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Autore: NamelessLiberty6Guns_    07/04/2020    1 recensioni
Aveva perso qualsiasi cosa avesse avuto importanza.
E si era ritrovato fra quattro mura asettiche a tremare di freddo e contemporaneamente a sudare come se avesse fatto una maratona.
A chiamare un nome a cui nessuno rispondeva.
A rivedere fotogrammi di passato per trovare dove di preciso tutto fosse crollato.
Eppure quell’esatto momento non riusciva a trovarlo, anche dopo notti insonni passate a ristudiare il ricordo di quella notte.
E alla fine aveva trovato una sola soluzione.
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Nuovo personaggio, Reita, Ruki
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Sì, ce l’ho fatta. Dopo SEI anni.
Toxicity è nata nel 2014, al mio primo anno di università, subito dopo ITSSP, dopo aver visto a spezzoni “Paradiso + Inferno”. La mia coinquilina lo stava guardando mentre io stavo studiando. E ho buttato giù la prima bozza. L’ho riscritta in mille salse. Non voleva nascere mentre mi cimentavo con molte altre storie. 
Nel 2017 l’ho abbandonata. Nel 2018 ci ho riprovato, abbandonandola immediatamente. 
Ma come un fantasma ha continuato a manifestarsi, voleva che la scrivessi e basta. E dopo aver ritrovato l’ispirazione scrivendo storie per un altro fandom, è finalmente nata. 
Non aspettatevi la perfezione, per quanto mi sia informata in ogni modo ci sono enormi inesattezze. Non posso pretendere di scrivere “Noi ragazzi dello zoo di Berlino” senza aver nemmeno fumato una canna in una vita.

Vi voglio infinitamente bene e mi siete mancate tutte. Spero la amiate esattamente come la sto amando io. 
Yukiko H.







 

T O X I C I T Y

"Most people who use drugs, drink or have chaotic lives, love more beautiful, love deeper and stronger.
At a different level.
So it makes you wonder… Is love really a vice
?”

-trovato nella sezione commenti della O.S.T. di ‘Paradiso+Inferno’
 

Aveva perso qualsiasi cosa avesse avuto importanza. 

E si era ritrovato fra quattro mura asettiche a tremare di freddo e contemporaneamente a sudare come se avesse fatto una maratona. 

A chiamare un nome a cui nessuno rispondeva. 

A rivedere fotogrammi di passato per trovare dove di preciso tutto fosse crollato. 

Eppure quell’esatto momento non riusciva a trovarlo, anche dopo notti insonni passate a ristudiare il ricordo di quella notte. 

E alla fine aveva trovato una sola soluzione.

Akira doveva essere morto. 

E quindi, rivedeva: il loro gruppetto abbandonato sul giardino del Sumidagawa, il buio illuminato dai falò di fortuna e vecchie torce abbandonate a terra. Protetti da alte siepi trascurate, circondati da altra gente come loro, alcuni appollaiati sulle altalene appese agli alberi che erano cresciuti pigramente sulle sponde del fiume Sumida, molto prima che tutti loro nascessero. In quel preciso momento, Akira non stava bene. Era più emaciato del solito, aveva cominciato a scivolare lentamente fra coscienza e incoscienza. E gli altri erano troppo fatti per accorgersene. Aveva abbastanza esperienza da riconoscere una overdose quando ne vedeva una. D’altronde qualche anno prima aveva salvato Yuu proprio dalla stessa sorte. E allora, ricacciando le lacrime in gola, aveva raccolto il suo ragazzo dall’erba morbida su cui si era infine accasciato e l’aveva trasportato in bagno, a fatica. Con delicatezza l’aveva disteso sul pavimento gelato. Ricordava così distintamente le mattonelle rosa pallido, le orme di fango di chi era passato prima, qualche ragno che camminava ai lati della sua visuale, occupata esclusivamente da Akira e la sua bocca semichiusa, il respiro quasi assente. Con la disperazione di una persona che sta per perdere quanto di più caro al mondo, aveva cominciato a prenderlo a schiaffi, a urlare il suo nome, a spruzzargli il viso di acqua gelida, recuperata di corsa dal lavandino alla loro destra, il rubinetto lasciato aperto in modo che l’acqua ne scorresse liberamente. Ma Akira non dava alcun segno di ripresa. E proprio allora, proprio nel momento in cui era scoppiato a piangere, erano attaccate le sirene. Alzò lo sguardo, colto di sorpresa, con il respiro affannato. Sul muro del bagno si proiettarono luci rosse e blu; danzavano nelle sue pupille, imprimendosi nel suo cervello. La realizzazione fu immediata. Il silenzio che veniva dal giardino non era mai stato così innaturale. E il panico gli invase il corpo, prendendo a schiaffeggiare Akira così forte da fargli prendere contraccolpi contro le piastrelle, chiamandolo con quanta forza le corde vocali potevano, e in mezzo alle prime urla e al rumore di passi impegnati in una fuga a rotta di collo, Akira aprì flebilmente gli occhi. Per un istante.

Lo stesso istante in cui la porta del bagno si aprì, e ne emerse Naoji, pallido come mai l’aveva visto. Pallido di paura. “Una retata. Dobbiamo scappare.” Fu tutto quello che disse, con voce ansimante, avvicinandosi a lui.

“NO! Akira…” cercò di dire, ma le braccia di Naoji lo strapparono via, e lui cercò di dimenarsi, scalciando, urlando ancora quel nome, aggrappandosi al quel giubbotto di pelle con quanta forza aveva, ma Naoji era più forte. Era sempre stato più forte. L’aveva praticamente preso in braccio e in un attimo erano fuori dal bagno, fuori dal vecchio locale e Naoji lo costrinse a correre, poggiandolo di malagrazia sull’asfalto della strada. E corse con gli altri, piangendo come un disperato, i poliziotti alle calcagna, riuscendo a disperdersi nel buio, a non venire catturati.

Akira rimase su quel pavimento. 

In vita o morto, non lo sapeva. 

E questo era ciò che di più lo tormentava. 

E mentre finalmente tutta la droga che aveva assunto veniva spurgata dal suo metro e sessantuno di vita complicata, intrisa di delusioni e abbandoni, aveva capito che Akira era morto sul pavimento freddo del bagno del Sumidagawa, completamente solo come lo era sempre stato. Come lo era stato prima che si conoscessero, prima che scoprissero che veramente soli a questo mondo non lo si è mai. Aveva solo pregato che negli ultimi istanti non avesse rivissuto tutto quello che gli era successo. La consapevolezza di aver perso l’unica persona al mondo a cui era legato dal filo rosso rese tutto ancor più difficile. 

Prendersela con quelle quattro mura non aveva molto senso. Pareti dipinte di un anonimo grigio, un letto senza spalliere dalle lenzuola candide, un minuscolo comodino senza nemmeno cassetto, e una finestra che dava su un ampio giardino giapponese curato nei minimi dettagli. Solo una tenda alla finestra che in teoria serviva per dormire, ma che lui chiudeva quando il sole cercava di scaldargli la pelle. Cercava il buio. Cercava Akira. Non a caso, di notte lasciava che l’oscurità venisse a cullarlo. 

Aveva provato svariate volte a farsi del male con le poche cose che erano ammesse nella sua stanza, fra queste le posate che usava per mangiare, talmente consunte da non riuscire nemmeno a tagliare il cibo. Aveva finito con il piangere qualsiasi lacrima, mentre nei suoi occhi il film di Akira scorreva continuamente, rivedendo il suo timido sorriso e il ciuffo di capelli inchiostro che gli cadeva sull’occhio, le eterne borse sotto gli occhi, la pelle così pallida. Aveva sempre temuto di scalfirla e rovinarla, anche durante i peggiori litigi, anche durante le notti più forsennate. 

Tutto questo non esisteva più.

Akira era morto sul pavimento freddo del Sumidagawa, la notte della retata.

 

***

 

Non era nato in una famiglia felice. 

Sua madre era una prostituta. O meglio, quello era diventato il suo lavoro da quando era stata diseredata dalla famiglia, appena sedicenne, quando si scoprì incinta della prima figlia. È la storia più vecchia del mondo: ci si affaccia al mondo dell’amore, ci si innamora irrimediabilmente del ragazzaccio che ci viene a prendere in moto a scuola, si prova persino una punta di soddisfazione agli sguardi invidiosi delle compagne di classe, si scappa con lui e tutti gli allarmi di cui si è circondati non si vedono. Non si riesce a vederli. Non li si vuole vedere. E una volta incinta, il disonore è troppo insopportabile. E non resta altro che imparare a vivere con i propri sbagli.

Era bellissima. Alta, lunghi capelli neri, un sorriso capace di fermare chiunque per strada e occhi luminosi, pieni di vita. La sua professione non le impediva di amare entrambi i figli con tutto l’amore di cui era capace. Grazie a lei, nel minuscolo monolocale dove abitavano non mancava mai nulla: c’era sempre acqua calda e cibo pronto, coperte per scaldarsi e passatempi gioiosi. Per i piccoli Akiko e Akira lei sognava il meglio: licei privati, università prestigiose, un futuro che non fosse come il suo. In fondo, con il suo lavoro, si poteva anche guadagnare ottime cifre, che lei si premuniva subito di mettere via in un luogo che pensava fosse segreto.

Ma suo padre spendeva tutto quel guadagno in alcol.

Un uomo che aveva perso il buon senso troppi anni prima. Un uomo dedito alla violenza, sulla moglie e sui figli. Amante degli alcolici in ogni loro forma. Trasandato, diradati capelli grigi a trentacinque anni, camice con ampie macchie giallognole sotto le ascelle. Non aveva mai un lavoro, e se lo aveva lo perdeva nell’arco della giornata. Era troppo piccolo per chiedersi come sua madre si fosse innamorata di lui. 

Akiko aveva preso tutto dalla mamma. Era un’anima meravigliosa, sempre sorridente, sempre pronta a chiudere gli occhi al fratellino quando in casa succedevano cose che lui non doveva vedere. Amava studiare, i fogli su cui provava e riprovava gli hiragana riempivano tavoli e muri, assieme ai suoi disegni. E lei e Akira erano assolutamente inseparabili. 

Una notte d’inverno tutto questo sparì per sempre

Come sempre scoppiò un litigio, ma questo era diverso. Questo era così furioso che costrinse una bambina di sette anni a far scappare il fratellino di cinque, non pensando a sé stessa, ma solo al suo bene. 

Lui conosceva bene la procedura. Si rifugiò dall’anziana vicina, l’unica che dava rifugio a i due fratelli Suzuki. Come sempre. Solo che lei stavolta chiamò la polizia, stanca del dover costantemente proteggere i figli dei dirimpettai, del sentire le loro urla inferocite, quel giorno completamente insopportabili.

Fu troppo tardi.

Perché quando Akira, sentendo il ritorno del silenzio in casa, si avventurò senza dire nulla oltre la porta lasciata socchiusa da Akiko, vi trovò una carneficina. Sua madre e sua sorella, le gole squarciate. Suo padre, stessa sorte. Auto-inferto, da bravo vigliacco qual era, e ancora rantolava a terra gli ultimi respiri. A tutto questo si aggiunsero le urla d’orrore della vicina, che era venuta ad affrontare i maledetti vicini.

