoi occhi erano apparentemente incollati alla pagina. Reina si rilassò un pochino.
«Non ho molto da dire» rispose.
Fumiko non ribatté, fece soltanto un verso sottovoce. Non era affatto convinta.
«A me sta bene così. Mi piaci, perché mi rilasso con te» disse, tranquilla. «Ma se vuoi essere amica di Maki, devi dirle apertamente ciò che provi... altrimenti lei non capirà».
Sì, pensò Reina, questo lo so. Ma il solo pensiero di dire tutto a Maki faceva crescere un peso nel suo petto; cresceva, cresceva, e l’avrebbe soffocata.
 
xxx
 
Qualche giorno dopo, Reina andò a cercare Zell per restituirgli la felpa. L’aveva fatta lavare assieme alle proprie cose – restava un mistero dove fosse la lavanderia; tutto ciò che Reina sapeva era che bisognava lasciare tutto in una borsa, e che Hitomiko portava tutto via e lo riportava qualche giorno dopo – e, visto che era rientrato quella mattina stessa, non c’era motivo di aspettare oltre. Imbracciando la felpa, si diresse verso le camere dei maschi.
Quando arrivò dalla loro parte del corridoio, alcuni ragazzi la guardarono con sospetto, altri con imbarazzo. Reina non capiva il perché. Alle ragazze non pareva importare molto quando Zell veniva a trovare Maki; a volte lo facevano persino entrare in stanza, e non sembrava essere un problema per nessuno. Forse la vedono come un’invasione di territorio? I ragazzi ragionano in modo strano.
«Cosa ci fai qua?» disse qualcuno alle sue spalle. Reina si girò e si trovò davanti Komazawa, che le sorrideva amichevolmente. Accanto a lui, un ragazzo coi capelli viola e le orecchie a elfo la guardava con aperta curiosità. Nessuno dei due appariva ostile. Reina decise di andare al sodo.
«Sto cercando Zell».
«Non è qua. Prova a cercarlo al pianoterra» rispose Komazawa.
Reina lo ringraziò, poi andò alle scale. Mentre si allontanava, li sentì fare commenti su quanto Zell fosse fortunato... Per cosa, esattamente, Reina non lo sapeva. Forse gli era successo qualcosa di bello? Reina sperava di sì. Zell era un bravo ragazzo e meritava decisamente qualcosa di bello.
Scese al piano di sotto e cercò Zell in mensa, nei corridoi e nelle aree relax, infine nell’ingresso. Era sul punto di rinunciare – ma quanto poteva essere difficile restituire una felpa? – quando finalmente, passando davanti ad una finestra, lo vide.
Zell era in piedi sotto il porticato; dava le spalle all’edificio, perciò non si accorse di lei. Per un attimo, Reina pensò di bussare al vetro della finestra per attirare la sua attenzione, ma si bloccò appena realizzò che l’amico non era da solo.
Lo sconosciuto con Zell aveva il viso allungato e i capelli di un nero lucente, legati in una coda di cavallo alta. Indossava un maglione di lana e stivali di pelle marrone, in stile cowboy. Non dimostrava più di vent’anni.
Anche se non aveva prove concrete, Reina capì che quell’uomo non poteva essere altri che Saginuma-san. Zell chiedeva spesso notizie di lui a Hitomiko, e sembravano essere in rapporti molto stretti. Chiunque fosse, Saginuma doveva essere una persona molto importante per Zell.
Reina si appoggiò alla parete, in attesa che finissero la loro conversazione. Aspettare non le costava niente. Dopo circa cinque minuti, Saginuma poggiò una mano sulla spalla di Zell, come per accomiatarsi, poi si voltò e s’incamminò verso la monovolume di Hitomiko.
La portiera dal lato del guidatore si aprì e ne uscì Hitomiko. Saginuma le si avvicinò e si chinò a sussurrarle qualcosa all’orecchio; lei fece un breve cenno di assenso. La natura della loro relazione non era molto chiara.
Reina stava per uscire, quando sentì Zell gridare. Non l’aveva mai sentito alzare la voce prima.
«Saginuma-san! Aspetta! Dimmi cosa devo fare!».
Evidentemente per lui la conversazione non era finita affatto, e la sua frustrazione era palpabile.
«Rispondimi! Cosa... cosa ti aspetti da me?! Per quanto ancora resterò qui?!».
Reina si paralizzò. Si era dimenticata che la permanenza di Zell era temporanea e quelle parole furono una doccia gelida.
«Non è il momento per parlarne» disse Saginuma, impassibile, e guardò dritto verso Reina.
Lei arrossì, colta in fallo, ma era tardi per nascondersi: a quel punto, infatti, anche Zell si accorse di lei. La fissò, confuso, e questo lo distrasse quel tanto che bastava perché Saginuma e Hitomiko entrassero in auto. Quando Zell si voltò di nuovo, Hitomiko aveva già messo in moto. Zell e Reina rimasero a osservare la macchina allontanarsi sempre di più fino a diventare una macchiolina di colore in lontananza.
A quel punto Reina uscì allo scoperto. Non sapeva come affrontare Zell, ma non aveva scelta. Sperava solo che non fosse troppo arrabbiato.
«Uhm... devo chiederti scusa. Non volevo spiarti, te lo giuro» disse, facendo un rapido inchino in avanti. Stringeva ancora la sua felpa tra le braccia, e il ragazzo lo notò.
«Yagami, alza la testa» disse. Reina si raddrizzò, esitante.
«Sei perdonata. So che non lo hai fatto apposta, tu non sei quel genere di persona. Ah, e grazie della felpa» proseguì Zell. La sua voce era calma e calorosa come sempre; non c’era traccia dell’impazienza di poco prima.
«No, grazie a te...» replicò Reina, impacciata. Zell non disse nulla, e rimasero in silenzio un po’ troppo a lungo perché non diventasse imbarazzante. Reina non riusciva a trovare la tempistica giusta per tornare indietro. Proprio quando si decise, Zell ruppe il silenzio.
«Ehi... Se non hai nulla da fare, posso dirti una cosa?».
Reina esitò, ma poi annuì.
Entrarono insieme e cercarono l’area relax più vicina, a quell’ora poco frequentata, perché con la mattinata libera tutti preferivano rilassarsi in camera propria. Quindi, al momento, non c’era posto più appartato di quello.
Appena arrivato, Zell si lasciò cadere su un divanetto di pelle, poi si spostò in modo da stare quasi attaccato al bracciolo: le stava lasciando tutto lo spazio per sedersi senza toccarlo, forse ripensando al loro primo incontro. Reina guardò Zell, che sembrava stanchissimo, e si sedette proprio accanto a lui, ignorando la distanza.
«Ti ascolto» disse a un soffio. Le loro ginocchia si sfioravano appena. Preso in contropiede, Zell s’immobilizzò e arrossì leggermente. Ma non si spostò.
«Ehm,» tentennò, si schiarì la gola, nervoso, «quanto hai sentito, esattamente...?».
«Solo la fine» rispose Reina. E poi, poiché non riuscì a trattenersi: «Quindi te ne vai?».
Stavolta Zell non ebbe la minima esitazione.
«Questo non è il mio posto... Sono qui solo perché Saginuma-san mi ha affidato a Hitomiko-san mentre lui si occupa di altri affari» disse.
«Ti ricordi le Spy Eleven? Saginuma-san è stato nominato da poco Spy Eleven qui in Giappone... a Hokkaido» continuò. «Io a lui devo tutto. Senza di lui, non sarei qui adesso, non sarei nessuno. Ho un debito enorme nei suoi confronti... Per questo vorrei andare là, in Hokkaido, per dargli una mano. Voglio essergli utile».
«Non voglio perdere quest’occasione, ho già perso troppo. Per questo ho accettato di stare qua mentre Saginuma-san consolida la sua posizione in Hokkaido. Io credo in lui, non c’è persona che ammiri di più, ma...».
Zell tacque. Fissava dritto davanti a sé, con le mani intrecciate in grembo. Reina lo guardava preoccupata, mentre aspettava che lui proseguisse.
«Ma adesso non sono più sicuro di niente» disse infine Zell. «Non so se ha davvero bisogno di me, o se invece sono solo un peso. Voglio dire, sono passate settimane e non mi ha mai contattato. Non so più se sia giusto o no che io lo segua lì...».
Allora resta, pensò Reina. Non riuscì a fermarsi, ma almeno serrò le labbra per impedirsi di dirlo ad alta voce. Non sarebbe stato corretto. Lei non aveva alcuna voce in capitolo sulla vita di Zell.
Mi mancherai, pensò. Ma non poteva essere egoista, perciò restò zitta. Non sapeva come confortarlo; non aveva esperienza con quel genere di cose. E non aveva niente da offrire, se non i capricci di una bambina che non vuole essere abbandonata. Ma Zell, ignaro di tutto ciò, parve accontentarsi di quegli attimi di quiete, seduti vicini, più vicini di quanto fossero mai stati.
 
