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Autore: Emmastory    05/04/2020    4 recensioni
Dopo essersi unita al suo Christopher nel sacro vincolo del matrimonio, Kaleia è felice. La cerimonia è stata per lei un vero sogno, e ancora incredula, è ancora in viaggio verso un nuovo bosco. Lascia indietro la vecchia vita, per uscire nuovamente dalla propria crisalide ed evolvere, abituandosi lentamente a quella nuova. Memore delle tempeste che ha affrontato, sa che le ci vorrà tempo, e mentre il suo legame con l'amato protettore complica le cose, forse una speranza è nascosta nell'accogliente Giardino di Eltaria. Se avrà fortuna, la pace l'accompagnerà ancora, ma in ogni caso, seguitela nell'avventura che la condurrà alla libertà.
(Seguito di: Luce e ombra: Essere o non essere)
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Luce e ombra'
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Luce-e-ombra-III-mod Capitolo L

L’amore anche negli astri

Era così passato un altro mese, e stranamente già sveglia e piena di energie, ero stata la prima ad alzarmi. Troppo stanchi per seguirmi, Christopher e Cosmo erano rimasti a letto, e se uno dormiva sdraiato su un fianco, l’altro restava nella sua cuccia. Addormentato, placido e tranquillo, fra le zampe solo tanti sogni e un giocattolo tutto suo. Resistente ma già rovinata dai suoi morsi, una semplice corda dai fili colorati annodata in più punti, che nei momenti di noia Christopher ed io ci divertivamo a rubargli per il solo gusto di vederlo ringhiare e partire all’attacco per riprendersela. “Ridatemela, è mia!” sembrava dire ogni volta, ringhiando a denti stretti e indietreggiando per convincerci a lasciarla. Scoppiando a ridere, lo lasciavamo vincere senza lottare, e felice, lui si allontanava con il suo bottino. Con lo scorrere del tempo, quel cucciolo cresceva proprio come il mio ventre ormai gonfio, che sentivo quando guidata dall’istinto materno, vi posavo sopra la mano. Silenziosa, stamattina non sento altro che il suono del silenzio, spezzato solo dalle sporadiche e ritmiche fusa della cara Willow, acciambellata sul divano di casa e senza alcun problema a turbare la sua mente di cacciatrice. Sorridendo debolmente, mi fermo a guardarla, ed è allora che capisco. Willow non è altro che un gatto. Per alcuni solo una semplice palla di pelo menefreghista e priva di sentimenti, ma per altri, come me, un’amica. Rimasta a Primedia assieme alla madre Zaria, ora Marisa non è con me, ma sono sicura che vedendomi mi capirebbe. Prima che l’adottassi salvandola dalle grinfie della donna, la cara Willow apparteneva proprio a lei, ed ero certa che capisse perfettamente cosa si provava nel lasciare che le si accoccolasse in braccio, fino ad arrampicarsi e fare le fusa sul suo petto, per poi addormentarsi e quasi spingerla a fare la stessa cosa, cullandola con quel placido suono a bassa frequenza, finchè poco prima di dormire non pensasse che alla sua fragile amica felina. Era capitato a lei, e negli ultimi tempi succedeva sempre più spesso anche a me. Ad essere sincera, non saprei dire con precisione cosa quel giorno mi avesse spinto a portarla a casa e scegliere di prendermene cura, e qualunque fosse la verità, non avevo più alcun interesse a scoprirla. Per quanto ne sapevo, non tutti avevano una tale fortuna, e il tempo mi aveva insegnato che la parte migliore di averla in casa non era vederla, ma in momenti come quello, sentire la sua quieta presenza, il suo miagolio dalle mille diverse sfumature, la sua inappropriata irruenza,  e in alcuni casi perfino l’invadenza che mostrava nel piantarmi gli artigli di una zampa nel braccio mentre ero impegnata in qualunque altra cosa, fosse questo