Stavolta chiudere gli occhi al piccolo non era servito, perché il trauma che Akira subì in quell’istante gli portò via il sonno e la parola. La polizia non poté far altro che sigillare la scena del crimine e affidare il piccolo bambino sopravvissuto a chi di dovere. E lui visse per sempre nel terrore di crescere e diventare uguale a suo padre, di commettere violenze, di fare del male.

E più si giurava che così non sarebbe diventato, più sentiva dentro di sé l’ombra maligna del suo vissuto minacciarlo.

 

***

 

Era riuscito ad uscire da quelle quattro mura che sapevano di disinfettante. 

E aveva giurato a sé stesso e a coloro che erano riusciti ad aiutarlo che non ci sarebbe cascato mai più. Loro si erano raccomandati, gli avevano offerto di rimanere al sicuro in quel piccolo mondo protetto per non cadere di nuovo in tentazione, proponendogli di aiutare altri come lui, ma lui si era rifiutato. Doveva trovare Akira, doveva trovare la sua tomba, se ce ne fosse stata una. Doveva afflosciarsi davanti al marmo, un incenso che diffondeva leggiadro il suo fumo nell’aria. E piangere e invocare, chiedere perché; prendere a pugni la pietra fino a far sanguinare le nocche. Per sua fortuna, da tempo la sola idea di ritoccare una siringa gli faceva venire la nausea. 

Appena uscito gli garantirono un piccolo appartamento e un lavoretto per ricominciare a mettersi in piedi. Poi, appena acquistata una leggera sicurezza economica, se ne sarebbe andato, lasciando il posto a qualcun altro.

Cominciò quindi a lavorare in un Family Mart come commesso, e non si era mai sentito così vivo. Aveva scoperto che essere in salute era una sensazione senza pari, anche se a volte sentiva l’immensa mancanza di una dose nelle vene, a cui stoicamente resisteva. Aveva quindi cominciato a sostituire le pere con qualsiasi altra cosa, dall’esercitarsi in matematica al ricontare tutti i soldi che il supermercato aveva guadagnato nella giornata. E fortunatamente funzionava benissimo. Aveva anche adottato un passatempo che Akira gli aveva confessato di amare quando era piccolo: leggere. I soldi che poteva spendere in droga li spendeva in libri, concedendosi tante belle passeggiate nel quartiere di Jinbochō, pieno di minuscole librerie stipate di libri antichi e a volte fuori catalogo. Ne aveva guadagnato mille mondi fantastici, la riscoperta di kanji che aveva studiato da piccolo, altri che non aveva mai incontrato, il piacere di sapere. Infatti, in una delle sue tante uscite comprò persino un dizionario, segnando sulle pagine dei libri i furigana dei kanji dimenticati, ristudiandoseli con passione finché non poteva cancellare l’aiuto a matita. Acquistò anche una valigia che usava appositamente per mettere i libri, dato la transitorietà dei muri che chiamava casa. E una volta smontato, si metteva alla ricerca. Armato di santa pazienza, chiuso in un internet point di fiducia, su un quaderno scelto appositamente, si accumulavano uno dietro l’altro tutti i Suzuki Akira dei cimiteri di Tokyo, Yokohama e Kanagawa. Uno di loro doveva essere il suo Akira. E avrebbe controllato personalmente ogni pietra. Nello stesso periodo gli sovvenne che avrebbe volentieri visitato la tomba dei suoi genitori, di cui aveva riscoperto la mancanza dopo aver realizzato della morte di Akira. Decise che alla fine del suo percorso per cercarlo, avrebbe anche visitato coloro che ventun anni prima l’avevano messo al mondo. A suo tempo.

Un pomeriggio come qualsiasi altro, entrò nel suo Family Mart un volto conosciuto. Lo seguì con curiosità mentre lo vedeva destreggiarsi tra le poche corsie, analizzando qualche prodotto con attenzione. Sentì il cuore esplodergli in petto, riconoscendo oltre il colorito salutare e i muscoli evidenti uno dei più cari amici del Sumidagawa. I capelli castani erano sempre quelli, e le fossette che comparvero sulle guance mentre sorrideva quando trovò il prodotto che faceva al caso suo confermarono completamente i suoi sospetti.

E non potendosi trattenere abbandonò la cassa, compiendo i pochi passi che lo separavano da lui, gli occhi che man mano si riempivano di lacrime. E appoggiandogli una mano sulla spalla, lo vide girarsi, interdetto. E si riconobbero.

“Yutaka…” disse, le lacrime ormai libere sul volto.

“Takanori, Kami…

E si strinsero forte, scoppiando entrambi in un pianto infantile, il viso di uno contro la spalla dell’altro. Credendosi perduti per sempre.

“Credevo non vi avrei rivisto mai più.” singhiozzò Yutaka. “Nessuno di voi.”

“Nemmeno io… Ma ti prego, dimmi come stai. Che ne è stato di te quella sera?” Ponendo quelle domande aveva sciolto l’abbraccio, asciugandosi le lacrime.

“Sono stato in prigione. Mi hanno braccato praticamente subito. Per fortuna non ci sono stato molto, non avevo nulla su di me che potesse tenermi incarcerato. Mi hanno spedito in riabilitazione obbligatoria e mentre ero lì ho deciso che volevo ricominciare. E… Eccomi qua.” lo disse con un sorriso.

“E ora che fai?”
“Oh, ho trovato un lavoretto in una fabbrica di sedie. Poi, per resistere alla tentazione, mi sono iscritto in palestra.”
“Ah, ecco perché ti trovo così in forma!” scherzò Takanori tirandogli un buffetto sul braccio muscoloso.

Yutaka rise, arrossendo. “Sì, esatto. E poi, ho conosciuto una ragazza lì…"
“Davvero?”
“Sì. Mi piace davvero molto. Spero di riuscire a conquistarla.”

“Ce la farai. Hai molto più fascino ora.”

Yutaka fece un’altra risatina. “Sei troppo gentile, Takanori. E tu, invece?”

Gli raccontò tutta la sua storia, felice che nessun cliente era ancora entrato a disturbare la loro conversazione.

Doveva aspettarselo, ma Yutaka gli chiese di Akira.

Rabbrividì appena, decidendo di rimanere sul vago. “Non lo so con precisione… Sai, eravamo separati quando…” ma la voce gli morì in gola.

Yutaka sospirò a fondo. “Speravo che almeno voi fosse rimasti uniti. Mi dispiace molto, sai?”
“Non fa niente”, gracchiò, ma sapeva che le lacrime agli occhi lo stavano tradendo.

L’entrata di un cliente rovinò il loro incontro, dandogli però la possibilità di ricomporsi. 

“Rimaniamo in contatto, ti prego. Sono così felice di averti ritrovato!”

Si scambiarono i numeri di telefono, prima di salutarsi. 

Almeno un piccolo frammento del puzzle era tornato al suo posto. 

 

***

 

Venne rimbalzato di parente in parente, di casa-famiglia in casa-famiglia. Con enorme sforzo, gli psicologi riuscirono a ritornargli la parola, lasciandolo però con una pesante balbuzie e la seria difficoltà a concludere una frase anche breve in poco tempo. Ovviamente per questo era il bersaglio preferito dei suoi compagni.

Purtroppo gli psicologi non riuscirono a restituirgli il sonno. Ogni notte era costellata di incubi: le gole squarciate, l’odore del sangue, i capelli di Akiko intrisi di cremisi, l’espressione di puro terrore su quel viso così innocente, il rantolo che usciva dalla gola del mostro che chiamava padre. Gli veniva per questo sempre assegnata una stanza in cui poteva essere solo, date le numerose lamentele di chi era costretto a svegliarsi ogni notte per colpa sua. Imparò con calma a governare le reazioni a quegli incubi, arrivando addirittura ad abituarsi al loro continuo ritornare, ma non certamente a cosa mostravano. Trovò rifugio nella lettura appena imparò a leggere hiragana e katakana, non essendo in grado di stringere amicizie. I passatempi all’aperto dei suoi compagni per la verità non lo attiravano, non corrispondendo alla sua natura riservata; preferiva immergersi in mondi che non fossero il suo. 

Affrontò i primissimi kanji da solo, imparando per prima cosa a scrivere il suo. Il radicale del sole si appoggiava a quello della luce, un augurio di sua madre per una vita diversa, una vita che non avrebbe mai vissuto. Una vita già oscurata dal buio di suo padre. Eppure in fondo sperava che non fosse troppo tardi perché quell’augurio si realizzasse

Girò il Giappone, vittima della giostra eterna dei servizi sociali giapponesi. Il suo ramo della famiglia Suzuki viaggiava in lungo e in largo, e vide quasi tutti i posti più famosi, fino ad approdare da una vecchia sorella ottuagenaria di sua nonna paterna, una donnina meravigliosa che prese Akira sotto la sua ala, non lasciandolo mai del tutto solo e pronta a soccorrerlo quando gli incubi lo svegliavano. Si affezionarono l’un l’altra immediatamente, trovandosi stranamente così simili. Venne inserito alle medie lo stesso anno, potendo finalmente studiare in una scuola pubblica come ogni ragazzino della sua età. Venne ovviamente preso di mira per il suo passatempo così poco convenzionale per un tredicenne giapponese, cosa che lo convinse ancora di più a chiudersi in sé stesso. Ma a casa c’era la sua nonnina a consolarlo, premiandolo con la semplicità dei suoi piatti preferiti e di abbracci, di cui lui non era mai abbastanza sazio.

Solo Kouyou s’incuriosì di quel ragazzo così diverso. E mentre Akira se ne stava nascosto in un angolo dell’enorme giardino immerso nell’ennesimo libro, con cautela Kouyou lo avvicinava, facendogli sputare le prime parole spezzate. E man mano divennero amici. 

Nonostante fossero in sezioni diverse, insieme facevano i compiti nel piccolo salotto della nonnina di Akira mentre lei riforniva entrambi costantemente di biscotti e ocha

Kouyou era di famiglia benestante. Suo padre insegnava in un’importante università completamente maschile, e infatti le donne di casa, sua madre e le due sorelle maggiori, non avevano avuto il permesso di studiare o di cercarsi lavoro: per il luminare patriarca di casa l’unico dovere delle donne era in casa, un passo indietro al marito e ai figli maschi. Kouyou lo odiava. “Prima o poi troverò il modo di ribellarmi al destino che mio padre ha già disegnato per me.” Aveva detto ad Akira, con il volto scurito dalla rabbia. Infatti, per lui era previsto lo stesso esatto corso di studi e occupazione, oltre che lo stesso trattamento da riservare alle donne, a cui lui cercava di ribellarsi in ogni maniera. Per la verità aveva già cominciato, anche se con poco: il motivo per cui era in una scuola pubblica e non nell’esclusiva scuola media privata a cui il padre l’aveva iscritto era per i suoi voti spaventosamente bassi e il comportamento tutt’altro che adatto ad una scuola così rispettabile. 