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Il numero da lei chiamato è…
Sentire la voce distaccata e neutra della segreteria automatica era quasi più confortante che ricevere una risposta da uno dei suoi parenti.
 
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Reina avrebbe voluto vedere un’altra volta l’uccellino, ma per farlo avrebbe dovuto chiedere a Maki, e probabilmente rimanere sola con lei. Il pensiero bastava a paralizzarla. C’erano volte in cui avrebbe voluto mettere quanta più distanza possibile fra loro, e volte in cui realizzare che quella distanza già esisteva le toglieva il respiro. Più Maki brillava, più la sua luce era calda, e più lei avvertiva il bisogno di tornare nell’ombra e cercare conforto nella solitudine.
Ora che la pioggia cadeva di rado, la musica era l’unico rifugio che le era rimasto; eppure neanche la sua canzone preferita poteva darle il conforto che cercava.
Non aveva la forza di dimenticare ogni cosa.
 
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Una mattina di metà dicembre, come un preludio al Natale, arrivarono le risposte alle lettere.
Hitomiko diede appuntamento a tutti in mensa e, quando furono al completo, affidò a Fumiko l’incarico di distribuire le buste. Fumiko non rifiutò la richiesta solo perché veniva da Hitomiko, ma svolse il compito controvoglia, senza alcuna forma di partecipazione, sprecandosi, al massimo, in congratulazioni distaccate.
Maki accolse la lettera dei suoi genitori con pura gioia: l’aprì all’istante e la lesse diverse volte, facendo tintinnare di continuo i bracciali di metallo, troppo grandi per il suo polso sottile. Reina, intanto, sperava che la terra la inghiottisse. Come aveva previsto, i suoi amici realizzarono che Reina non aveva ricevuto nulla appena Fumiko tornò a sedersi e l’attenzione verso di lei scemò.
«Forse è solo andata persa nella posta» cercò di consolarla Zell, e sbirciando alla propria destra Reina notò che anche lui era a mani vuote. Maki si agganciò subito a quanto detto da lui.
«D-deve essere andata così! Non scoraggiarti, Reina-chan! Sicuramente arriverà nei prossimi giorni!» esclamò.
«Non fa niente, sto bene» disse Reina, pacata. Maki continuò a guardarla, preoccupata che stesse fingendo, ma Reina la ignorò.
Sbirciò verso Fumiko, ma l’altra aveva apparentemente deciso di ignorare la cosa, concentrandosi invece sulla propria lettera. Durante la lettura la sua espressione restò prudentemente neutrale, come se stesse reprimendo ogni briciolo di emozione. Reina si chiese da parte chi fosse, ma si morse la lingua: proprio lei non aveva il diritto di fare domande.
Il silenzio durò poco, perché qualche minuto dopo Maki riprese a parlare. Chiacchierava con Zell di cosa mangiare a pranzo, ma rispetto al solito la solita allegria sembrava forzata. Reina capì che lei e Zell cercavano di cambiare argomento per alleggerire l’atmosfera. Per non farle più pensare alla lettera. Ma Reina non ne era felice. Più Maki cercava di confortarla, più lei si sentiva in colpa, e stava rapidamente raggiungendo il limite di sopportazione.
Mentre considerava un modo gentile, ma fermo, di interrompere quello sproloquio, Hitomiko entrò nella mensa. Si fermò sulla porta e, da lì, chiamò ad alta voce proprio lei.
«Yagami, puoi seguirmi un attimo? C’è qualcosa di cui vorrei parlarti in privato».
Il suo tono era serio, e non prometteva niente di buono. Reina si alzò in piedi di scatto.
«Sarà meglio che vada» bofonchiò e, a capo chino per evitare le occhiate nervose degli altri, raggiunse Hitomiko.
Insieme si lasciarono la mensa alle spalle e imboccarono un corridoio che le portò dritte nell’area relax verde. A quel punto Hitomiko si fermò: si guardò intorno, come per accertarsi che fossero sole, poi si sedette su uno degli sgabelli.
«Yagami, siediti» la esortò.
Reina scosse il capo e rimase in piedi davanti a lei.
«Preferirei di no» rispose.
Si fissarono per qualche secondo; inaspettatamente, fu Hitomiko a cedere. Con un sospiro, la donna si frugò nella tasca della giacca e tirò fuori un involucro di carta, che appoggiò sul tavolo. Reina riconobbe all’istante la propria lettera.
«Non hai messo il francobollo, Yagami» le disse Hitomiko, a bassa voce. Le restituì la busta, facendola scivolare verso di lei. Reina la prese, esitante, e la strinse fino a spiegazzarla.
«È ovvio che una lettera così torni indietro. Te ne sei semplicemente dimenticata? Oppure...».
Guardava Reina come se volesse inchiodarla con gli occhi. Reina fece del suo meglio per resistere: non distolse lo sguardo, e mantenne la propria espressione accuratamente neutrale. Hitomiko aggrottò la fronte.
«C’è qualcosa che vuoi dirmi? Parlarne potrebbe farti sentire meglio e, naturalmente, ti prometto che non ne farò parola con nessuno». Una pausa. «So già qualcosa sulla tua situazione familiare, ma vorrei che fossi tu a parlarmene, Yagami».
In quel momento, Reina si rese conto di aver commesso due sbagli clamorosi. Primo, aveva consegnato la lettera, quando avrebbe fatto meglio a nasconderla. Secondo, aveva sottovalutato la donna che aveva davanti. Si sentì un’idiota. Probabilmente Hitomiko sapeva chi era da molto prima di incontrarla di persona.
Reina non si aspettava questo. Si aspettava... Non lo sapeva. Forse si aspettava che semplicemente Hitomiko la ignorasse. Gli adulti con cui aveva trascorso la maggior parte della vita ignoravano ciò che non portava guadagno.
Non ricevendo risposta, Hitomiko incalzò.
«In realtà, quando ho notato che mancava il francobollo, ho pensato che fosse strano che te ne fossi dimenticata. Non posso fare a meno di chiedermi...» disse, la sua voce si abbassò.
«Yagami, non hai mai avuto intenzione di spedire una lettera, non è così?».
Reina non sapeva cosa dire; era come se la voce le fosse stata rubata.
In quel momento nella stanza echeggiò un rumore metallico. Reina sussultò e si voltò di scatto. Sotto l’arco da cui erano appena passate c’era Maki, con le mani che tremavano e gli occhi spalancati. Uno dei bracciali le era scivolato dal polso ed era caduto a terra, e girò ancora una volta su se stesso prima di cadere di lato e fare di nuovo quel rumore.
Hitomiko si coprì il volto con una mano e sospirò, esasperata.
«Sumeragi...».
«Scusate, non l’ho fatto apposta! Ero preoccupata per Reina-chan e sono venuta a vedere e poi ho sentito la voce di Hitomiko-san e...». Maki s’interruppe, senza fiato per aver parlato così velocemente.
Il suo sguardo spaesato si fermò su Reina.
«Non... non capisco, che succede?» disse in un filo di voce. «Reina-chan... è, è la verità? Hai solo... finto di...?».
Reina avvertì un senso di vertigine. Una voce scattò nella sua testa. Scappa.
Prima che potessero intuire cosa stava per fare, cominciò a correre, infilandosi sotto il varco opposto a dov’era apparsa Maki. Sentì le voci dietro di lei, ma non si fermò. Corse a perdifiato verso l’uscita. Vide la porta. Si lanciò fuori senza alcuna esitazione, ma alla cieca. Non aveva idea di quale sarebbe stata la prossima mossa. Non aveva un piano, né tantomeno un luogo a cui tornare.
Era quasi uscita dal cortile quando la porta si aprì di nuovo.
«Reina-chan! Fermati!» urlò Maki e, per qualche motivo, il corpo di Reina obbedì.
Rallentò, fece un altro paio di passi avanti, come per inerzia, e poi si fermò. Le faceva male il petto, non riusciva a respirare.
Anche Maki respirava affannosamente e Reina, sbirciando alle sue spalle, la vide piegata in due, con le mani sulle ginocchia sulle ginocchia. Aveva perso anche gli altri due bracciali nella corsa, ed era tutta scarmigliata, in disordine dalla testa ai piedi. Reina continuò a fissarla, guardinga. Le spalle di Maki tremavano, o almeno così le pareva. Erano uscite entrambe senza una giacca.
Cosa sto facendo? Era una domanda più che legittima. Niente le impediva di continuare a correre. Eccetto che era tutto sorvegliato lì, li tenevano sempre d’occhio e probabilmente l’avrebbero trovata in poco tempo. Dopotutto, non poteva andare lontano, giusto? Ma non era per questo che Reina si era fermata. Non sapeva perché lo avesse fatto: era stata una risposta istintiva all’urlo di Maki. Alla disperazione nella sua voce. Cosa sto facendo?
Bugiarda. Non avevano tutti i torti a chiamarla così. E ora tutte le bugie che aveva accumulato erano sul punto di venire a galla, soffocandola.
Maki cominciò a riprendere fiato.
«Reina-chan... tu non volevi spedire la lettera fin dall’inizio». Non era una domanda. Reina strinse i pugni e distolse lo sguardo, secca.