leggere, rilassarmi assieme a Christopher, giocare con Cosmo o anche occuparmi delle faccende domestiche. In molti sono pronti a scommettere che gli animali non abbiano un’anima, ma solo perché non avendone mai avuto uno non hanno mai vissuto una tale esperienza. Colta dall’emozione, sento alcune lacrime rigarmi il volto, e so che a farmi piangere saranno sicuramente gli ormoni fuori posto, ma non appena le asciugo, non m’importa che dei miei piccoli. Li attendo da otto mesi, sorrido davanti alla consapevolezza di essere quasi arrivata al metaforico traguardo che mi permetterà di abbracciarli e stringerli a me per la prima volta, e intanto, sola e con quella di Willow e Cosmo come unica compagnia, anche in cucina ora che mi hanno seguita, aspetto. Attenta ai consigli di Christopher e Amelie, oggi mi concedo una semplice tazza di latte e cereali. I cari vecchi Fairy O’s, gli stessi che mangiavo da bambina. In totale onestà non ho mai capito il loro funzionamento, ovvero la ragione per cui cambiassero costantemente forma, ma l’unica cosa certa era che nei miei tempi di pixie, quelli nella mia scodella somigliassero sempre a foglioline, mentre quelli di Sky avevano l’aspetto di piccoli moti d’aria, stilizzati e impressi in quella che assaggiando, ogni volta scoprivo essere un misto di mais e avena. Tranquilla, riempii il primo cucchiaio, e solo dopo aver gustato a dovere quel boccone, mandai giù. Il sapore neutro e leggermente dolce stupì me e il mio palato, e continuando a mangiare, fui sicura di star facendo, fra tante, l’ennesima scelta migliore per i miei figli. In fondo, nonostante la dolcezza erano pieni di fibre, e il latte mi conferiva il calcio che assieme ad altri minerali, comprese le vitamine, a dir poco essenziali, integravo più volte al giorno tramite svariate tisane, tutte deliziose e con la firma del mio amato Christopher. Dolcissimo, metteva a frutto quella strana ma utile dote, e sorridendo, fra un sorso e l’altro non mancavo mai di ringraziarlo. Ad ogni modo, erano passati anni dall’ultima volta, ma quei cereali erano sempre buonissimi, proprio come li ricordavo. Fu questione di semplici istanti, e sveglio da poco, Cosmo mi si avvicinò, ed ergendosi sulle zampe posteriori, come ben ricordavo di avergli insegnato, iniziò a mendicare. Fingendo rabbia e fastidio realmente non provati, mi voltai per ignorarlo, ma sicura che il risultato delle sue azioni fosse una mia colpa, mista allo strano impulso che avevo avuto di coccolarlo e viziarlo sin da quando aveva posato per la prima volta le zampe sul mio tappeto, che ancora tenevo steso nel salotto dato il probabile freddo di un’ancora mite autunno prossimo a trasformarsi in inverno, ancora una volta non riesco a resistere, e abbassandomi al suo livello, lo accarezzai, affondando le dita nel pelo nero e dalle focature azzurre, che come spesso ripetevo parlando con Christopher, mi ricordava una vera e propria coperta di stelle. Mossa a compassione, gli regalai un sorriso, e attraversando la cucina, gli indicai la sua ciotola. “Credevi che mi fossi dimenticata, cucciolotto?” gli chiesi, scherzando mentre ridevo e sollevavo il sacco dei suoi croccantini. Data la mia condizione così avanzata, a dire il vero non dovrei, ma Christopher non era presente per aiutarmi, ma sapevo che pesava appena un chilo, così, ignorando quello sforzo, mi rimisi in piedi. Impaziente e affamato, Cosmo non aspettava altro, ma nonostante questo, si fermò a guardarmi. “Che dici, posso?” mugolò appena, sperando nella mia approvazione. Ad occhi estranei poteva apparire inusuale, e lo sapevo bene, ma faceva tutto parte dell’addestramento. “Buon appetito.” Gli risposi soltanto, con un pollice in alto in