Akira riuscì a concludere l’anno poco prima che la nonnina venisse portata via da un infarto, nel pieno della notte. Così com’era entrata silenziosamente nella sua vita, altrettanto in punta di piedi se n’era andata. E per la seconda volta era stato lui a scoprire la tragicità della morte, preoccupatosi per l’assenza dell’adorata figura in cucina, quel mattino. Quando aprì la porta scorrevole che portava alla sua camera, la trovò a letto. Sembrava dormisse.

Da lì cominciò a nascere in lui la convinzione che forse per lui la felicità sarebbe sempre e soltanto stata un’illusione. La sua vita era cominciata male, era impossibile si aggiustasse con il passare del tempo. E la perdita della nonnina era, se possibile, uno dei colpi più pesanti infertogli. Prima che potesse essere preso di nuovo dai servizi sociali, Akira e Kouyou si salutarono al suo funerale, con la promessa di rivedersi, in qualunque modo. Prima o poi. Si abbracciarono forte, piangendo amaramente, impauriti dal futuro che gli attendeva. 

E quella fu l’estate che cambiò tutto. 

Nella casa-famiglia in cui Akira si ritrovò scoprì molte cose. La droga, per prima cosa. E il gruppo di amici scapestrati che l’avevano inghiottito quasi contro la sua volontà, con cui cominciò a fuggire la notte fuori dalle mura sicure dove abitavano per percorrere strade proibite e acquistare con soldi rubati quelle ore di svago dalla loro vita e dai loro traumi. Ma la consapevolezza peggiore fu quella che fece rinchiudere Akira in un secondo silenzio, e che appena compiuti quindici anni lo fece fuggire via, facendo perdere le sue tracce. La vergogna di non trovare nulla di attraente in tutte le ragazze che invece gli facevano la corte, o in quelle che popolavano i giornalini che i suoi compagni si scambiavano la sera fra i letti.

L’omosessualità.

 

***

 

Yutaka gli propose di venire a vivere con lui, ora che era stabile ed era stato assunto permanentemente al Family Mart. Poi, con i soldi guadagnati di lì in poi, avrebbero aperto una piccola attività insieme. Era sinceramente entusiasta dell’idea, e anzi non vedeva l’ora di cominciare; il Family Mart cominciava a stargli stretto. Quindi si trasferì nel piccolo appartamento di Yutaka, occupando una stanza che avrebbe altrimenti funzionato come lavanderia. La prima cosa che fece ora che era sistemato fu comprare una piccola libreria per sistemare tutti i libri collezionati. Gli facevano pensare ad Akira, glielo facevano mancare come l’aria. Per la verità, non aveva ammesso ancora nulla a Yutaka. Forse perché aveva paura di ammetterlo fino in fondo persino a sé stesso. In quella stanza il fantasma di Akira ricominciò a torturarlo, costringendolo a rivedere quei film ormai sbiaditi e non più così dettagliati, in un eterno tentativo di trovare l’esatto momento in cui tutto era crollato. Avrebbe ucciso per riaverlo con sé, per riacquistare ogni minimo particolare perduto. Ad esempio, non ricordava più esattamente il timbro della sua esitante voce, la pressione delle sue mani sulla schiena, l’esatto colore delle sue iridi. 

Il tempo cominciava a fare il suo schifoso lavoro.

Un pomeriggio, camminando per Meguro con Yutaka, dei dango a testa per festeggiare l’arrivo della primavera, incapparono in un negozio vuoto dalla grande vetrata che dava sulla strada, gli interni immacolati seppur polverosi, e un grande cartello affisso ai vetri che diceva: “In affitto”. 

Entrambi ci videro la stessa cosa. La piccola attività che volevano aprire insieme. 

Discussero per tutto il resto della camminata, anche quando presero la metropolitana per tornare indietro: cosa esattamente volevano fare dentro quel bellissimo negozio fatto proprio per loro? Non era chiaro, ma le idee c’erano e anche i piani per pagare i primi affitti.

Una sera Yutaka ritornò a casa con un sorriso che non finiva più. Ammise con gioia che la ragazza della palestra, Hoshiko, aveva finalmente accettato di uscire per un appuntamento. Festeggiarono con la prima birra da quando erano usciti dalla riabilitazione e si trovarono a ridere come pazzi sulle sedie della cucina, decisamente non più in grado di assimilare alcol come un tempo.

Nel frattempo però erano arrivati due anni dalla retata

Due anni da quando Akira era morto sul pavimento freddo del bagno del Sumidagawa, la notte della retata. Quel giorno non si sentiva sé stesso. Un dolore e un’apatia che non gli erano familiari lo tennero avviluppato tutto il giorno, anche a lavoro. 

E quando tornò a casa, Yutaka non poté fare a meno di notarlo. 

Dopo aver cenato frugalmente, gli fece una proposta: “Ti va di sederci fuori, in terrazzino? Mi piacerebbe godere una bella bibita ghiacciata con te.”

“Oh, mi va molto.” disse, sorridendo appena. Forse distogliersi dal motivo per cui stava male gli avrebbe fatto bene.

Recuperarono due Calpis dal frigorifero andando poi ad accomodarsi su due sedie già predisposte in terrazza. Fecero un breve brindisi facendo scontrare le bottiglie di plastica l’un l’altra, aprendole e bevendo un primo sorso.

“Stai bene, Takanori?” gli chiese.

Lui annuì, a fatica. Immaginava che il suo malstare non era passato inosservato. “Qualche ricordo di troppo.”
“È perché sono due anni dalla retata?”

Annuì di nuovo. Non immaginava che Yutaka potesse conoscerlo davvero così bene.

“Lo sai… Se hai bisogno di sfogarti o di parlare, sono sempre qui. Sicuramente non sono bravo come Yukkun, ma ci posso provare.”

“Grazie, Yuta-kun. Ma non c’è molto da dire. Non voglio che tu creda che non ti voglio parlare.”

“No, assolutamente. Non voglio costringerti. Dico solo che mi dispiace vederti così triste. Da quando sei venuto qui mi sembri molto più sereno, quindi mi sono preoccupato.”
Tirò un profondo respiro. Decise che non aveva senso tenere nascosto il suo cuore a Yutaka, dopo che gli aveva dato una casa, un probabile lavoro e ovviamente la sua amicizia. “Sì, hai ragione. Per me questo giorno è più scuro degli altri, sai. Forse perché ti ho detto una piccola bugia.”

“Quale?”
“Bè, non è vero che non so che fine ha fatto Akira, sai.”

Yutaka lo guardò interdetto.

“Credo sia morto. Era in overdose quella notte. Ho cercato di salvarlo, ma temo di non esserci riuscito.” la sua voce si incrinò.

“Oh, Kami… Io…”
“Akira è morto sul pavimento freddo del bagno del Sumidagawa, Yuta-kun.” ripetè, lasciando stavolta che le lacrime gli rigassero il viso. “Per colpa mia.

“No. Questo no, Taka-kun.” Gli disse Yutaka, guardandolo con lo sguardo più serio che aveva. “Lo sai bene come lo so io che salvare qualcuno da un’overdose è sempre una scommessa. Semmai tocca dare la colpa al povero Aki-kun. Ma no, non è colpa tua. Non avresti mai potuto fare una cosa simile a lui. E lo sai.”

Soffocò un singhiozzo, asciugando le lacrime goffamente con il dorso della mano. 

“Posso solo dirti che non hai idea di quanto mi dispiaccia.”

“È che… È che la retata e la sua morte sono successe nel momento in cui probabilmente noi stavamo meglio… Sai?”

Yutaka rimase in ascolto, poggiandogli una mano sulla spalla per confortarlo.

“Solo due settimane prima avevamo deciso di disintossicarci.” disse, con voce spezzata. “Aki voleva smetterla. Diceva che non aveva più bisogno di lei ora che c’ero io.”

Yutaka non ci poteva credere. “Davvero?”
Annuì. “La decisione ci faceva paura, ma… Sì, lo volevamo fare davvero. E quella promessa è andata distrutta. In una notte sola.” e così dicendo scoppiò a piangere, portando le gambe al petto e nascondendovi il viso. Era la prima volta che raccontava quella promessa a qualcuno.

Yutaka gli circondò le spalle con un braccio. “Mi dispiace, Takanori.” Se lo strinse addosso, lasciando che si calmasse appena.

Dopo qualche minuto, sembrò riprendersi. “Mi dispiace se non te ne ho parlato prima.” mormorò.

“Scherzi? Non oso immaginare quanto male tu stia. Lo so che lo sai, e… Kami, spero di non farti soffrire ulteriormente con quello che sto per dirti. Ma voi eravate la nostra luce. La luce del Sumidagawa. Kou-kun vi chiamava così. Te lo ricordi?”

Annuì, non riuscendo a trattenere una minuscola risatina.
“Eravate la cosa più pura e vera che c’era in quel posto dimenticato dalla società. Ci avevate fatto credere che c’era una speranza. Che c’era una luce fuori dal tunnel in cui tutti noi c’eravamo infilati. I Kami solo sanno quante volte mi avete fatto riflettere su quello che mi stavo facendo.”

Si guardarono. “Lo diceva sempre anche Kou-kun.”

“Perché era la verità.”

 

***

 

Trovò lavoro in una fonderia. Aveva sentito dire che era un posto decisamente losco ma gestito da un uomo rispettabile sotto molti punti di vista.

L’omone burbero seduto alla scrivania di un enorme ufficio polveroso era molto poco certo di assumere quel ragazzetto magrolino dall’aria emaciata, ma decise di dargli una possibilità. Gli permise persino di dormire su un vecchio materasso nello spogliatoio, dato che non aveva di dove stare, a patto che si trovasse al più presto un posto suo, non si facesse vedere da quelli del turno di notte e che non muovesse un fiato con nessuno. “Io per primo non voglio la polizia, qui dentro.” disse. Ne capì anche il perché: la fonderia fungeva da casa a molti come lui che non avevano un posto dove stare. 

A sorpresa di tutti, il lavoro non lo spossava affatto. E nemmeno la sua dipendenza dalle droghe. Certo, era costretto a nascondere le sue preziose sostanze nell’armadietto dello spogliatoio, per non destare eccessivi sospetti negli altri ospiti della fonderia. Anche se aveva sicuramente la certezza che almeno uno degli altri abusasse delle sue stesse materie.

Eppure, riusciva a presentarsi in orario e più o meno in sé per il lavoro, considerata anche la sirena spacca timpani che avrebbe potuto risvegliare persino un paziente in coma da anni. Ricevette anche un paio di promozioni e aumenti, tanto che, con non troppo sforzo, riuscì finalmente a permettersi l’affitto di un monolocale così piccolo da non poter allargare del tutto le braccia senza andare a scontrarsi con i muri. Però era il suo piccolo regno, dove finalmente aveva di nuovo una privacy. Pagare le bollette era un’altra storia, ma manteneva le apparenze riuscendo a pagare ogni mese l’affitto, così da non venire sfrattato. Non aveva alcuna intenzione di ritornare a dormire in fonderia, o sotto un ponte come gli era capitato nel lungo tragitto dalla casa-famiglia a Tokyo.