«Avrei dovuto trovare una scusa per non mandare quella stupida lettera» sbottò.
«Ma… ma perché? Reina-chan,» Maki abbozzò un sorriso, «puoi parlarmi di tutto, lo sai...?»
«Non ho nessuno a cui spedire una lettera. Non ho nessun numero da chiamare. Hai capito, adesso?».
Si concesse di sbirciare verso Maki, e vide il preciso istante in cui la sua espressione cambiò.
«Anche le chiamate... Anche le telefonate erano tutta una bugia... Reina-chan, era tutto costruito, fin dall’inizio...? Non capisco...» cominciò a balbettare, confusa. Il suo sorriso vacillò. Alzò la voce. «Io non capisco, Reina-chan! Non sarebbe stato più facile dire che non volevi farlo? Perché mentire? Se solo tu me l’avessi detto, io...!».
«Non potevo dirtelo!» sbottò. La sua voce echeggiò nello spiazzo innevato, e Maki ammutolì di colpo. Reina affondò le unghie nei palmi delle mani. Doveva fermarsi ora o mai più, perché non avrebbe potuto tornare indietro. Ma era arrabbiata, troppo arrabbiata, da troppo tempo.
«Vuoi la verità?! Eccola qui, la verità! Io ti invidio, Maki... ti invidio, ti invidio...
«Hai una madre che ti ama, e una famiglia, e degli amici. Il tuo dono è una vera benedizione e hai delle persone che tengono a te. E sei una brava persona. Sei davvero, davvero una persona gentile... Sei sempre stata gentile con me, mentre io pensavo queste cose di te! Sei... sei tutto ciò che non sono, che non potrò mai essere, perché non importa cosa faccia alla fine sono sempre sola! Volevo essere tua amica, ma... volevo anche essere te!».
La vista le si offuscò, e Reina sollevò il viso così che le lacrime non potessero cadere.
«Ora capisci perché non potevo dirlo?! Come posso dire una cosa simile senza sentirmi ancora più miserabile?! Se avessi detto la verità, sarei diventata ancora più patetica! In confronto a te, sarei stata soltanto patetica!
«Non volevo parlarne, perché non volevo pensarci! Se non avessi mentito, sarei stata costretta a guardare in faccia la verità, che a nessuno importa di me!» gridò, non sapeva più come fermarsi.
Maki urlò così forte da sovrastare la sua voce.
«Ma a me importa!».
Reina si bloccò. Poi abbassò lentamente lo sguardo.
Anche Maki stava piangendo, ma, al contrario di lei, non faceva nulla per trattenere le lacrime. Guardava dritta verso di lei, senza paura. A carte scoperte.
«Se è così difficile da dire, non devi dirmelo per forza! Puoi anche dirmi che non ne vuoi parlare! Avrei preferito mille volte questo, piuttosto che una bugia!» gridò Maki. «Perché a me importa di te! E sono davvero felice che tu voglia essere mia amica...!».
«Come puoi dirlo?! Non sai niente di me!».
«E allora dimmelo! Voglio sapere tutto, voglio starti accanto! Non importa cosa mi dirai... Non importa se saranno solo cose terribili, Reina-chan sarà sempre Reina-chan!».
Reina soffocò un singhiozzo.
«Ma il mio dono...!».
La voce le venne a mancare. Maki poteva parlare così perché non sapeva. Non conosceva il vero orrore. E allora glielo avrebbe detto. L’ultimo piccolo, orribile segreto.
«Io posso vedere la morte delle persone!» gridò.
«Tu puoi salvare vite, mentre io…! Io non posso fare altro che vederle morire, ancora e ancora, e non posso evitarlo... Non posso fare niente, perché nessuno mi crede, nessuno capisce! Tutti mi trovano disgustosa, e anche tu… anche tu, adesso che lo sai...!
«Se la mia vita non cambierà, se anche il mio futuro sarà questo, allora avrei preferito non essere mai nata...!».
Reina si bloccò, senza fiato. Era esausta, e così triste, e così arrabbiata, da non poter più fermare le lacrime. Poi fu sopraffatta dalla vergogna e dalla paura, e chinò di nuovo il capo perché non voleva vedere l’espressione di Maki. Si aspettava che Maki si scagliasse contro di lei; invece seguì un lungo silenzio, che si mostrò ancora più difficile da digerire.
Alcuni interminabili minuti dopo, Maki parlò.
«Ho capito... Adesso basta. Basta così...» disse, poi tacque di nuovo.
Dal rumore dei passi e dal crepitio della neve calpestata, Reina capì che Maki se ne stava andando.
No. Si stava avvicinando.
Quando Reina sbatté le palpebre per schiarirsi la vista dalle lacrime, nel suo campo visivo comparve la punta dello stivale di Maki. Era a pochi passi da lei.
Senza pensarci Reina alzò la testa di scatto, sorpresa, e proprio in quel momento Maki la raggiunse e tese le mani verso di lei. Le braccia di Maki si strinsero attorno al suo corpo, con la stessa delicatezza con cui aveva raccolto quell’uccellino, come se avesse paura di romperla. La abbracciò così dolcemente da farle venire da piangere, e fu la prima volta che Reina realizzò che anche le cose delicate possono farti male.
«Basta, ti prego», la voce di Maki si spezzò in una supplica, «smettila di parlare così di te stessa! Non permetterò a nessuno di parlare male della mia amica, nemmeno se sei tu!».
Reina trattenne il respiro. Una lacrima le scivolò lungo la guancia.
«Perché...?» mormorò. Maki la strinse un po’ di più.
«Tu... tu dici di invidiarmi, ma... neanche io sono sempre sincera. Anch’io spesso mento agli altri e a me stessa. Cerco sempre di sorridere, di apparire ottimista, come se niente potesse buttarmi giù, anche quando in realtà sono triste, così triste che non so cosa fare... Solo per soddisfazione personale, per non essere ferita...
«Ho un amico che, come te, ha avuto una vita difficile... Quando era il momento di consolarlo, io non sono riuscita a dirgli niente. Anche se gli voglio bene, anche se sono sempre così preoccupata per lui... Sono rimasta là, senza dire niente... perché avevo paura di sbagliare, e di essere ferita. Sono stata così egoista...!
«Da quel giorno, ho deciso di non restare mai più in silenzio... A costo di essere fastidiosa e invadente, a costo di farmi odiare, ho deciso di dire sempre quello che provo alle persone a cui voglio bene... Perché certe cose, per quanto siamo vicini, vanno dette ad alta voce».
Maki si staccò da lei e la guardò, seria.
«Col mio dono posso guarire le ferite fisiche, ma non posso far nulla per quello che provi. Quello devi dirmelo tu, e possiamo lavorarci insieme. Perché siamo amiche, non è così?».
 «Tu vuoi,» Reina deglutì a fatica, «ancora essere mia amica...?».
«Non potrei mai odiarti,» disse Maki, «perché tu, Reina, sei così gentile.
«Sei gentile, per questo hai sopportato tutto da sola. Ma adesso è diverso. Non sei più sola, non sarai mai più sola, non importa cosa accada, te lo prometto».
Maki premette il viso bagnato contro il suo collo, e Reina avrebbe voluto scomparire nel suo abbraccio. Strinse una mano nel maglione di Maki, aggrappandosi a lei.
Tutti quegli anni di dolore – di rifiuti, di porte sbattute in faccia, e notti bianche – non erano nemmeno paragonabili a ciò che la terrorizzava di più. Gli incubi non erano nulla in confronto ai pensieri che la aspettavano al risveglio.
«Mi dispiace... mi dispiace, mi dispiace» pigolò Reina.
«In realtà, so che è colpa mia se sono sola... Anche se tutti mi rifiutavano, avrei comunque potuto farmi degli amici. Avrei potuto impegnarmi di più, ma non l’ho fatto. Ho lasciato che la distanza crescesse sempre, sempre di più... Sono stata io, fin dall’inizio, a mettere un muro tra me e gli altri. Perché più andavo avanti, più realizzavo che...
«È tutto inutile, non posso avere amici,» balbettò, «perché se li avessi, e dovessi vedere la loro morte... rimarrei troppo ferita, e non potrei sopportarlo...!».
«Lo so» ribatté Maki, con voce tremante. «Lo so, ma non puoi restare sola per sempre. Sono sicura che non è inutile... Se cerchiamo un modo insieme, qualcosa cambierà. Sono sicura che insieme troveremo un modo...
«E, anche se ci saranno momenti difficili, starò al tuo fianco e non mi arrenderò! Perché credo fermamente che un giorno... un giorno, sicuramente... il destino potrà essere cambiato. E così anche tu, Reina, potrai essere felice. Perciò... facciamo del nostro meglio, va bene...?».
A quel punto, le lacrime diventarono troppe, e Reina non riuscì più a vedere nulla.
«Sì» disse soltanto, poi i singhiozzi cominciarono a scuoterle tutto il corpo e non fu più possibile fermarli. Pian piano si appoggiò a Maki, premendo la fronte contro la sua spalla.
Più tardi, con più calma, Reina raccontò a Maki tutto: del suo dono, dei suoi genitori, dei suoi parenti. Anche se il suo viso s’incupiva sempre di più, Maki la ascoltò senza dire una parola e alla fine sorrise. Strinse appena le dita attorno al suo polso e le disse, piano: «Torniamo».
 