segno d’assenso. Felice, l’Arylu replicò con un latrato, e veloce come un fulmine, iniziò a mangiare. Poco dopo fu il turno di Willow, che più calma e posata, mi raggiunse dopo il suo pisolino sul divano, mi guardò per un attimo e poi si sedette davanti alla propria ciotola vuota, chiudendo gli occhi e leccandosi una zampa con fare totalmente disinteressato. “Versa pure, cara. Non ho molta fame oggi.” Pare proferire, con un solo miagolio che distratta da altro sento appena. Lenta, mi assicurai di riempire anche la sua ciotola, e poi, sciacquando la mia scodella dopo la colazione, mi accorsi di un dettaglio. Stando alla data sul calendario, ormai mancava poco al compleanno di Sky, nata proprio in autunno e benedetta perciò dai poteri del vento, ma per mia sfortuna, la lontananza mi impedisce di farle il regalo che vorrei. Mi dispiaceva, non potevo negarlo, e pur fissando quel numero, trovai conforto nella consapevolezza di poter rimediare. Di lì a poco, l’istinto materno riprese a parlarmi, e quasi dimentica dei miei due amici a quattro zampe, sorrisi sfiorandomi lo stomaco. I suoi nipotini non sarebbero venuti al mondo nello stesso giorno della sua nascita, ma qualcosa mi diceva che sarebbero comunque stati il regalo perfetto. Nuovamente felice, li sentii muoversi e scalciare leggermente, segno che almeno secondo il parere di Amelie, mia magica infermiera, e Carlos, assistente improvvisato, tutto stava andando per il meglio. Dati i trascorsi miei e di Christopher, compreso l’inaspettato arrivo degli spiriti pronti a invadere prima la mia mente e poi proprio il mio corpo nel tentativo di portarmeli via, stentavo a crederci, ma anche la mia terza e ultima ecografia mostrava il regolare andamento della gravidanza, i loro corpicini ormai totalmente formati e perfettamente posizionati al parto, ossia con le testine rivolte verso una luce che non vedevo l’ora di mostrare ad entrambi. Orgogliosa, sentii una speranza fiorirmi in petto, e minuti dopo, seduta sul divano a girare lentamente le pagine del libro di magia dei Powell, riflettevo. Leggevo e leggevo, ma nonostante i miei sforzi, non trovavo nulla sul miracolo che insieme io e lui ci avvicinavamo a compiere. Stranita, consultai l’indice, poi capii. Odiandoli con tutta me stessa, mi rifiutavo di credere a loro e alle loro parole, ma a quanto sembrava, avevano ragione. La legge magica sconsigliava il nostro amore, ma secondo le mie ricerche lo supportava, e per ciò che riguardava un’eventuale progenie, nata da due stirpi differenti, nulla. Sconsolata, richiusi il libro, e ancora una volta, ricordai le poche frasi impresse nella mia mente e nel mio cuore poco prima del matrimonio. Christopher mi amava, mi amava davvero, nel tempo il suo compito era sempre stato quello di proteggermi e aver cura del mio benessere, e innamorata come sempre, ero certa che non avesse mai fallito. Memore dell’inizio del nostro rapporto, avvertii una sorta di mistico e antico potere scorrermi nelle vene, e animata proprio da quella forza, provai lo strano impulso di guardare fuori dalla finestra. Incuriosito, Cosmo non tardò a seguirmi, ma poi, distratto dal perpetuo moto della sua stessa coda, inizia a rincorrerla, girando in tondo fino a perdere l’equilibrio e rovinare in  terra. Per fortuna il tappeto attutì la sua caduta, e come se nulla fosse stato, riprese quel gioco, divertendosi da solo. Divertita, ridacchiai nel sentirlo borbottare fra sé e sé, e protendendo una mano in avanti, lasciai che una scia color speranza si librasse nell’aria. Nulla di complesso, un incantesimo a dir poco basilare, che raggiunta la terra, i fiori e l’erba, avrebbe donato loro il vigore perduto nella stagione. Passarono le ore, e