Aveva anche imparato quali droghe assumere prima di andare al lavoro che più o meno lo rendevano capace di intendere e volere. E tutto considerato, non facevano più nemmeno lo stesso effetto di un tempo, e doveva prenderle sempre più spesso. Anche sul lavoro. Come diavolo non fosse mai stato scoperto rimase un mistero inspiegabile per primo a sé stesso. 

Per il resto frequentava come un lupo solitario i bassifondi di Tokyo, ancora troppo timido e balbuziente per permettersi uscite più rischiose, troppo diverso dal resto a partire dalla sua scheletrica apparenza. Compiuti diciotto anni, cominciò con i locali gay di dubbio gusto. Grazie ad un collega, si era procurato una carta d’identità falsa dove dichiarava di avere due anni in più. In effetti, nonostante il suo pallore mortale, dimostrava di essere più grande della sua età reale anche grazie al duro lavoro in fonderia. Ma anche in quei locali immancabilmente si faceva notare per le sue diversità fisiche e caratteriali. Se ne stava sempre in un tavolino all’angolo, traboccante di boccali di birra e una siringa sempre in tasca per il momento del bisogno.

Fu in uno di quei bar che conobbe Mark, un ragazzo di origini giapponesi e americane che anche lui sembrava stonare con il resto. In effetti erano molto più simili di quanto sembrasse. 

Fu la sua prima storia d’amore.

Quella che gli insegnò che nonostante balbettasse e fosse così timido da non riuscire a guardarlo negli occhi, poteva essere amato. E che sapeva amare. Cazzo se sapeva amare. Forse troppo. D’altronde, se si stringe con troppa forza una farfalla per cercare di proteggerla, questa soffoca e muore. E anche a loro accadde la stessa cosa, dopo una storia di sei mesi fatta di tanti litigi, tanto amore, tanta droga. Come prevedibile, la fine della loro storia lasciò Akira ancor più vulnerabile, ancor più insicuro e spaventato. Sparì anche da quegli angoli di mondo, cercandone altri dove avrebbe potuto trovare un briciolo di serenità.

 

***

 

La trafila burocratica non era stata delle più semplici, ma alla fine ce l’avevano fatta, entrambi con un sostanziale debito ma non meno felici. La loro piccola lavanderia a secco era finalmente diventata una realtà. Avevano scelto un nome classico, optando per i loro cognomi, che brillavano in tutta la grazia dello shodō sull’enorme vetrata da cui si poteva vedere il nitido interno. Appena entrati si poteva trovare Takanori, seduto dietro al bancone; Yutaka invece si nascondeva in una bella stanza separata da una porta, dove erano custodite le lavatrici e le asciugatrici. Il resto del negozio era composto da un enorme appendiabiti scorrevole che, da pieno, faceva un figurone. Non fu facile farsi conoscere, considerando che i due per i primi tempi furono costretti a lavare i loro vestiti in negozio pur di dare l’impressione che il lavasecco fosse effettivamente frequentato da qualcuno, finché finalmente le prime curiose nonnine del quartiere cominciarono a portare i loro capi, ritrovandosi molto soddisfatte. Il gioco del passaparola funzionò in maniera egregia, e man mano i soldi guadagnati permettevano loro di mangiare e ripagare i debiti.

Rassicurato dalla prospettiva di una sicurezza economica sempre più sicura, Yutaka chiese ad Hoshiko di sposarla. Lei accettò, al settimo cielo. Per loro cominciò la lunga trafila dell’organizzazione di un matrimonio intimo ma speciale, oltre che a conoscere i genitori di lei.

Yutaka dal canto suo aveva troncato i rapporti con i suoi genitori poco dopo la retata. Spesso infatti si ritrovava a riflettere come quell’avvenimento avesse cambiato radicalmente la sua vita.

Nei pochi weekend liberi cercava Akira. Cimitero dopo cimitero, tomba dopo tomba, man mano cresceva in lui la certezza che nessuno di loro era colui che stava cercando. Il dubbio che non l’avesse nemmeno un posto dove riposare cominciò a stuzzicargli la mente e di conseguenza a rovinargli il sonno. E Alla soglia dei ventiquattro anni si chiese se non fosse il momento di mettere tutto alle spalle e di lasciar riposare Akira in pace.

In fondo, per quanto questo pensiero lo ferisse e gli risultasse insopportabile, non sarebbe mai tornato. Avrebbe per sempre rivisto quei fotogrammi alla ricerca dell’esatto momento in cui tutto era crollato. E avrebbe scrutato il cielo nelle notti insonni, come nei film, alla ricerca di un segno che per lo meno lo rassicurasse che Akira stava bene, dovunque fosse. E seppur avesse vissuto gli otto mesi e diciassette giorni più belli della sua vita, Akira era morto.

Non poteva farci niente. E questa era la realizzazione più difficile da fare. Anche piangere non avrebbe aiutato il suo caso. Avrebbe tenuto quei mesi insieme in un angolo prezioso del suo cuore, dove nessuno avrebbe potuto portarglieli via. Un angolo dove Akira era ancora vivo.

Dove era la creatura più bella che fosse mai esistita, anche se i particolari erano sempre più sbiaditi. Un piccolo luogo meraviglioso dove tornare quando aveva bisogno di conforto. 

Ma doveva ricominciare, doveva rinunciare alla sua clausura monacale per trovare dei nuovi amici, dei nuovi passatempi, dei nuovi amori. Stando ben attento a non cadere vittima del canto delle sirene. Insomma, se ce l’aveva fatta Yutaka, ce la poteva fare anche lui. Avrebbe ritrovato della tanta agognata serenità. E, pensandoci, sapeva che anche Akira avrebbe voluto per lui il meglio, non certo che continuasse a piangerlo e dannarsi per una cosa di cui, e gli ci volle veramente tanto per convincersi, non aveva colpa. 

E per questo, dopo l’ennesima tomba di un estraneo omonimo di Akira, decise che ne aveva avuto abbastanza. Il seguente sabato sarebbe andato a trovare i genitori per la prima volta da quando aveva tredici anni. E avrebbe promesso di lasciare andare Akira per sempre.

 

***

 

L’ironia volle che incontrò di nuovo Kouyou nei bassifondi che aveva cominciato a frequentare dopo il fallimento della storia con Mark. Ci era pure rimasto male che alla fine tutti e due si fossero ritrovati a drogarsi dietro un bar gestito dalla Yakuza, ma questo era stato il triste destino per entrambi. Eppure si riabbracciarono come se il tempo non fosse mai passato. Lasciarono che la serata e la botta passasse loro addosso aggiornandosi delle rispettive vite. Come aveva immaginato, Kouyou era finito lì per la sua eterna ribellione nei confronti del padre. 

“Non riesco ad immaginare nulla di più oltraggioso e spudorato del drogarmi e del diventare un host di un locale così insulso che non ci entrano nemmeno i tizi della Yakuza che lo gestiscono.” disse ridendo. 

Akira non aveva fatto a meno di notare in effetti quanto più bello era diventato: i capelli tinti di un pallido castano chiaro, vestiva con un’eleganza che non corrispondeva affatto al genere di persone che loro erano. La fine dell’adolescenza gli aveva regalato un’aggraziarsi dei suoi tratti che lo rendevano androgino quanto basta per assicurare il suo successo. Chiese quindi se non avesse paura di una loro ritorsione se mai avesse deciso di cambiare lavoro, sinceramente preoccupato.

Kouyou fece spallucce. “Non ho la minima intenzione di cambiare lavoro. Guadagno bene grazie ai disperati che frequentano l’host club e al sicuro giro di vite che c’è dietro. Mi basta questo. E poi, faccio così schifo che non mi fanno lavorare il sabato.”

Akira non disse niente. In fondo, se erano lì, il futuro non era minimamente di interesse a nessuno dei due. Raccontando la sua di storia, incalzato da un curiosissimo Kouyou, si accorse di quanto non avesse davvero nulla da raccontare. La storia con Mark ormai era un passato quasi antico, e aveva lasciato in lui solo una profonda cicatrice rimarginata ma dolente. Si chiese se fosse sempre stato così noioso. 

Quella stessa sera Kouyou parlò per la prima volta ad Akira del Sumidagawa, permettendo al destino di fare il suo corso come evidentemente era già scritto da qualche parte.

“Era un bar di discreto successo,” spiegò Kouyou, ravvivandosi i capelli, "si trova in una zona lontanissima di Tokyo. Proprio sul fiume Sumida, per questo si chiama così. Chissà da quanti anni è chiuso, però il nipote del proprietario, uno di noi, l’ha ripreso a insaputa della famiglia e ne ha fatto un luogo d’incontro molto carino, mi dicono. Me ne ha parlato un tizio che viene a fare le pulizie all’host club, lui ci va praticamente ogni sera. Sabato prossimo ci andrò per la prima volta. Ti va di fare un salto?”
La prospettiva di abbandonare i soliti bassifondi per un luogo nuovo dove trascorrere del tempo con Kouyou lo allettava parecchio, quindi accettò. Non sapendo minimamente a cosa sarebbe andato incontro, a cosa sarebbe successo di lì ad un anno. E controllando il consunto orologio da polso a cui aveva dovuto praticare dei fori di fortuna per poterlo ancora indossare, si dovette congedare barcollando per non rischiare di arrivare in ritardo al turno di lavoro. 

 

***

 

Il sole splendeva alto. Chiuse gli occhi, volgendo lo sguardo al sole e godendo del calore attirato dai suoi abiti neri. Inspirò a fondo, allargando le braccia, godendo di quel sentirsi vivo a cui ancora faceva fatica ad abituarsi. Stava per arrivare l’autunno, lo si sentiva dal vento freddo che cercava di smorzare l’ultimo calore estivo. Il tempio della sua città natale era rimasto esattamente come l’aveva lasciato nei suoi ricordi. Camminò fra le file di tombe in silenzio, cercando i kanji del suo cognome con un po’ d’ansia, sentendosi in colpa per aver trascurato i genitori che l’avevano amato così tanto quando erano in vita. Quando la trovò, la tomba era coperta di foglie secche dall’autunno precedente. Evidentemente nessuno si ricordava più di loro, nemmeno qualche nonnina particolarmente religiosa. Vergognandosi come mai aveva fatto nella vita, le tolse via una ad una. Le lacrime gli offuscarono la vista, lacrime di vergogna, mentre accese un bastoncino di incenso appoggiandolo nel piccolo vano scavato nel marmo. Chiese loro scusa per non essere mai venuto in undici anni, rimanendo poi per qualche minuto a richiamare i ricordi. 

Il sorriso di sua madre. Il naso particolare del padre. Elementi che per fortuna aveva ereditato, portandoli con sé e presentandoli al mondo. Da quando era uscito da quelle quattro mura asettiche, aveva più volte riflettuto sul fatto che aveva fatto del male anche a quella parte dei suoi genitori che viveva in lui, drogandosi. Aveva trascurato la loro tomba e la loro memoria perché troppo impegnato a pensare solo a sé stesso, a inseguire una felicità effimera che da un momento all’altro avrebbe potuto ucciderlo senza un minimo ripensamento. Con un sospiro si disse che era un altro allora, e anche se l’avesse voluto non avrebbe mai potuto cambiare il suo passato. E che senza la droga non avrebbe mai incontrato Akira.