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Trovarono Fumiko seduta sul proprio letto, immersa nella lettura del libro sullo yoga. Aveva un’espressione impassibile, come se nemmeno si fosse accorta di quanto tempo erano state via, ma Reina si accorse che non era affatto andata avanti rispetto all’ultima volta che l’aveva vista leggere. Fumiko abbassò il libro, le studiò per circa un minuto, poi annuì, senza fare domande. Reina gliene fu grata.
Si prepararono per la notte come al solito, ma, non appena venne il momento di dormire, Maki sorprese entrambe spingendo il letto di Reina contro il proprio.
«Così possiamo dormire vicine! Sarà un po’ come un pigiama party!» esclamò mentre s’infilava sotto le coperte. Reina esitò, ma poi la imitò. Fumiko le guardò, poi scrollò le spalle e spense le luci. Nel buio, Maki si girò a guardare Reina.
«Hai paura di addormentarti?» le sussurrò. «Per i brutti sogni?».
Reina annuì, piano. «Un po’».
«Se succederà, puoi svegliarmi. Ci sono io a proteggerti» la rassicurò Maki. Imbarazzata, Reina si morse il labbro e non rispose. Maki allungò una mano e le diede una piccola carezza sulla testa, come se stesse consolando una bambina.
Un rumore improvviso le fece sobbalzare. Le luci si accesero di nuovo. Maki e Reina scattarono entrambe a sedere e guardarono stralunate la compagna che stava in piedi e a braccia conserte.
«Oh, non guardatemi così» disse Fumiko. Con un po’ di fatica, spinse il proprio letto accanto ai loro, poi spense le luci e tornò a letto. Una volta scivolata sotto le coperte, diede loro le spalle.
«Buonanotte» bofonchiò. Maki sorrise.
«Eri preoccupata, Fumi?».
«Oh, sta zitta, Maki».
Reina pensò a Fumiko, che le aveva aspettate in camera per tutto il tempo, e al libro rimasto a metà. Poi premette il viso contro il cuscino, bagnandolo con le proprie lacrime, e chiuse gli occhi. Per la prima volta in molto, molto tempo, era certa che sarebbe stata una nottata tranquilla.
 