finalmente, anche Christopher decise di alzarsi. “Buongiorno, amore.” Mi salutò, venendomi incontro e stringendomi a sé, per poi tacere nell’attesa di una risposta. “Buongiorno a te.” Mi limitai a dirgli, tranquilla e innamorata. “Già mangiato?” mi chiese poi, attento e premuroso come solo lui sapeva essere. “Sì, grazie, e anche i piccoli.” Risposi appena, la voce bassa ma addolcita dai sentimenti. “Bene, ottimo. Ormai manca poco, e non vedo l’ora.” Commentò lui di rimando, orgoglioso. “Anch’io. Pensa, ti chiameranno papà.” Replicai, spostando l’attenzione su quel tenero dettaglio prima di perdermi nei suoi occhi. “E chiameranno te mamma, fatina mia.” Non mancò di dirmi lui, rivolgendomi un sorriso debole unito a un sussurro innamorato. Sospirando, non ebbi più parole, e completamente rapita da lui e dal suo sguardo, sempre magnetico e perfetto, lo baciai. Le nostre labbra si avvicinarono e unirono per attimi interi, allontanandosi delicatamente solo quando decidevamo di darci tregua, solitamente poco prima di riprendere da dove c’eravamo interrotti. Estasiata, abbandonai le mani nelle sue, scoprendomi così presa da non riuscire a pensare ad altro, fin quando, cogliendoci alla sprovvista, una luce non rischiò di accecarci. Agendo d’istinto, lo lasciai andare, e abbassando lo sguardo, mi calmai all’istante. Erano solo i bambini, o per meglio dire uno dei loro soliti calcetti, che più forte degli altri, aveva trovato sfogo anche in quel fascio chiaro e brillante. “Stai bene?” azzardò il mio amato, il tono serio e corrotto da una vena di preoccupazione. “Sì, non era niente, solo un movimento, nulla di…” provai a dire, sorpresa dal mio stesso respiro spezzato come i fuscelli che camminando ero solita calpestare. Allarmata, cercai di riprendere fiato, e fallendo, strinsi di nuovo la sua mano. Senza proferire parola, Christopher si limitò ad osservarmi, e proprio allora, una nube di tempesta gli scurì lo sguardo. Mi conosceva, mi amava, a volte riusciva perfino a leggermi l’anima, e sicuro di aver visto il dolore nei miei occhi almeno mille volte, decise. “Non è niente, puoi stare tranquilla, significa solo che hanno voglia di venire al mondo. Ti hanno spaventata?” mi spiegò, completando quel discorso con quella domanda. “Non molto.” Ammisi, con il corpo scosso da un tremito che fermai all’istante. “Bene, perfetto.” Si limitò a rispondermi, sorridendo appena. Fidandomi, gli rivolsi un sorriso, e teneramente ingelosito dalla nostra vicinanza, Cosmo mugolò in protesta. “Dovete proprio?” sembrò chiederci, coprendosi il muso con la zampa in preda all’imbarazzo. Il pelo nero macchiato d’azzurro m’impedì di notarlo a dovere, ma potei giurare di averlo visto arrossire. Divertita, ridacchiai, e ignorandolo, Chris ed io ci stringemmo di nuovo le mani. “Ti amo, tesoro.” Mi sussurrò sulle labbra, senza però baciarmi davvero. Abituata a quel modo di fare, non mi  sottrassi al suo affetto, e sempre accanto alla finestra, volsi lo sguardo al panorama appena fuori. Silenzioso e solitario, uno scoiattolo saltellava nell’erba, e aguzzando la vista, scoprii con leggero disappunto che non si trattava di Bucky. Ormai non lo vedevo da tempo, ma non ero preoccupata. Come me e Christopher, anche lui ora aveva una famiglia sua, e allietata ogni sera dal dolce sibilo del vento unito agli armoniosi versi di mille animali simili a lui, grandi o piccoli che fossero, mi addormentavo con il sorriso sulle labbra, tranquilla e rassicurata dalla consapevolezza che tutto sarebbe andato per il meglio. Lento, il mattino si trasformò in pomeriggio, poi in sera, e sfuggendo sia dalla nostra vista che dal calendario costantemente mosso dal vento, un altro mese ci scivolò via