Akira.

Il suo pensiero gli fece male al cuore, l’ansia gli saltò alla gola e con un potente sospiro si ordinò la calma. Posò una carezza sul marmo, giurando ai genitori e al fratellino mai nato che ora sarebbe venuto più spesso, che non gli avrebbe più lasciati soli. E indugiò ancora per un secondo. 

Non era pronto. Non era pronto a dire addio ad Akira

Quando era in vita non avrebbe mai voluto lasciarlo. Sognava con lui l’eternità. Eppure non era più possibile.

Doveva farlo, si disse per quella che doveva essere la milionesima volta.

Doveva ricominciare.

E dirigendosi a fatica verso il piccolo tempio, si lavò mani e bocca prima di entrare. Tolse le scarpe, camminando scalzo fino al grande offertorio in legno, quasi vuoto. Donò qualche spicciolo e suonò la campana. Batté due volte le mani, richiamando l’attenzione degli Dei e con essi Akira. Perché nulla poteva togliergli la certezza che quel ragazzo meraviglioso fosse in paradiso.

E nell’esatto istante in cui cominciò la sua preghiera, le lacrime cominciarono a sgorgargli dagli occhi. “Mio Aki, ti lascio andare.” lo disse forte, sentì la sua voce tremare, la sua anima urlava che non voleva farlo. Ma doveva. Non aveva altra scelta. E come in un sogno rivide il pavimento del Sumidagawa e il volto di Akira. 

“Temo di aver disturbato abbastanza il tuo sonno con tutte le volte in cui ti penso, in cui ti vedo.” disse ancora, le parole scricchiolavano. Rivide quella promessa rubata sul futon del suo monolocale, i loro mignoli stringersi forte per sigillare il giuramento. Il sorriso sicuro di Akira, gli occhi che brillavano di gioia e di paura per quel passo così importante e difficile per due come loro. 

“Mi dispiace così tanto di non essere riuscito a salvarti la vita, quella notte. Era il minimo che avrei potuto fare per ripagarti di tutto quello che mi hai dato.” Capì allora che non si era ancora convinto non era stata sua la colpa. Probabilmente l’avrebbe sempre pensato. E si ricordò di quanto per la prima volta Akira gli sussurrò all'orecchio che lo amava. I brividi gli percorsero la schiena esattamente come allora.

“È arrivato per me il momento di voltare pagina, sai.” gli confessò. “E anche se non ti dimenticherò mai, mai…” la voce gli si spezzò. Come avrebbe minimamente potuto dimenticarlo? Dopo tutto quello che era successo in quegli otto mesi così belli che temeva fossero stati un sogno, un trip troppo reale, un’illusione? A volte si chiedeva se non fosse morto per un’overdose senza accorgersene e quello fosse il paradiso

“Devo andare avanti.” riprese, “Non posso rimanerti fedele quando tu non tornerai mai.” Ed era la verità. Era il motivo per cui non aveva altra scelta. 

“E so che da lassù, se esiste quel posto, mi terrai sempre sotto la tua protezione, come facevi in vita.” Un sorriso gli fuggì sulle labbra. Scoprì che quel pensiero lo confortava. 

“Ti amerò per sempre, di questo ne puoi essere certo.” Nessuno mai avrebbe eguagliato Akira. Aveva anzi il sospetto che chiunque avrebbe attraversato il suo cammino sarebbe stato misurato su di lui, purché ne rispettasse i requisiti minimi. 

“In fondo, non ho mai mentito quando ho detto che ti amo.” L’ultima dedica d’amore che poteva fargli la disse in un sussurro, pentendosi di quante poche volte gliel’aveva detto. Singhiozzando, piegato in due dal dolore immenso che sentiva dentro, lo lasciò andare. E tornando indietro dal tempio verso la stazione dei treni, non si sentiva un ragazzo nuovo.

Si sentiva solo vecchio.

Molto vecchio.

Vuoto.

Solo.

 

***

 

Il primo impatto con il famoso Sumidagawa fu particolarmente intenso. 

Dall’esterno era un locale completamente diroccato, con enormi siepi abbandonate a sé stesse che lo circondavano sui lati che davano su una strada completamente vuota: per tutto il tempo in cui la percorsero a piedi non videro nemmeno un’auto. Capì presto che dall’esterno non rivelava nulla di ciò che accadeva all’interno. Superato il locale vuoto e abbandonato, sull’erba morbida che aspettava entrambi oltre ad una porta vetri eternamente aperta, c’era tantissima gente, per lo più riunita a gruppetti. Qualcuno aveva con sé delle torce per potersi almeno riconoscere, alcuni avevano acceso dei piccoli falò che rischiaravano il circondario, non abbastanza però da rivelare ad altri l’esistenza di quel piccolo angolo di mondo. Nonostante le siepi, la sicurezza non era mai troppa. Il gruppetto a cui si stava indirizzando Kouyou era per una parte appollaiato su delle altalene appese sugli alberi, mentre il silenzioso scorrere del Sumida era udibile a causa delle recenti piogge. Intorno a loro, un falò abbastanza vigoroso rendeva riconoscibili i loro volti. Seguì Kouyou, sentendo la timidezza investirlo come un’onda; uno dei componenti del gruppetto saltò immediatamente in piedi quando lo riconobbe. Gli venne poi presentato come Yuu, il ragazzo che faceva da inserviente all’host club dove lavorava Kouyou. Scoprì poco dopo che era anche uno spacciatore a tempo perso, uno dei tanti minuscoli pesciolini che gravitavano attorno ai pezzi grossi.

Lo vide dopo aver stretto la mano a Yutaka, un bel ragazzo dalla battuta sempre pronta, mentre gli veniva incontro per presentarsi.

E da quel momento la sua vita non fu mai più la stessa

Era basso, certo, ma il suo sorriso illuminava il mondo. I capelli neri erano unti, certo, però sembrava che avesse cercato di sistemarli un pochino e i vestiti che indossava erano logori, certo, ma cingevano il suo fisico mettendone in risalto tutti i suoi aspetti. 

Gli disse di chiamarsi Takanori facendo un brevissimo inchino. 

Lui non riuscì nemmeno a rispondere, riuscendo a mettere in piedi un sorriso timidissimo e un mezzo inchino. Il sorriso gentile su quel volto gli fece intendere che la sua timidezza era accettata e perdonata, anzi, che non se ne sarebbe dimenticato in futuro. I nomi del resto del gruppetto gli fuggirono via immediatamente. Passavano le ore e venne a sapere che Yuu e Takanori erano amici da una vita, anzi era stato il ragazzo dal forte accento del Kansai a prendere Takanori sotto la sua ala e dargli un posto dove vivere quando ancora non aveva nemmeno diciassette anni. Yutaka invece era arrivato completamente solo al Sumidagawa, ed era stato quindi avvicinato da Yuu e Takanori, diventando immediatamente amici. Lui al solito non aveva niente da raccontare, ma non aveva nemmeno il coraggio di farlo. Era completamente ammaliato da quel ragazzo, schioccandogli più che poteva sguardi fugaci per osservarlo, per cogliere ancora e ancora quel sorriso straordinario che non aveva mai visto prima su nessun altro. Comunque, mentre gli venivano poste domande a cui dava balbettanti risposte, osservò anche che il resto della compagnia era composto di persone eterogenee come ragazzi della sua età, uomini sulla cinquantina che non facevano altro che ricordargli suo padre e ragazzine trascinate lì chissà come e specialmente da chi. Non poté non notare un certo astio da parte di Yuu quando gli presentò il nuovo arrivato, un tizio dai lunghissimi capelli inchiostro che, scansando Yutaka di malagrazia, si sedette accanto a Takanori, prendendolo sottobraccio e stringendolo a sé. Il sorriso che Takanori portava sul volto lo fece sciogliere ancora di più, anche se la tremenda realizzazione lo fece morire dentro.

Naoji.” era un sibilo quello che uscì dalle labbra di Yuu, che ricevette un’immediata gomitata da Yutaka.

Naoji sembrò non farci caso, passando a mormorare qualcosa all’orecchio di Takanori. Sembrava il classico tipo di persona che se ne fregava di qualsiasi cosa dicessero gli altri, immerso in una palpabile arroganza che sfociava nella sfacciataggine. 

Ma vedendoli così vicini, lui si sentì le guance in fiamme. Abbassò lo sguardo.

Quel timido sentimento appena nato nel suo cuore era già un’altra delle mille delusioni della sua vita.

 

***

 

Il tatuatore fece partire la macchinetta, immergendo l’ago nella boccetta di inchiostro nero, portandosi poi al polso del cliente. Solo qualche minuto primo aveva steso con perizia lo stencil, tracciando i contorni in blu da seguire.

“Prenda un profondo respiro, ci siamo.” gli disse con dolcezza. Il primo tatuaggio era sempre il più difficile, e non voleva spaventare il povero ragazzo seduto davanti a lui. Fece completamente finta di non aver notato le cicatrici delle siringhe sulla piega del braccio. Non erano affari suoi.

Chiuse gli occhi, prese il respiro, sussultò al contatto dell’ago sulla pelle, stringendo il labbro inferiore fra i denti. Ed esalò piano.

Fatto il battesimo del fuoco, il tatuatore proseguì con il suo lavoro.

Faceva male, ma non così male come quello che aveva fatto solamente il giorno prima. Quella del tatuaggio era stata un’avventata decisione dell’ultimo minuto, e quel tatuatore era stato così gentile da accoglierlo, nonostante l’assenza di appuntamento e quindi con un preavviso inesistente. 

Ma il giorno prima, dopo aver lasciato andare Akira al tempio ed essersi ricomposto a fatica, era salito sul treno che l’avrebbe portato a Tokyo e si sentiva svuotato. Come se non avesse più nulla dentro di sé. E fu allora che gli sovvenne il terrore vivo di dimenticarsi di Akira.

Sì, sapeva benissimo che era impossibile farlo, ma se nell’arco di quattro anni il tempo aveva già cominciato ad edulcorare colori, dettagli, suoni, nessuno poteva garantirgli che quindi lui sarebbe rimasto nella sua interezza. Aveva così deciso che quella cicatrice non doveva rimarginarsi. Aveva paura lo facesse. E non poteva farlo. Non poteva mancare così tanto di rispetto a quel ragazzo che gli aveva stravolto la vita. E per questo aveva deciso di fare quel tatuaggio.

Appena tornato a casa, si era rifugiato immediatamente in camera salutando a malapena Yutaka e Hoshiko, mettendola a soqquadro alla ricerca dei vestiti che aveva con sé quando era rinchiuso fra le quattro mura asettiche. Sapeva che nel suo unico giubbotto di pelle che aveva posseduto fino ai diciannove anni avrebbe trovato esattamente la cosa che cercava. E la trovò.