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Una mattina, entrando nell’area relax dove le tre amiche trascorrevano serenamente la pausa pomeridiana, Zell esordì così:« Quindi, sembra che mi trasferirò subito dopo Natale».
Fumiko non sollevò neppure lo sguardo dal libro. «Ah, davvero?» mormorò, mentre Maki e Reina smisero di parlare dell’addestramento della mattina e si voltarono verso di lui. Maki gli fece subito spazio vicino a lei e Zell accolse l’invito con gratitudine, lasciandosi cadere sul divanetto verde acido. Passò qualche minuto a cercare la posizione più comoda prima di riprendere il discorso.
«Okay, allora, Saginuma-san ha sistemato le cose a Hokkaido, perciò posso finalmente trasferirmi. Pare che lavorerò direttamente sotto il suo comando e... be’, non posso dirvi altro, scusate, è top secret».
«In realtà nessuno ti ha chiesto niente» obiettò Fumiko. Maki le diede un lieve schiaffo sul braccio, e lei alzò gli occhi al cielo.
Maki si rivolse a Zell. «Mi mancherai, ma se sei felice, ti appoggerò!» lo incoraggiò. Poggiò una mano sulla sua spalla e gli diede una breve stretta, piena di affetto. Zell ricambiò con un sorriso sollevato, poi si girò e incrociò lo sguardo di Reina.
La ragazza esitò per un attimo. Aveva paura di non riuscire a essere felice per lui; cercando dentro di sé, però, non trovò più i sentimenti negativi che aveva avuto la volta precedente. Si poggiò una mano sul petto e sospirò di sollievo. Quella scoperta la faceva sentire molto meglio.
Zell ora la guardava perplesso, e Reina tentò di abbozzare un sorriso un po’ goffo.
«Sono felice per te, Zell. So quanto volevi andarci» disse.
«Grazie» mormorò lui. Sembrava un po’ commosso. Reina si chiese se avrebbe dovuto stringergli la mano o qualcosa del genere, ma si bloccò, temendo che a Maki potesse dare fastidio. Le pareva che quei due si piacessero a vicenda, non voleva mettersi in mezzo.
Rimasero per un po’ in silenzio, poi Fumiko sbottò: «E va bene, anch’io sono felice per te, okay? Non sei così fastidioso, in fondo. Congratulazioni!».
Maki soffocò a stento una risata, guadagnandosi un’occhiataccia. Per alleggerire l’atmosfera, senza però incorrere nell’ira di Fumiko, Zell decise di cambiare argomento alla svelta.
«E voi cosa farete? Avete già un piano per il futuro?» domandò.
Fumiko si ricompose immediatamente.
«Io seguirò Hitomiko-san, è naturale!» dichiarò. «E sia chiaro, non farò certo l’agente. Pensavo piuttosto di fare lavoro d’ufficio. O magari farò la segretaria di Hitomiko-san, quello sì che sarebbe un sogno!».
«Ah, neanche io sarò agente operativo, credo. Sarebbe un po’ troppo complicato» osservò Zell.
«Scusate, non vi seguo» intervenne Reina, confusa. «Cosa fa un agente... operativo?».
«Be’, non è una regola, ma di solito solo quando hai un dono puoi fare l’agente. E scelgono gente particolarmente forte, o che sia utile, comunque» spiegò Zell, tranquillo. «Non penso che molta gente qui finirà sul campo, ecco».
Reina si accigliò. «Ancora non vi seguo».
«In breve, qui hanno tutti doni deboli, o difensivi, o roba che certo non ti salverebbe in battaglia» disse Fumiko. Le labbra le si incresparono in un sorriso insolitamente candido. «L’ha voluto Hitomiko-san, per non lasciare indietro nessuno. Un’altra prova della sua infinita compassione! Altri ci avrebbero semplicemente scartati, invece lei ci ha dato un posto tutto per noi». Reina annuì, cercando di metabolizzare il tutto. Finalmente capiva perché Hitomiko l’aveva fatta venire in quel posto, e quella nuova consapevolezza le scaldò il petto.
«Non... non lo sapevo. Grazie di avermelo detto» mormorò.
Fumiko annuì, soddisfatta. Maki alzò una mano di scatto, come se volesse essere interpellata, ma era troppo impaziente per aspettare oltre.
«Anche la qui presente Sumeragi Maki entrerà nella stessa agency dove c’è Hitomiko-san! Ma ho deciso che farò l’agente operativo! O, almeno, cercherò di diventarlo... Un mio amico andrà lì e ci siamo promessi di provarci assieme, quindi farò del mio meglio!» annunciò.
Fumiko aggrottò la fronte, perplessa.
«Non sarà per niente facile, lo sai? Non siamo stati addestrati a combattere» obiettò.
«Lo so! Ma voglio farlo lo stesso!».
Fumiko la fissò per un lungo momento. «Be’, va bene. Non è che voglia farti cambiare idea. E poi tu di certo non sarai inutile, sei come una cassetta del pronto soccorso su gambe».
«Grazie!» esclamò Maki allegramente, anche se Reina non era affatto certa fosse un complimento. Fumiko scosse il capo, esasperata, ma Maki la ignorò e si sporse sul tavolo verso Reina, piena di entusiasmo.
«Reina! Tu hai già deciso? Se non hai altre idee, vieni con noi! Se diventi agente operativo anche tu, potremmo essere partner!» esclamò.
L’aveva colta alla sprovvista un’altra volta. Reina esitò e, in silenzio, osservò i suoi tre amici uno ad uno.
«Io... ho perso il mio posto una volta, e da allora non ne ho più avuto uno. Mi sono fatta semplicemente trascinare dagli eventi, ma non voglio più farlo. Voglio fare qualcosa che mi renda orgogliosa. E felice» disse lentamente, scegliendo con cura le parole. Si girò e guardò Maki dritto negli occhi. «Quindi la mia risposta è sì».
Maki sbatté le palpebre, confusa. «Sì?».
«Sì» ripeté Reina. «Verrò con te. E proverò a diventare un agente operativo, anche se il mio dono non è forte, né utile, né altro. Farò tutto quello che posso e conquisterò la forza che voglio con le mie mani».
Maki spalancò la bocca per la sorpresa, ma poi scoppiò in una fragorosa risata. Si alzò, fece il giro del tavolo e si gettò su di lei, facendola quasi cadere dal pouf.
«Sei la migliore! Saremo le migliori partner di sempre!» strillò Maki.
Reina pensò che Fumiko si sarebbe lamentata del rumore, ma per una volta l’altra sembrava totalmente senza parole. Reina sperò che fosse una cosa positiva. Cercando di non soffocare nell’abbraccio di Maki, si voltò leggermente e incrociò lo sguardo di Zell. Il ragazzo le fece un piccolo cenno col capo e sorrise, come a farle i suoi migliori auguri.
 
xxx
 
Scelsero una mattina di bel tempo, o comunque il migliore possibile. Il cielo era azzurro, il sole brillava alto anche se non era caldo e di nuvole non c’era traccia, perché erano state soffiate via dal vento. Quello era l’unico problema. Reina strinse le mani nelle maniche del giubbino nero che era stato il regalo d’addio della zia; per qualche motivo, lo sentiva molto più caldo del solito. Fumiko e Maki stavano in piedi alla sua sinistra, entrambe ben coperte. Fumiko indossava almeno due maglie in più rispetto a loro; insomma, la normalità. E così le tre ragazze attesero in silenzio che Zell portasse lì l’ospite d’onore.
Il ragazzo arrivò poco dopo, portando a due mani la gabbia. L’uccellino sembrava parecchio vispo e dava voce all’agitazione strillando, specialmente quando la gabbia fu poggiata a terra.
Zell guardò le ragazze, aspettando un loro cenno di assenso. Il suo sguardo indugiò più a lungo su Reina, la quale annuì dopo un attimo di esitazione.
Quando Zell aprì la gabbietta, l’uccello saltellò fino ad arrivare all’uscio della porticina e si guardò attorno spaesato e impaurito. Aprì un’ala, poi l’altra, come se stesse testando le proprie capacità fisiche, poi finalmente lasciò la gabbia. Nell’istante in cui spiccò il volo, Reina trattenne il fiato. All’improvviso realizzò che tantissime cose sarebbero potute andare storte.
Come a confermare quelle paure, l’uccellino riuscì a salire solo di qualche metro prima che una folata di vento lo investisse e lo spingesse verso il basso. Per un attimo Reina temette che sarebbe precipitato, o che il vento lo avrebbe trascinato con sé. Strinse i pugni sul petto e mormorò sottovoce: «Coraggio... coraggio...!».
Poco dopo, come se in qualche modo avesse recepito l’incoraggiamento, l’uccello sconfisse la pressione del vento e riprese quota. Acquistata maggiore sicurezza, disegnò un cerchio sopra le loro teste, poi si sollevò sempre di più, fino a stagliarsi contro l’immensità del cielo azzurro. Reina non riusciva a staccare gli occhi da quell’immagine. Proprio adesso, aveva voglia di cantare a gran voce, ma non conosceva le parole di nessuna canzone. Anzi, una sì.
Il testo di Amefuri cominciò a riversarsi dalle sue labbra prima di potersi fermare. I suoi amici si voltarono a guardarla, stupiti. Reina era consapevole che era una scelta strana, tuttavia non smise di cantare: non avrebbe potuto fermarsi neanche volendo, perché, se l’avesse fatto, di certo le sarebbe venuto da piangere. Non aveva mai provato un’emozione tanto forte.
Rimase sorpresa quando Maki si unì a lei e le loro voci si sovrapposero in un quieto pitchi pitchi chappu chappu ran ran ran. E, forse, provò uno stupore ancora maggiore quando la voce di Zell si aggiunse alle loro. Fumiko, invece, scosse il capo e sospirò.
«Sul serio? Ma non sta neanche piovendo» mormorò, lo sguardo fisso sul cielo. Aveva l’espressione più serena che Reina le avesse mai visto in volto.
La cinciarella non si fermò a salutarli prima di volare via, ma Reina non se la prese: dopotutto, pensò, gli uccelli nascevano per essere liberi. Era felice che le loro strade si fossero incrociate, anche se per poco. Mentre lo pensava, il suo cuore era leggero come una piuma. 
 