dalle dita. In breve, l’autunno divenne inverno, e ripensando a Sky, sospirai cupamente. Non sapevo se fosse più uscita di casa nonostante il malumore, ne se avesse davvero festeggiato il suo compleanno, ma fermandomi a pensare, compresi che probabilmente non ne aveva avuto alcuna voglia. Non osavo biasimarla, certo, in fondo chi avrebbe voluto distrarsi con una festa avendo in mente pensieri come i suoi? Come ne avrebbe gioito? Per quanto ne sapevo, Noah l’aveva cercata ancora, sempre stringendo in mano un mazzo di fiori, e lei, presa dallo sconforto e dal dolore che la sua sola vista le provocava, lei doveva aver rifiutato. Intristita da quei ricordi, quasi piansi, ma per tutta risposta, rividi quelle luci. Una azzurra e l’altra rosea, intermittenti e potevo dirlo, felici. Erano i miei bambini, non erano neanche nati, e già cercavano di consolarmi. “Ci siamo qui noi, mamma.” Provavano a dire, affidando alle loro piccole luci quello che ancora non potevano comunicare. Commossa, sentii il cuore perdere un battito, e rinfrancata dal loro supporto, finalmente mi calmai. Da allora in poi, fu questione di ore, e dopo un’altra colazione, le mie solite faccende e qualche pagina di un libro, quella mattinata cambiò radicalmente. Cogliendomi di sorpresa, una fitta di dolore mi sconvolse, e stringendo i denti per non gridare, guardai Christopher. Impegnato a leggere il giornale, si era accomodato lì accanto a me, e scossa da quella sensazione, mossi una mano per abbassarlo, togliendolo dalla sua vista. Notandomi, ignorò quel foglio stampato e il resto delle notizie che conteneva, e preoccupato, non esitò a prendermi la mano. Gli anni al mio fianco gli avevano insegnato a riconoscere ogni sfumatura del mio modo di essere e fare, e ciò valeva anche per i miei stati d’animo, che legati alla mia condizione, gli fecero mangiare la foglia. “Vieni, ti porto dalle ninfe.” Dichiarò in quel momento, deciso. Annuendo, non persi altro tempo, e seguendolo, ben presto gli fui accanto. Lenta, mi sforzai per non restare indietro, ma fatti pochi passi, altro dolore, e poi una stranissima sensazione. “Chris…” biascicai, intimorita. “Kia, tesoro, va tutto bene, hai capito? Tutto bene. Non preoccuparti, chiamerò Carlos e sarai al sicuro.” Mi rispose subito lui, serio come mai l’avevo visto. Annuendo, inspirai a fondo, e con uno sforzo che mi parve immane, chiusi gli occhi. Scivolando nel silenzio, mi concentrai fino a non vedere altro che due scie di diverso colore danzare nel buio che avevo intorno. Una scura ma forte e rassicurante, come la terra su cui camminavo, e l’altra, più chiara e leggera, simile all’acqua che spesso sentivo scorrere al lago poco distante dalla mia casa materna o al fiume nel Giardino di Eltaria. “Christopher!” insistetti, allarmandomi ancora non appena provai ancora quella strana sensazione, dolore misto a qualcosa di bagnato sulla pelle. Non sapendo cosa pensare, temetti per i bambini, ma per pura fortuna, o forse per opera di un fato benevolo, appena uscimmo di casa, eccoli. Insieme, e seguiti dalle loro bambine, Isla e Oberon. “Kaleia! Dolce Dea, è il momento!” quasi urlò la prima, sforzandosi però di restare calma per non spaventare le sue pixie. “Tranquilla. Sta tranquilla e lascia che ti aiuti.” Disse appena il secondo, stringendomi in un delicato abbraccio e osando nel sollevarmi da terra. Lasciandolo fare, non opposi resistenza, e abbassando lo sguardo, notai le mie due giovanissime amiche. Nervosa, Lucy restava in silenzio tentando di consolare la sorellina, che intanto tremava e sembrava sul punto di piangere. Sconvolta da un ennesima fitta di dolore, trattenni un lamento, e per tutta risposta, lei scoppiò in lacrime. “Kia, no…” la