Un biglietto che Akira gli aveva lasciato un mattino in cui lui doveva andare a lavorare, lasciandolo dormire nel minuscolo futon ricoperto di vestiti per avere più caldo data la totale assenza di riscaldamento durante uno degli inverni più rigidi di cui avessero memoria. Poche righe che sapeva a memoria, in quella scrittura così incerta e spigolosa, così familiare. La sua firma era in grande, in fondo al biglietto. Quello stesso biglietto che portò poi dal tatuatore, quello stesso giorno. Quel nome che doveva rimanere per sempre sul suo polso.

Il radicale del sole si appoggiava a quello della luce. 

E cosa era stato per lui Akira se non la luce del sole, il calore di quei raggi? 

Quando luce e sole furono finalmente indelebili sulla sua pelle, si ritrovò a sorridere con dolcezza, sfiorando con le dita la pellicola protettiva appena applicata dal tatuatore. Ora era certo di non dimenticarlo mai. E decise di fare di quel prezioso nome il motto della sua vita. Di cercare di vedere il più possibile tutto in positivo, del ricordarsi che dopo ogni tempesta torna sempre il bel tempo, di non farsi abbattere da tutto quello che la vita aveva ancora da riservargli. E, decisamente più sollevato del giorno prima, tornò a casa stringendo il polso tatuato nell’altra mano.  

Yutaka non disse nulla quando s’accorse, parecchi giorni dopo a dirla tutta, di quel kanji sul polso di Takanori. Sapeva che stava finalmente lavorando quel lutto, a modo suo, certo, ma lo stava facendo. Ed era un’ottima notizia. 

Voleva soltanto che finalmente trovasse la serenità che tanto cercava.

 

***

 

Non ebbe mai il coraggio di dire a Kouyou che non voleva più tornare al Sumidagawa, dato che quest’ultimo si presentava, puntuale come un orologio svizzero, fuori casa sua alle dieci di ogni sabato sera. Lui passava la settimana a girovagare per casa come un fantasma, provando e riprovando il discorso breve e difficoltoso che voleva rivolgere a Kouyou per giustificare la sua decisione.

“K-Kou-kun, t-t-ti rin-n-grazio p-per av-vermi po-po-rtato al S-s-sumidag-gawa m-ma n-n-non c-ci pos-s-so p-più v-v-ve-venire. M-mi s-s-sono i-i-in-nam-m-morato d-di Ta-takanori s-san, m-m-ma lui è-è-è d-di un-n a-a-ltro e n-n-n-non m-mi va d-di m-me-mettere i-il d-dito i-i-in un-na r-r-re-rela-z-zione co-così s-s-stab-bile.” ripeteva, aprendo il frigorifero e trovandolo immancabilmente vuoto, o gettando via l’ennesima bolletta che non poteva pagare. Poi il caro amico si presentava sotto casa e a lui la voce moriva in gola. Non aveva assolutamente il coraggio di ammettere quando profondo fosse il sentimento che provava per quel ragazzo conosciuto soltanto un mese prima.

E ogni volta era un colpo al cuore, vedendo Naoji e Takanori, cercando di ignorare quanto forte gli battesse il cuore. Ma purtroppo o per fortuna si stava affezionando al Sumidagawa, la segretezza di ciò che avveniva fra quelle siepi, la certezza di aver trovato l’unico angolo di mondo in cui tutti erano uguali, il non sentirsi più così solo. Dall’altro lato Takanori gli toglieva il fiato ogni volta che arrivava con Yuu, o che gli parlava, o che gli sorrideva. Sì, si parlavano, nei limiti della sua timidezza e della sua balbuzie. Takanori per lui riservava un ascolto attento e sorrisi dolcissimi che nessuno mai gli aveva rivolto. Si sentiva tremendamente a suo agio con lui, e questo prescindeva da ciò che provava. Era proprio Takanori che si metteva d’impegno per farlo sentire al meglio, come se stesse parlando con una persona qualunque e non con un disastro su gambe balbuziente e timidissimo. Gli chiedeva spesso di come andava la sua giornata lavorativa, e quello era il suo metodo per fargli cominciare la conversazione e da lì pian piano proseguirla. Da quando l’aveva notato non poteva fare a meno di sentire le guance arrossarsi. Avrebbe voluto essere diverso ma non poteva fare altro che essere sé stesso. E a volte si ritrovavano distesi uno a fianco dell’altro, Naoji a poca distanza, impegnati a godere dei pochi attimi di piacere che la droga riservava loro prima che svanisse. In silenzio. Ed erano momenti assolutamente meravigliosi.

L’ombra di Naoji danzava sempre intorno a loro, attenta che una riga immaginaria tirata fra loro non venisse superata, che Takanori non osasse mai fare più di quello che faceva. Akira giustificava da un lato questo comportamento, dall’altro lo condannava completamente. Riteneva che la gelosia, se in dosi leggere e giustificate, poteva anche essere sana. Ma non era certamente cieco, e aveva notato subito quanto fosse facile per Naoji diventare possessivo in maniera soffocante, qualità che non confaceva per nulla allo spirito libero che era Takanori. Sapeva, anche se non poteva dirlo con certezza, che Naoji aveva la piena fedeltà di Takanori, e assillarlo così non aveva minimamente senso. Ma non diceva niente, notando ogni volta la scintilla negli occhi del ragazzo di cui, ne aveva la certezza praticamente matematica, si era innamorato. Non faceva che pensargli, come se qualsiasi altra cosa al mondo avesse perso completamente importanza. Pensava sinceramente che Takanori fosse quello sprazzo di felicità che aveva sempre cercato, anche se era condannato a non poterlo mai tenere per sé. 

Ma ad un tratto, come se qualcuno avesse brutalmente voltato una pagina, le cose fra Naoji e Takanori furono decisamente meno idilliache. Si univa sempre più spesso al gruppo composto da Yuu, Akira, Yutaka e Kouyou, abbandonando la zona impegnata da Naoji e il resto della sua banda. Notò che con loro ritornava il sorriso, il quale scompariva completamente in compagnia del corvino. Avrebbe anche potuto usare l’occasione a suo vantaggio, se ne rendeva conto, ma non ne aveva davvero il coraggio. Non ancora, per lo meno. E in fondo era certo che Takanori non l’avrebbe mai nemmeno degnato di uno sguardo.

Ogni sabato, si dannava per quel sentimento così inopportuno e improvviso, ma non riusciva nemmeno a soffocarlo. E passava la settimana a provare e riprovare quel discorsetto che voleva fare a Kouyou, pregando che prima o poi le sillabe si unissero coerentemente, perché si intuisse la gravità della situazione.

Ma poi arrivava sabato, Kouyou gli suonava al citofono e il suo coraggio svaniva.

Senza saperlo, era caduto in un ennesimo circolo vizioso.

 

***

 

Non fu difficile gettarsi nel gomitolo di Tokyo. Fu difficile cercare di resistere a vecchie strade percorse in un passato che voleva assolutamente mettere da parte. Non l’avrebbe mai detto possibile, eppure era da un po’ che stava maturando una sorta di repulsione verso quel passato che non poteva cambiare. E passando le dita sul nome di Akira ormai quasi guarito, si stava rendendo conto di quanto avrebbe voluto chiudere per sempre chi era stato in uno sgabuzzino buio e polveroso. Sarebbe stato più facile così, sicuramente più facile del spiegare a chiunque avrebbe attraversato poi il suo cammino che era stato tossicodipendente. Sarebbe stato più facile troncare. Nella stessa linea di ragionamento, si era reso conto che lasciare andare Akira non era una cosa momentanea, frutto di una faticosa preghiera in un tempio, ma era un processo lungo, che ironicamente era iniziato proprio in quella splendida giornata di sole.

E mentre il piccolo lavasecco andava sempre meglio, acquisendo fra gli altri anche clienti importanti come atelier di abiti da sposa e boutique d’alta moda, ogni sera lasciava casa e affrontava il desiderio infinito di essere stato un altro. Che non ci fossero cicatrici sulle sue braccia e sulle sue mani, che non fosse in grado di descrivere ad altri l’effetto di ogni droga sul cervello umano. Che fosse stato un ragazzo come tutti gli altri. 

Ogni locale di Tokyo era una piccola pera. Se ne stava rendendo conto, rifiutando stoicamente bevande alcoliche proposte da un lungo stuolo di pretendenti ogni sera. Ne ebbe paura. Ma capì che era ossessionato dal rispettare il suo giuramento il prima possibile, di ricominciare davvero da un momento all’altro. Sapeva che non andava bene, così per un paio di giorni decise di rimanere nella segretezza della sua camera, in compagnia dei suoi libri preferiti. A casa, nell’aria sentiva veleggiare voci di una gravidanza assolutamente desiderata, mentre ormai al matrimonio di Yutaka e Hoshiko mancavano una manciata di settimane, eppure non riusciva a fermarsi per chiedere all’amico aggiornamenti sulla bella notizia. Non riuscì nemmeno a trovare il coraggio di confidargli il periodo orribile che stava vivendo. 

E d’un tratto s’accorse che inconsciamente stava aspettando Akira ad ogni bar, quando ricominciò a uscire. Si illudeva di vederlo arrivare d’un tratto. E s’immaginava che avrebbe fatto, guardando il mondo attraverso il verde fluorescente e industriale di una Fanta al melone.

L’avrebbe abbracciato.

Avrebbe pianto.

Gli avrebbe detto che lo aveva creduto morto.

E Akira l’avrebbe stretto forte a sé. Come faceva sempre. Offrendogli la sua protezione.

E allora avrebbe desiderato intensamente di morire in quell’abbraccio, per non separarsi mai più da lui.

Finché finalmente una sera non incrociò un ragazzo che gli offrì un analcolico. E questo lo colpì decisamente. Si chiamava Ryuchi, gli disse inchinandosi con un piccolo sorriso. Era diverso dagli altri. Diverso da lui. Era evidentemente appena uscito da chissà quale ufficio, chissà quale importante azienda. Gli disse infatti di essersi laureato alla Waseda, di lavorare in una banca prestigiosa. Per tutta risposta, s’inventò un passato che non aveva. E solo quando tornò a casa si sentì tremendamente in colpa.

 

***

 

Di quel particolare sabato ricordava con perizia ogni dettaglio. 

Kouyou era seduto su un’altalena, di fronte a lui, mentre divideva con attenzione alcune righe di cocaina su un vecchio tagliere trafugato dalla cucina in rovina del Sumidagawa. Lui era seduto sull’erba, giocherellando con un accendino, non sapendo bene se accendere o meno una sigaretta che era riuscito a raccattare da un anziano fuori dalla stazione. Yutaka era già andato da un po’, disteso alla sua sinistra con lo sguardo perso nel cielo. Yuu e Takanori stranamente mancavano all’appello, ma appena arrivarono capì immediatamente cos’era successo. Non aveva mai visto Takanori così felice, sottobraccio a Yuu ed entrambi sicuramente già persi in qualche sostanza.