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La mattina di Natale, Maki la svegliò saltandole letteralmente sul letto.
«Reina! È Natale! Il nostro primo Natale assieme!» esclamò, scuotendola. Quando aprì gli occhi, Reina se la trovò a un palmo dal naso. Ricordava vagamente di essere crollata dal sonno la sera precedente.
Hitomiko aveva organizzato per loro una festa della vigilia a sorpresa, e avevano festeggiato fino a tarda serata. La mensa, decorata in ogni angolo con lucine e addobbi natalizi, offriva una sfilza di piatti prelibati, che avevano mangiato con gli occhi prima ancora che con la bocca. Fette di arrosto di maiale navigavano in zuppe di ramen e miso, sulle quali troneggiavano uova fritte dal tuorlo dorato; c’erano montagne di pollo fritto impilate su vassoi ovali; i cesti di panini bianchi al vapore, caldi e morbidi, venivano riempiti di continuo, così che non ne restassero mai senza; e per tutta la sera si erano passati avanti e indietro ciotole di riso da riempire a proprio piacimento con fette di prosciutto, manzo essiccato, funghi, uova strapazzate e verdure di stagione. Alla fine del pasto, il cuoco che Hitomiko aveva assunto – un uomo alto e grosso con capelli e barba bianca e occhialini scuri sul naso, che avrebbe potuto benissimo essere Babbo Natale in persona – era uscito dalla cucina con un carrello di dolci: una shortcake altissima e sofficissima, ricoperta e farcita con panna e fragole, e un tronchetto di crema al cioccolato con decorazioni di zucchero colorate. Non c’era da meravigliarsi se avevano mangiato fino a scoppiare, per poi crollare abbracciati ai propri cuscini appena messo piede in camera da letto.
Dal momento che Reina era ancora intontita dal sonno, Maki le afferrò le mani e la tirò su praticamente di peso.
«Vestiti, dai! Ho scelto io per te!» esclamò, indicando quelli che erano certamente abiti di Reina, piegati in fondo al suo letto. Troppo assonnata per fare domande o protestare, Reina lasciò il letto e andò in bagno con i vestiti sotto braccio. Mentre si preparava, rischiò di restare incastrata nel maglione di lana spessa per ben due volte. Quando finalmente riuscì ad emergere dal collo a tartaruga senza soffocarsi, si guardò allo specchio e realizzò vagamente che Maki aveva abbinato un pantalone rosso ruggine con un maglione azzurro e calzettoni verdi. Decise di non cambiarsi, tornò in camera e gettò il pigiama appallottolato sul letto.
Maki era seduta a terra a gambe incrociate e si stava mettendo lo smalto; aveva già finito una mano. Fumiko, già sveglia e pronta da un pezzo, era seduta sul proprio letto. Una rapida occhiata all’aspetto di Reina bastò perché si alzasse.
«Vieni qua, ti sistemo i capelli» disse. Frugò nel cassetto del comodino, poi afferrò Reina per un braccio e la fece sedere sul bordo del letto con lei. Cominciò a pettinarla, un po’ con le dita, un po’ con la spazzola, senza aspettare una risposta da parte di Reina, al momento incapace di formulare una frase.
Mentre Fumiko era indaffarata a riempirle i capelli di forcine, lo sguardo di Reina cadde involontariamente sulle calze di lana dell’altra: alte fino al ginocchio, rosse, con ricami blu che rappresentavano dei cristalli di neve, e quasi certamente fatte a mano. In quel momento, le tornò in mente proprio l’immagine di sua zia che faceva la maglia. Era un ricordo caldo, con una punta di malinconia, la stessa sensazione che si prova guardando una vecchia foto ingiallita.
«Fatto!» annunciò Fumiko, strappandola ai suoi pensieri. Sembrava molto soddisfatta di sé. Sentendo un’insolita sensazione di freddo alla nuca, Reina si portò istintivamente una mano ai capelli, ma Fumiko la bloccò.
«Ehi! Non toccarla, rischi di rovinarla! Aspetta un momento» disse, si alzò e prese una sorta di astuccio dal comodino. Quando lo aprì, Reina realizzò che era una trousse e, sopra una piccola palette di lucidalabbra e ombretti, c’era uno specchio rettangolare, di modeste dimensioni.
Reina osservò attentamente la pettinatura a cui non era abituata. Era una semplice coda di cavallo, anzi una treccia, che partiva dal centro della testa e scendeva sulle spalle. Fumiko aveva lasciato sciolte le due ciocche bianche, in modo che cadessero morbide davanti alle sue orecchie. In quel momento, Maki sollevò lo sguardo verso di loro.
«Oooh, ma quanto sei carina!» commentò. «Fumi, ottimo lavoro! Le sta benissimo!».
«Ovviamente».
«È carinissima» disse Reina. «Mi piace molto. Grazie, Fumiko».
Fumiko sorrise, molto compiaciuta. Era molto brava in quel genere di cose. Restava però un mistero come riuscisse a farsi i boccoli ogni mattina.
Reina si sedette di nuovo sul letto per infilarsi gli stivali. Intanto, Maki decise che lo smalto era abbastanza asciutto e si tuffò, quasi letteralmente, nel letto sfatto: si stese a pancia sotto, con i piedi dondolanti in aria e la testa che sporgeva dal bordo, mentre si protendeva per raggiungere qualcosa sotto il materasso.
«Finirai per cadere» la avvertì Fumiko, ma Maki la ignorò. Stava canticchiando un motivo natalizio piuttosto allegro, che dopo un po’ Reina riconobbe come Jingle Bells.
«Ecco qua!».
Maki si rialzò, sollevando in aria una scatola colorata con fare trionfante. La aprì, sotto lo sguardo stupefatto delle sue amiche, e ne tirò fuori una larga sciarpa rosa, su cui erano stati cuciti a mano tanti piccoli fiorellini di tessuto. Maki pescò dalla scatola anche una busta di carta giallina e la tese a Fumiko.
«Questo è il mio regalo di Natale per te» rivelò Maki con un gran sorriso. Confusa, Fumiko accettò la lettera. Maki scoppiò a ridere.
«Ma no, non solo la lettera» disse. Si alzò e, con delicatezza, avvolse la sciarpa sulle spalle di Fumiko. «Ah, ti dona tantissimo, che bello!».
«Uh, sì... cioè, cosa?» farfugliò Fumiko, mentre istintivamente tastava la sciarpa con la mano libera. «Ma io non ti ho regalato niente» bofonchiò, imbarazzata.
«Figurati! Non devi sentirti in debito, l’ho fatto perché volevo. Cucire è il mio hobby! Ho imparato da mia mamma. Quindi ho chiesto aiuto a Hitomiko-san per la lana» disse Maki.
Invece di rispondere a voce, Fumiko la abbracciò e Maki ricambiò all’istante, sorpresa, ma felice.
«Mi raccomando, leggi anche la lettera!» disse quando si staccarono. Fumiko tossicchiò, cercando di ricomporsi.
«Sì, sì, in privato, perché sono certa che sarà imbarazzante» mormorò, impacciata.
Maki rise di nuovo, poi riprese in mano la scatola; questa volta, a uscirne fu un involucro di carta scura, su cui c’era una letterina attaccata con del nastro adesivo. Maki si girò verso Reina e le tese il pacchetto.
«Buon Natale, Reina» disse, incoraggiante.
Appena lo ebbe tra le mani, Reina staccò subito la lettera, tirandola con attenzione per paura di strapparla per errore. Una volta scartato il pacco, si trovò in mano un paio di guanti di stoffa blu cuciti a mano, con ricambi bianchi e gialli all'altezza dei polpastrelli. Era chiaro a cosa Maki stesse pensando mentre li creava. Reina alzò lo sguardo di scatto, con gli occhi velati di lacrime.
«Maki... sono bellissimi... Grazie, è il regalo di Natale più bello che abbia mai ricevuto… Be’, non che ne abbia ricevuti tanti, ma sai che voglio dire» disse, un po’ a fatica. Rise piano mentre asciugava gli occhi umidi.
«Mi accerterò di ricambiare in futuro... partner» aggiunse.
Un attimo dopo, Maki le gettò le braccia attorno e la abbracciò strettissima.
 