sentii mormorare, scioccata. Preoccupata ma razionale, Lucy le parlava per offrirle conforto, ma nonostante questo, Lune appariva inconsolabile. “Sta male. Sta male. Ho paura.” Continuava a ripetere, non riuscendo a capire cosa mi stesse accadendo. Provando pena per lei, tentai di sorridere, ma quando a quel tentativo sopraggiunse ancora una volta il dolore, strinsi i denti. Spaventata, iniziai inconsapevolmente a tremare, e chiudendo gli occhi, sperai per il meglio. Da allora in poi, ogni secondo ebbe valore, e solcando i cieli con l’aiuto dei miei amici, raggiunsi finalmente la grotta delle ninfe. Teso, Christopher fu il primo a farsi avanti, e con lui Oberon, che si affrettò a lasciarmi andare e a trovarmi un posto dove riposare. Non volevo dormire, ma quella sensazione si faceva pressante, e dovevo sdraiarmi. Seguendo ogni sua mossa, trovai rifugio nel mio solito giaciglio di erba e foglie, lo stesso che usavo per i miei controlli. “Amelie…” chiamai, frastornata. “Sono qui, Kaleia. Siamo tutte qui, ma ora non sforzarti. È tutto normale, stai solo avendo le tue prime contrazioni. Sta calma e respira, va bene? Fai come ti dico, sta calma e respira.” Veloce  e precisa, quella fu l’unica risposta che mi diede, in tutto simile a un comando che eseguii appena dopo un breve cenno della testa. In un attimo, i rumori che avevo intorno mi giunsero ovattati, ad eccezione della sua voce. Con gli occhi appena aperti, vidi chiaramente la sua sagoma affiancata da quelle di Aster e Carlos, e poco più in là, proprio al mio fianco, Christopher. In silenzio, non diceva nulla, ma stringendomi la mano, mi incoraggiava. Grata di quel gesto, sentii il respiro farsi più regolare, e in un istante, tutto parve tornare alla normalità. Isla aveva ragione, forse era davvero arrivato il momento di dare alla luce i miei bambini, e aguzzando la vista, scorsi vicino al lago dei cigni due lanterne vuote e prive di un vero colore. Confusa, non seppi cosa pensare, e troppo stanca per farlo a dovere, mi addormentai. Alcune ore passarono veloci, e quando mi risvegliai, ancora stranita ma più in forze di prima, udii il bubolare di un gufo, scoprendo così che era notte fonda. Nel silenzio, la voce di Christopher fu la prima a distrarmi. “Ti sei svegliata, dormigliona.” Scherza, prendendomi bonariamente in giro al solo scopo di farmi ridere. Contagiata dal suo umorismo, gli rivolsi un sorriso stanco, e voltandomi, rividi Cosmo e Willow seduti l’uno accanto all’altra. “E loro que hacen aquì?” tentò Carlos alla loro vista, mischiando senza volerlo la sua lingua e la nostra. “Ospiti, corazòn. Avranno seguito Kaleia fin qui, immagino.” Gli rispose Aster, parlando lentamente e ripagandolo con la stessa moneta. Per quanto ne sapevo, anche lei stava imparando lo spagnolo grazie a lui, e nonostante capissi appena, mi limitai ad annuire, sperando che perdonassero la mia ignoranza. Divertita da quello scambio di battute, mi lasciai sfuggire una risata, e volendo solo aiutarmi e tenermi compagnia, tutti i presenti tentarono di distrarmi dal dolore e dalla paura chiacchierando o raccontandomi di loro, come Lucy, che mi raccontava della scuola, Lune, che disegnava e poi mi mostrava i suoi capolavori sempre diversi, tutti ambientati nella grotta dove eravamo riuniti in attesa di quel lieto evento, Isla e Oberon, genitori delle piccole pronti a rassicurarmi ripetendomi costantemente che non avrei sentito nulla, o che se fosse accaduto non sarebbe stato certo grave, Aster felice delle futura generazione che presto avrei messo al mondo e grata di essere stata scelta assieme alle sorelle come mia personale guaritrice, lo stesso Carlos, elevato a quel rango nel momento del bisogno, Chris, che