“Ho lasciato Naoji!” annunciò, suscitando la gioia di Kouyou, che avrebbe voluto alzarsi per abbracciarlo ma il carico prezioso che portava sulle gambe veniva prima di tutto. Il più contento di tutti era proprio Yuu, che aveva più e più volte manifestato il suo odio nei confronti del corvino, che infatti non si fece vedere per tutta la sera. I due ragazzi quindi si sedettero, Takanori accanto ad Akira e Yuu sull’altalena accanto a Kouyou. Yutaka rimase dimenticato al loro fianco.

Quando si ritrovarono distesi a loro volta sul prato, raccolse tutto il coraggio che aveva per porgli la prima domanda personale da quando si conoscevano. “C-come m-mai ha-hai la-lasciato N-naoji?” avrebbe tanto voluto non balbettare, avrebbe così tanto voluto per una volta produrre una frase che non suonasse così insicura.

Takanori gli sorrise appena. “Sai, Aki-kun… Tu non sai quasi nulla di me. Ma non è colpa tua, non voglio che lo pensi. Sono solo molto protettivo del mio passato.”

“Ah, n-non lo s-sa-sapevo.”

Takanori ridacchiò appena. “Prima di scappare di casa ho fatto strage di ragazzi nella mia scuola superiore. Non me ne pento, per nulla, anzi, è stato particolarmente divertente. Non ho mai avuto sensi di colpa per via della mia omosessualità, anzi, la sbandieravo a tutti con orgoglio. Comunque, ricordo ognuno di loro con particolare dettaglio. Tre anni fa, però, poco dopo aver incontrato Yukkun, bè…”

La voce gli morì in gola, Akira rimase in silenziosa attesa del seguito del racconto.

“Stavo con un tizio.” disse, a mezza voce. ”Io ero ciecamente innamorato di lui, era la prima volta che mi succedeva. Gli lasciai… Parecchie libertà, per farla breve. E lui se ne approfittò. Era la persona più gelosa che conoscessi, fra l’altro. Mi picchiava. E io lo perdonavo sempre.”

Akira era completamente gelato. Il cuore gli doleva, non volendo nemmeno immaginare cosa Takanori avesse passato.

“Yukkun mi ha aperto gli occhi, mi ha aiutato a scappare. Non so dove sarei se non l’avessi mai conosciuto. Quindi… Appena ho visto i primi segnali anche in Naoji-san, ho preferito evitare immediatamente. Nessuno mai mi tratterà più come ha fatto lui.”

“S-sei m-m-molto c-coraggioso, T-taka-kun.” era la verità. Lo ammirava moltissimo per quello che aveva fatto.

“Non so se chiamarlo coraggio o istinto di sopravvivenza!” scherzò, “Ma ti ringrazio, Aki-kun. Sei sempre così gentile con me.”

Akira arrossì, non dicendo più nulla. Gli bastò quel minuscolo complimento.

Sentiva forte e chiara l’ombra di suo padre. Takanori aveva già passato cose indicibili, e il suo terrore di rivelarsi lo stesso mostro che era suo padre aveva ricominciato a farsi strada in lui. E lo bloccava ulteriormente da fare qualsiasi mossa verso di lui.

Glielo disse per la prima volta parecchio tempo dopo, mentre il silenzio regnava sovrano sul prato del Sumidagawa. Un enorme telo era stato tirato dal tetto pericolante del vecchio locale ad alcuni alberi sulla sponda del fiume, per proteggere tutti dalla pioggia incessante che, rimbalzando sulla plastica, faceva un rumore assordante. Ecco, quello era l’unico difetto del Sumidagawa: quando pioveva perdeva tutta la sua magia. Ma distesi uno a fianco all’altro, senza quella distanza obbligatoria a separarli, Akira gli confessò della sua famiglia. Gli disse di aver paura di diventare come suo padre. Prima di rispondergli, Takanori raccontò della sua. Anche lui era orfano. I genitori erano morti in un incidente stradale quando aveva sette anni; stavano andando a prendere la culla per il fratellino minore, di cui la madre era all’ottavo mese di gravidanza. Ovviamente per il piccolo non ci fu niente da fare. Venne quindi affidato alla nonna materna, l’unica rimasta in vita, fino alla sua morte: lui aveva tredici anni. Poi ad una sorella maggiore del padre, già madre di cinque figli. Scappò di casa quando ormai le sue dipendenze erano evidenti, finendo ironicamente sulla strada di Yuu.

“E comunque secondo me tu non sei come tuo padre.” gli disse, dopo un lungo silenzio.

“C-come f-f-fa-fai ad e-es-sserne s-s-si-sicuro?”
“Lo so e basta. Insomma, guardati, Aki-kun. Potresti mai effettivamente fare del male a qualcuno?”

“C-credo d-d-di n-do, a m-m-mente l-l-lu-lucida…”
“E tanto basta.” Takanori si voltò verso di lui, sorridendogli con dolcezza. “Io credo che tu sia un ragazzo meraviglioso, Aki-kun, ma sei plagiato dall’enorme insicurezza che tuo padre ha deciso di gettarti sulle spalle quel giorno. Eppure non fai altro che dimostrare di essere il suo esatto contrario, con la tua timidezza e il tuo silenzioso esserci.

 

***

 

Si misero insieme dopo qualche mese dal loro primo incontro. 

Non gli aveva ancora detto nulla del suo passato, preferendo quello fittizio che aveva fabbricato.

Ryuchi l’aveva ovviamente questionato sul nome tatuato sul polso, che aveva liquidato con un “È il nome di un caro amico venuto a mancare tempo fa, niente d’importante.”

Pianse tutta la notte per aver detto la bugia più grande di tutte. Aveva rinnegato Akira di fronte a qualcuno. Singhiozzò preghiere di scuse nel cuscino fino ad addormentarsi. 

Yutaka era grato della ritrovata gioia e serenità che il caro amico portava con sé. Avevano avuto un’amara discussione sulla questione del passato, dopo che gli aveva confidato di Ryuichi, ma nessuno dei due era riuscito ad avere ragione sull’altro. Alla fine, Yutaka decise che avrebbe fatto pace con l’idea drastica del socio, sapendo in cuor suo che inevitabilmente la verità sarebbe venuta a galla. Sperava che però questo non rovinasse nulla fra loro, anche se non aveva ancora avuto modo di conoscere Ryuichi.

Quel giorno in particolare era una giornata primaverile così splendida che persino il sole sembrava ancor più luminoso, e l’umore di tutti era dei più positivi e allegri. Yutaka era nell’enorme stanza delle lavatrici e asciugatrici ad aspettare un carico che di lì a poco sarebbe stato pronto per l’imbustamento e quindi la consegna. Lui eseguiva calcoli al bancone, perso in ricordi più grandi di lui, dimentico del resoconto di fine mese che doveva compilare. La campanella appesa alla porta d’entrata del negozio suonò e lui venne risvegliato dai suoi pensieri, accogliendo la nuova arrivata con un gentile “Irasshaimase”, alzandosi per accoglierla con calore. La ragazzina appena arrivata portava fra le braccia un enorme fascio di poster, che sembravano pesare sulle sue gracili braccia. 

S’inchinò. “Buongiorno signore, volevo sapere se è possibile lasciarle uno di questi.” e con la testa fece un piccolo cenno verso l’enorme bacheca in sughero che il negozio ospitava, proprio di fronte al bancone, pieno di annunci di ogni tipo. 

Le sorrise. “Certo, assolutamente!” e mentre parlava fece il giro del bancone. Lei cercò di liberare un braccio per prendere un poster da dare all’uomo di fronte a lei, ma lui fu più veloce, sfilandogliene uno dal fardello.

“Oh, grazie mille!” disse lei, radiosa, inchinandosi mille volte.

“Figurati, come minimo!”
“Buona giornata, signore!”

“Buona giornata a te!”

Lei continuava ad inchinarsi mentre usciva; lui da bravo galantuomo le aprì la porta. La lasciò andare con il suo migliore sorriso, chiudendosi la porta alle spalle e posando il primissimo sguardo sul foglio.

E quasi svenne.

Su sfondo nero, un’elegantissima scrittura recitava:

 

“GRANDE RIAPERTURA DEL BAR/PUB SUMIDAGAWA

Sabato 21 giugno dalle ore 17!”

 

Non gli servì rileggere l’indirizzo per sapere che era esattamente lo stesso posto, riemerso dalle acque torbide del passato come per comunicargli un messaggio: non avrebbe mai davvero potuto chiudere con il passato.

Chiamò Yutaka a gran voce, che spaventato accorse dal socio, e vendendolo completamente pallido si preoccupò ancora di più. Ma ovviamente, quando lesse il poster, la sua reazione fu completamente diversa.

“Ma è fantastico… Hai presente quante persone ritroveremo?” chiese, con vivace entusiasmo. “Inoltre, se la riapertura è pubblicizzata significa che il locale è aperto a tutti, non è più solo per i tossici!”
Scosse la testa. “Non vengo, Yuta-kun, e tu lo sai.”

“Ma Takanori, pensa a Kou-kun… O Yukkun…”
“No.” Fu irremovibile. Aveva chiuso.

Aveva chiuso davvero.

E quindi nascose il tatuaggio nella manica della felpa che indossava.

Yutaka non disse nulla, tornando da dove era venuto, ma aveva un sorriso sul volto. Non vedeva l’ora di ritornare in quel posto che era stato anche suo. 

Ritrovare gli amici perduti.

E per un minuscolo istante sperò che in qualche modo anche Akira potesse tornare.

 

***

 

Lo amava. Cazzo quanto lo amava. 

Ogni giorno si accorgeva di quanto fosse pazzo di lui. E ogni giorno diventavano sempre più amici, condividendo dosi e botte, discorsi e silenzi. Sì, ogni giorno; perché ormai al Sumidagawa ci veniva anche senza Kouyou. Certo, non aveva ancora mosso nemmeno un passo, bloccato dalla sua eterna timidezza. Era impaurito di un sicuro rifiuto, coltivando dentro di sé quell’amore come un fiore prezioso e godendo del fatto che Takanori per lo meno ero suo amico, e questo gli bastava. 

Non sapeva che alle loro spalle Yutaka, Yuu e Kouyou ci erano arrivati prima di loro a cosa stava succedendo. E che ciò che Akira non vedeva, di cui era involontariamente cieco, era che Takanori aveva iniziato tanto silenziosamente che dolcemente a ricambiarlo, man mano che trascorrevano le ore nel rifugio del Sumidagawa.

Kouyou voleva parlarne con Akira, confrontarlo sui quei sguardi che volavano sul prato, ma sapeva quanto era difficile strappare dall’amico una qualsiasi parola e per questo aveva sempre desistito. A Capodanno, però, mentre si recavano come il loro solito al Sumidagawa, prese finalmente la parola.

“Non hai idea di cosa mi ha raccontato Yukkun ieri quando ci siamo incontrati a lavoro.”
“C-cosa?” era effettivamente curioso.

“A quanto pare Taka-kun ha un debole per te.” lo disse con semplicità, senza alludere che era un’ovvietà chiara agli occhi suoi e degli altri due suoi amici.