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Appena messo piede fuori, Fumiko inspirò bruscamente e soffiò tra i denti, stringendosi le braccia attorno al corpo. Portava la stessa gonna che aveva indosso il giorno in cui si erano incontrate per la prima volta; Reina era sicura che sotto avesse almeno due paia di calze di cashmere. Era un mistero come riuscisse a muoversi agevolmente con tutti quegli indumenti pesanti addosso. Fumiko si arrestò appena fuori la porta, decisa a non oltrepassare il portico. Onestamente, era già un miracolo che fosse venuta fin lì, considerato che non aveva grande affinità con Zell e il genere maschile in generale.
Reina si fermò poco più avanti di lei e si guardò attorno.
Hitomiko e Saginuma stavano parlando davanti alla monovolume. Aveva nevicato tutta la notte, e i loro capelli scuri spiccavano nello spiazzo imbiancato. I ceppi di tronco erano stati sepolti quasi totalmente, e i rami ossuti degli alberi erano come impolverati, cosicché l’intero paesaggio era silenzioso e spettrale. La valigia di Zell era sotto il portico, a pochi metri da loro, mentre il suo proprietario se ne stava in disparte, appoggiato alla parete con il viso sepolto nella sciarpa.
Prima che Reina potesse chiamarlo, Maki la anticipò.
«Zell! Siamo venute a salutarti!» cinguettò, allegra. A ogni passo la sua gonna di tulle sobbalzava e si sollevava di un buon palmo, scoprendo i calzettoni di lana a pois.
Appena gli fu abbastanza vicina, Maki afferrò le mani di Zell e le strinse forte, dondolandole da un lato e dall’altro.
«Ehi, ciao» disse Zell, con la voce soffocata dalla sciarpa. Non sembrava infastidito per il gesto, ma cominciò ad agitarsi non appena realizzò che non erano soli. Pensando che fosse imbarazzato, e sentendosi improvvisamente di troppo, Reina si voltò da un’altra parte.
«Ah, fate come se non ci fossi» disse, sperando di rassicurarli. «Voglio dire, scusate, non ho pensato che voleste un po’ di... privacy. Ma posso andare più in là, se volete».
Maki e Zell la guardarono con un’espressione spaesata.
«Eh? Perché?» chiese Maki.
«Perché... non voglio essere invadente...?». Adesso anche Reina era confusa. Continuarono a fissarsi senza capire niente, finché Fumiko non intervenne.
«Oooh, capisco. Pensa che voi due siate una coppia...» disse, e sulle sue labbra comparve un sorriso divertito.
Non aveva neanche finito che Maki e Zell si separarono di scatto. Zell fece un verso soffocato e guardò Reina a occhi sgranati.
«Noi non stiamo insieme!» esclamò, con una voce un po’ più acuta del normale.
Reina non capiva come mai fosse tanto agitato.
Lo studiò in silenzio, fissandolo dritto in viso, finché Zell non ruppe il contatto visivo per la vergogna. Il ragazzo cominciò invece a giocherellare goffamente con l’orlo della giacca a vento, forse lambiccandosi il cervello per trovare qualcosa da dire e alleviare la tensione. Fumiko si premette una mano sulla bocca, come se si stesse trattenendo per non scoppiare a ridere, mentre Maki si sbatté una mano sulla fronte e sospirò.
«Siamo solo amici, Reina» disse. Anche lei sembrava a disagio, e rivolse a Zell un’occhiata sconfortata. «Solo amici, davvero» sottolineò con maggiore enfasi.
«Oh. Va bene, ho capito. Mi dispiace aver frainteso» ribatté Reina, perplessa dalle loro reazioni, a suo parere eccessive.
Dopo alcuni secondi di silenzio, Maki colpì Zell sulla schiena e, quando lui la guardò stupefatto, gli scoccò un’occhiata eloquente. Allora Zell fece un mezzo passo verso Reina: le sorrise, incerto, e le tese la mano.
Reina la guardò per un momento, poi la ignorò e si mosse per abbracciarlo: era troppo più bassa di lui, perciò dovette accontentarsi di stringerlo all’altezza del petto, ma a lei piaceva così. Zell sobbalzò, preso in contropiede, e agitò le mani senza sapere dove appoggiarle. Reina sospirò.
«Ho sentito dire che in Hokkaido fa molto freddo. Prenditi cura di te» gli disse, sottovoce. A quel punto finalmente Zell si rilassò e, superato lo stupore iniziale, la strinse al petto. Reina percepì distintamente le sue mani gentili sulla schiena, e il suo respiro tra i capelli.
«Lo farò. Buona fortuna anche a te... Reina» mormorò il ragazzo.
Sciolsero lentamente l’abbraccio. Zell sembrava raggiante, al punto che sembrava contagioso. Separarsi con un sorriso non era poi così male.
 