continuava a rassicurarmi e accarezzarmi con la sua solita delicatezza, e ultimi, ma non per importanza, Cosmo e Willow, entrambi con i loro occhi nei miei e due espressioni di pura calma dipinte sul muso. Fermandomi a pensare, guardai proprio quel cucciolo combinaguai, ricordando solo allora il gesto che annunciandomi alla comunità aveva compiuto per me. Nobile e simile ad un sacrificio, la ragione per cui i cieli di tutta Eltaria erano illuminati dalla luce di bianche lanterne oltre che da quella delle stelle. Stanca, espirai per calmarmi, e finalmente pronta, cercai e strinsi la mano di Christopher con forza ancora maggiore. “È il tuo momento, fatina.” Mi sussurrò all’orecchio, fiero di me. Annuendo, scelsi nuovamente di fidarmi, e quella notte, con mille fulgide compagne su in cielo, e interminabili ore di spossante travaglio, il miracolo che tanto aspettavamo. Prima dei due gemelli, la mia piccola Delia, venuta al mondo due minuti prima della mezzanotte, e che appena nata aveva l’aspetto di una sfera luminosa dello stesso colore del mio elemento. Con occhi pieni di meraviglia, l’avevo vista svolazzarmi intorno come una lucciola nel tentativo di starmi accanto, mentre sotto il consiglio di Amelie le permettevo di posarsi sulla mia mano, avendo però paura di chiuderla, con il timore di stringere troppo e farle del male, e poi, solo due minuti dopo, Darius. Suo fratello, anche lui una minuscola sfera luminosa, che si posò accanto alla sorellina, uguale a lui, almeno per il momento, in tutto e per tutto. Felicissima, non riuscii a non piangere, e sorpreso dalle sue stesse emozioni, anche Christopher finì per imitarmi. Dopo il lieto evento, nella grotta non si udì che il silenzio, finchè Amelie, silenziosa ma preparata, non si avvicinò a noi portando con sé le due lanterne che avevo notato ore prima. “Prego, ragazzi.” Disse soltanto, mentre ce le porgeva. Accettando quell’offerta, attesi che si spiegasse, e leggendo la confusione nei miei occhi, riprese subito la parola. “Come avrete capito, queste lanterne non sono certo ordinarie, e al contrario saranno la culla dei vostri figli per i due mesi a venire. Solo allora si trasformeranno, e la loro forma magica li abbandonerà. Da allora in poi avranno un aspetto umano, ma il loro elemento si paleserà a breve. Congratulazioni.” Quello fu il discorso di Amelie, che chiaro e semplice, ci apparve allo stesso tempo colmo di sentimento. Ridotti al silenzio, Christopher ed io ascoltammo senza interrompere, e quando finalmente finì, a turno l’abbracciammo. Volendo unirsi a quel momento, il nostro gruppo di amici si avvicinò, e lasciandoli fare, pensai e piansi, imparando in quella lunghissima notte una lezione che ben presto identificai come verità. Non sapevamo cosa sarebbe successo, se i nostri figli, una pixie e un folletto, sarebbero stati simili a noi o meno, ma non importava. Stremata, finii per addormentarmi circondata dal loro affetto, e volgendo prima di arrendermi un ultimo sguardo alla luna e al suo brillare, capii che se davvero si cercava, anche il quel lieto giorno d’inverno, l’amore poteva trovarsi ovunque, anche negli astri.




Di nuovo buonasera a tutti voi, miei lettori. Come avevo preannunciato, questo cinquantesimo capitolo chiude questa parte della saga dei nostri Chris e Kaleia, che finalmente vivono il momento per loro più importante, il frutto del loro amore, i loro bambini. Una fatina e un folletto, che rivedremo nel seguito della storia. Ringrazio come sempre ognuno di voi per il vostro supporto, sappiate che mi motiva moltissimo. Ci rivedremo presto, nel prosieguo di queste avventure,


Emmastory :)
   
 
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