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Due settimane dopo la partenza di Zell, anche per le ragazze arrivò il momento di lasciare il nido.
Reina era pronta, ma non lasciò subito la stanza. Voleva osservarla prendersi qualche momento per imprimere ogni dettaglio nella propria memoria. Vedendo i letti spogli e i mobili svuotati, era impossibile non provare tristezza, ma bisognava andare avanti. Stranamente, Reina non aveva paura del cambiamento che si stava verificando tutt’intorno a lei, e dentro di lei.
Fumiko e Maki avevano lasciato la camera prima di lei; si erano alzate molto presto, perché la sera precedente Hitomiko aveva chiesto loro di raggiungerla nel proprio ufficio. Reina era impaziente di riunirsi a loro, e fu questa impazienza a spingerla a chiudere la porta una volta per tutte. Scese al piano inferiore, con zaino e borsa sulle spalle. Gli scarponcini colpivano il pavimento con un suono continuo e musicale: toc toc. Gli altri ragazzi se n’erano andati il giorno prima e nel centro regnava un silenzio innaturale. Toc toc. Reina si era abituata al chiacchiericcio, al tintinnio delle posate, al rumore dei passi. Ora, invece, si sentivano solo i suoi. Toc toc toc toc.
Alcuni erano rimasti in Giappone; altri erano partiti addirittura per l’Europa, dove il padre di Hitomiko aveva un vecchio amico. Il sistema che regolava le agency era complesso e la confondeva ancora. Erano partiti prima di lei perché tutti avevano scelto, com’era prevedibile, di non diventare agenti operativi. Chissà se lavorare in un ufficio li avrebbe resi davvero felici? Reina pensava di conoscerli bene, ma adesso, vagando per quell’enorme edificio vuoto, realizzò che non aveva la minima idea di quali motivi avessero spinto ognuno di loro ad accettare l’invito di Hitomiko. E lo rimpianse, perché sapeva che c’erano poche probabilità di rivederli.
Ciò che più la rendeva triste era il pensiero di non avere più modo di contattare Zell. Apparentemente, la sua agency era praticamente tagliata fuori dal resto del mondo. Se l’avesse saputo prima, forse avrebbe insistito perché restasse, ma ormai non c’era niente da fare.
Dovette arrivare fino a una delle due aree relax per riuscire a incontrare un’altra persona.
Quella mattina Fumiko indossava un maglione grigio scuro che le arrivava fino alle ginocchia e, legata intorno al collo con un fiocco, la sciarpa che Maki le aveva regalato per Natale. Le calze di lana rossa sparivano in stivali alti di pelle di daino, chiaramente imbottiti. Era seduta su un pouf con le gambe accavallate, un gomito sul tavolo e il viso appoggiato a una mano; con l’altra sfogliava il libro di autodifesa che teneva aperto davanti a sé. L’aveva quasi finito.
Reina si sfilò la borsa, la poggiò sul tavolo e si sedette di fronte a lei. Fumiko era l’unica, tra quelli che avevano scelto il lavoro d’ufficio, a non essere partita subito. Non aveva alcuna intenzione di lasciare quel posto senza Hitomiko.
Quando Reina si sporse per leggere il titolo del libro, Fumiko alzò lo sguardo verso di lei.
«Lo vuoi? Io sono alla fine, quindi puoi chiedere a Hitomiko di prestarlo anche a te. In fondo questa roba servirà molto più a te che a me».
«Sì, in effetti potrebbe farmi comodo una lettura veloce» disse Reina, scrollò le spalle. «Credo che Maki e io dovremo faticare il doppio per riuscire a entrare... Ma chi se ne importa».
Fumiko la squadrò per un momento, poi disse: «Devo ammettere che mi hai veramente sorpresa. Non pensavo che avresti preso questa strada».
Reina abbassò lo sguardo e si mise a giocherellare con la zip della giacca.
«Mm, in effetti, ne sono rimasta sorpresa anch’io. Sai, devo tutto a voi».
«In che senso? Non ti seguo».
«Be’, tu, Zell e Maki mi avete fatta sentire... a casa. E, mentre pensavo a come esprimere la mia gratitudine, ho capito che in realtà i miei sentimenti erano molto più profondi. Mi sono sempre sentita in difetto verso gli altri, come se dovessi sempre loro qualcosa... Ma tutto quello che volevo era qualcuno che avesse bisogno di me, qualcuno che volesse me. Così ho capito che quello che voglio davvero è fare la differenza per qualcuno.
«Insomma, voglio essere una persona migliore, credo» concluse e sorrise timidamente.
Fumiko non rispose subito. Quando Reina sollevò lo sguardo, e vide la sua espressione combattuta, allungò la mano sul tavolo e la poggiò sulla sua senza pensarci due volte.
Fumiko sospirò, poi si girò verso di lei. Le sue labbra tremarono leggermente.
«Il mio dono...» disse, seria. «Non è niente di speciale, e ha anche un prezzo... Posso produrre una piccola fiammella, ma perché la fiamma bruci, qualcosa deve consumarsi in cambio... Sono come una stupida candela».
«Aspetta, per questo hai sempre freddo?» chiese Reina, stupita. «Il tuo potere... intacca la temperatura del tuo corpo?».
Fumiko annuì, imbronciata.
«Ma, anche se come potere fa schifo, è pur sempre una cosa anormale. Sono figlia unica, e mia madre mi ha cresciuta da sola, e... Lei, quando l’ha scoperto... be’, ha cominciato a dare di matto. È diventata ossessiva, mi ha impedito di andare a scuola e voleva che rimanessi sempre dentro casa, dove lei poteva vedermi» raccontò con voce sommessa.
«Perciò Hitomiko-san mi ha salvata, ci ha salvate. Mamma si è convinta e... e ora sta bene. Quando ci sentiamo al telefono, adesso, mi sembra di parlare con la mamma di prima, prima che il mio dono venisse fuori...».
Fumiko si accigliò, le labbra piegate in una smorfia.
«Non è facile da spiegare. Dovrei avercela con lei, ma... lei mi ama. Aveva paura, ma credo che abbia cercato di proteggermi come poteva. E io la amo, ma mi sentivo in gabbia e non ero felice... ma non è tutta colpa sua. Non so se ha senso... Ha senso per me».
Reina ci pensò. Non poteva dare una risposta superficiale.
Istintivamente strinse la mano libera sul petto, sentì il tessuto della giacca scivolarle sotto i polpastrelli. Nella sua mente, tornò vivida l’immagine della donna che la chiamava “cara”, e che le aveva fatto due regali a cui Reina teneva moltissimo, per quanto di seconda mano. Forse la donna aveva cercato di starle vicino, a modo suo, ma erano tentativi goffi, in ritardo di anni, e allora Reina non l’aveva capito.
«Sì... sì, credo di capire cosa vuoi dire» dichiarò alla fine.
Estese anche l’altra mano verso Fumiko.
«Facciamo entrambe del nostro meglio, okay?» disse, con un sorriso. Quando Maki le aveva detto quelle parole, l’aveva resa molto felice; adesso sperava di poter fare lo stesso per Fumiko.
Con suo grande sollievo, Fumiko si sciolse in un sorriso gentile e le strinse le mani a sua volta; poi chiuse gli occhi un momento e cercò di ricomporsi.
Proprio allora, con un tempismo perfetto, Maki entrò nella stanza di corsa e gettò le braccia attorno alle spalle di Fumiko, che sobbalzò e si lasciò sfuggire un piccolo verso di sorpresa.
«Maki! Ci siamo viste appena un’ora fa!» la rimbeccò, esasperata.
«E non posso abbracciarti lo stesso?» ribatté Maki scherzosa, punzecchiandole la guancia con un dito. Poi abbassò lo sguardo sul tavolo e sbatté le palpebre con aria perplessa.
«Perché vi tenete per mano? Oh, Fumi, ti mancheremo così tanto?».
Fumiko inarcò un sopracciglio.
«Ma che dici? Ricordi che abbiamo letteralmente fatto richiesta per lo stesso posto, vero?».
«Certo che sì! Ma rimarremo comunque separate per un bel pezzo!».
«Mmh... Be’, mi mancherete, ma starò bene, perché avrò Hitomiko-san».
«Chissà perché mi aspettavo questa risposta» intervenne Reina. Fumiko fece spallucce. Tipico di lei. Reina era felice che fosse tornata se stessa.
Lasciò le sue mani e si girò verso Maki.
«Ehi, ti ricordi di cosa mi hai promesso il primo giorno?» domandò. Maki la guardò, confusa, perciò Reina sorrise e tese le mani in avanti.
«Vorrei che mi mettessi lo smalto. Ti va ancora, Maki?».
Non serviva dire altro. Il viso di Maki s’illuminò con un’espressione di pura felicità.
«Accidenti, certo che sì! Aspetta che prendo tutto...!».
Maki aprì subito la propria borsa e si mise a rovistare al suo interno; portava sempre con sé i suoi colori preferiti, in modo da non restare mai senza. Una manciata di secondi dopo, poggiò sul tavolo una boccetta di blu zaffiro e si sedette accanto a Reina.
«Pronta?» chiese, eccitata. «Oh, ne varrà la pena, te lo prometto!».
«Oh no, guarda cosa hai fatto, ora non smetterà più di parlarne» disse Fumiko, ma il suo tono non era per nulla tagliente. Sorrideva e il suo sguardo era gentile.
Reina alzò lo sguardo verso la finestra. Al di là del vetro s’intravedeva uno spicchio di cielo azzurro, ritagliato tra i rami sottili e scuri degli alberi; e pure le pareti della stanza erano azzurre, e sembrava di essere circondate da solo cielo. Quel colore dava un senso di pace, ti faceva venire voglia di uscire e riempirti i polmoni di aria, e poi cantare, cantare ad alta voce.
Reina guardò Fumiko, poi mise la mano su quella di Maki.
«Correrò il rischio» disse.
Perché ora sapeva che il futuro prometteva molto, molto di più.
 


 
**Angolo dell'Autrice**
Buon pomeriggio! Come avete visto, ho deciso di trasformare questa oneshot in una raccolta di oneshot... be', sarebbe meglio dire che questo era il progetto originale. Ma quando scrissi binary stars, non ero sicura di riuscire a scriverne altre, quindi accantonai il progetto. Scrivo e riscrivo questa storia da novembre, ed era una storia che volevo raccontare da tempo, perché avevo in mente la storia di Reina fin dall'arc di Jordaan (secoli fa, lo so). E sono abbastanza orgogliosa del risultato finale.
In questi mesi sono stata impegnatissima e, anche ora che la situazione è quello che è, il mio tempo libero è agli sgoccioli e sono sempre molto stanca. Comunque ho in porto almeno un'altra oneshot, non so se la pubblicherò prima o dopo l'ultimo capitolo di Spy Eleven. Vi posso solo consigliare di seguire questa raccolta se vi interessa. Intanto vi mando un abbraccio fortissimo. Insieme, ne usciremo. 
Alla prossima!
                  Roby

P.s. Qualora siate curiosi, questa è Amefuri. È una canzoncina per bambini abbastanza nota in Giappone, nonché la mia preferita. Mi piace tantissimo la parte in cui vengono riprodotti i suoni dell'acqua. 
   
 
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