Akira era completamente impallidito. “C-c-co-com…”

“Così mi ha detto.”

Akira si chiuse immediatamente nel suo silenzio, senza aggiungere nient’altro. Non gli credeva minimamente. Conosceva Yuu abbastanza da sapere quando stava palesemente scherzando, e questo era certamente una di quelle volte. 

“Tu che ne pensi?” incalzò Kouyou.

“N-n-niente.” mentì. “P-p-penso c-che Yu-yukkun s-s-stesse sch-scher-scherzando. I-in f-f-fon-fondo, lu-lui n-non v-v-ve-vedeva l’o-o-ora che Ta-taka-kun e N-Nao-Naoji s-san s-si l-la-lasciass-ssero.”

Kouyou tacque per un istante. “Quindi il fatto che trascorri molto tempo con lui non significa nulla?”
Akira si sentiva soffocare nella timidezza. “N-n-no…”

“Va bene.” Kouyou tagliò corto. Non c’era modo di estrapolare altre informazioni.

Ma da quel momento il tarlo del dubbio cominciò a rodere Akira, e ogni volta che condivideva con Takanori uno dei loro momenti, si chiedeva se forse Kouyou non gli avesse detto la verità. Per quanto si sforzasse nel vedere qualche segnale da parte sua, non ne vedeva nemmeno mezzo.
E tutto quello che sentiva nel suo cuore cominciava a straripare. 

 

***

 

“Sai, Ryu-kun… Ti ho mentito.” disse d’un tratto, appoggiando sul piattino il tè caldo che stava bevendo.

“Davvero?” Ryuichi aveva appena finito di pulire gli occhiali con la cravatta, dietro di lui una cameriera si stava dando da fare a servire gli altri tavoli.

“Sì. E ti capirò se ti arrabbierai con me.” Abbassò lo sguardo, notando il suo riflesso nel liquido di fronte a sé.

“Prima voglio capire su cosa mi hai mentito. Se è una cosa da nulla non vedo perché io debba arrabbiarmi.”
Sospirò. “Bé, non è esattamente una cosa da nulla. Si tratta del mio passato.”

“Ah.”

“Nulla di ciò che ti ho raccontato è vero.” Lo disse velocemente.

Ryuichi rimase in ascolto, inserendo un dito nel piccolo manico della tazza di cappuccino che aveva ordinato.

“Sono nato a Kanagawa e sono orfano di entrambi i genitori da quando avevo sette anni. Fino ai quindici anni non ero mai stato a Tokyo.”

“Innanzitutto: mi dispiace. Ma non capisco perché non me l’hai voluto dire prima.”

“E non è nemmeno questa la parte peggiore.”

“E quindi qual è?”

Prese un profondo respiro. “Io… Sono stato tossicodipendente per quasi sei anni della mia vita. Ora, per fortuna, sono pulito da quasi cinque.”

Ryuchi rimase ovviamente di sasso.

“Non volevo dirtelo perché sapevo che avresti reagito così. Ero alla ricerca di una seconda possibilità, e non volevo spaventarti. Inoltre, sto tentando, senza successo, di chiudere con quel passato. Non sono più quel ragazzo spaventato. Ho pensato che fabbricare una storia che non mi appartiene ti avrebbe fatto vedere chi sono davvero.”

Ryuichi si sistemò sulla sedia, guardandolo dritto negli occhi. “Mi dispiace che tu abbia pensato che l’avrei presa male.”
“Chiunque l’avrebbe presa male.”
“Ma io non sono chiunque, Takanori.”

Sospirò. “Lo so. Mi dispiace.”

“Ti ringrazio di avermelo detto. Sono felice che tu ne sia uscito; non deve essere stato facile.”

“Per niente.”

“Non posso dire di aver conosciuto persone che hanno passato nulla di simile a te, ma da quel poco che so attraverso film o libri… Mi domando come ci riuscivi.”

Fece spallucce. “Ho iniziato praticamente per caso. Lo svago che mi dava mi allontanava da una vita terribile che non mi meritavo minimamente di avere. C’erano una marea di ragioni per cui lo facevo, e solo poi ne ho trovato una per non farlo.” Pensò involontariamente ad Akira, a quella promessa effimera che ancora lo feriva.

Ryuichi gli fece un mezzo sorriso. “Quindi, tu e Yutaka-san…”
“Sì, eravamo amici allora. Ci siamo ritrovati, entrambi con l’idea di una vita migliore, e… Bé, eccoci qua. Effettivamente con una vita migliore.” Sorrise a sua volta.

“Quel nome fa parte di quel passato?” E Ryuchi indicò il nome di Akira sul suo polso.

Lo nascose immediatamente con una mano. Annuì soltanto. Gli sembrava di sentirlo scottare.

“Mi dispiace molto per il tuo amico.”

Scosse la testa. “È passato tanto tempo.” disse, con un filo di voce.

Era ormai convinto che non gli avrebbe mai raccontato di Akira.

 

***

 

Nevicava quella sera, e il telo che proteggeva il prato del Sumidagawa minaccia di incavarsi e uccidere tutti. Ma la cosa non importava a nessuno. 

Loro erano distesi su quello che era ormai diventato il loro angolino privilegiato, silenziosi nella loro personale sensazione di pace che scorreva nelle loro vene.

Akira non era stato in grado di pensare ad altro che non fosse ciò che gli aveva detto Kouyou, durante quella settimana. Se aveva ragione, era davvero ad un passo dal stringere quel leggiadro filo di felicità fra le mani. E quindi aveva deciso che avrebbe rivelato a Takanori i suoi sentimenti il prima possibile. Come, però, non lo sapeva. Non ne aveva il minimo coraggio; nemmeno ora, quando sembrava che nessun problema potesse toccarlo. Si voltò per trovarlo immerso in un mondo tutto suo, gli occhi fissati sul telo sopra di loro. 

Non poteva dirlo a parole. La sua balbuzie avrebbe rovinato tutto. 

Ma non poteva nemmeno coglierlo di sorpresa.

E non poteva nemmeno continuare a tenere tutto dentro.

Così optò per una cosa innocente, come se fossero stati due bambini delle elementari. Sperando di non spaventarlo, gli prese una mano, abbandonata al suo fianco, ferma lì fra loro due, stringendola con delicatezza. A quel contatto, Takanori sembrò risvegliarsi voltandosi verso di lui. 

Occhi negli occhi, per la prima volta vide. 

Oltre le pupille dilatate c’era altro, quello che non aveva mai notato, quello che Kouyou gli aveva detto. E allora capì che per davvero non l’aveva preso in giro.

E non sapendo nemmeno dove aveva trovato il coraggio, chiuse gli occhi, annullando la distanza fra di loro per poggiargli un minuscolo bacio sulle labbra, il massimo che poteva fare.

Riaprì gli occhi, pieno di paura. Ma il sorriso che Takanori portava sul volto fu la conferma che aveva fatto la cosa giusta. 

Il resto è storia.

Si amavano. Cazzo quanto si amavano.

Per prima cosa trovarono due soprannomi che usavano esclusivamente loro. Takanori decise per il brevissimo Aki, senza onorifici, che in quel modo gli faceva venire in mente anche la sua stagione preferita, l’autunno. E per molti versi, Akira si rifletteva perfettamente in quella stagione. Quest’ultimo invece aveva scelto Taka, anche questo senza nessun onorifico ad adornare un nome che già venerava ogni volta che lo pronunciava. 

Takanori gli confidò che aveva attirato la sua attenzione già dalla prima volta in cui venne al Sumidagawa. Ma aveva fatto finta di nulla, per il momento, temendo fosse solo una cosa momentanea. Rivelandosi più forte di quello che pensava, era diventato una delle ragioni per cui aveva lasciato Naoji. Akira arrossì fino alla punta dei capelli, non avendo nemmeno lontanamente immaginato di aver interessato Takanori da subito.

Consumarono la loro prima volta fra le sei e le otto del mattino qualche settimana dopo quel bacio, nel minuscolo futon di Akira, come se solo allora avessero trovato qualcosa che avevano cercato per tutta la vita. Sfiorandosi in ogni modo: pelle contro pelle, baci, carezze, morsi, lunghi percorsi disegnati con la lingua. Abbandonati fra le braccia l’uno dell’altro dopo il primo orgasmo, avevano capito che non c’era posto più bello dove stare se non lì, insieme.

E litigavano come pazzi, sempre e soltanto per un motivo: la droga. Ma quando lei c’era, tutto filava liscio come l’olio. Ed erano bellissimi.

La luce del Sumidagawa. Quel termine venne coniato per la prima volta da Kouyou, mentre osservava i due stringersi l’un l’altro sul prato. “Li guardo e mi convinco che c’è una possibilità anche per gente come noi. Certo, io me la sono andata a cercare come eterno moto di ribellione nei confronti di mio padre, ma… Guardatevi intorno.” e con lo sguardo abbracciava il prato. “Non vedo altro che disperazione, noia, morte apparente. Ma loro… Loro sono vita.” concluse, ispirato, con un sorriso sul volto che non riusciva a reprimere. 

Impararono per prima cosa a convivere con l’eterna insonnia di Akira. Takanori era il più felice del mondo quando finalmente il povero Akira si addormentava, godendo della rara visione del suo volto pacifico, dimenticando di dormire per non perdersi nemmeno un secondo della serenità su quel volto amato. E lottando contro bollette mai pagate, luce tagliata, riscaldamento completamente assente, il loro amore cresceva sempre di più.

Akira gli confessò di amarlo per la prima volta quando stavano insieme da sei mesi. Stretti dentro il futon, mentre fuori imperversava l’estate, Takanori era abbandonato al fianco di Akira dopo aver fatto l’amore. E lui, avvicinandosi piano al suo orecchio, bisbigliò un “Ti amo” così dolce che non balbettò nemmeno. E Takanori aveva aperto gli occhi, già umidi, sorpreso come lo era mai stato. E mentre un sorriso dei più belli che fece mai gli esplodeva sul volto, mormorò “Ti amo anch’io”. E non serviva null’altro.

Forse fu da quel momento che cominciò a crescere in Akira il desiderio di una vita normale. Nelle lunghe notti insonni che lui sfruttava per pensare, cominciò a disegnare i contorni di un debole sogno, un desiderio di normalità che forse non gli era mai appartenuto. Sicuramente non prima che Takanori entrasse nella sua vita. 

Così, quel mattino di inizio settembre, mentre si stava vestendo di corsa per andare a lavoro e Takanori era ancora disteso sul suo futon, glielo disse.

“Ho f-f-fatto u-un s-s-so-sogno a-ad o-occhi a-a-ap-perti s-s-stanotte.”

“Cioè?” 

“U-una ca-casa p-p-più gr-grande, s-sia de-della m-m-mia c-che d-d-della t-t-tua. E u-u-un let-t-to e-e-no-enorme. C-c-cosa f-f-fon-fondam-mentale, se v-vuoi la m-m-mia op-op-opinione.”

Takanori ridacchiò, curioso di dove Akira volesse andare a parare. 

“E t-t-tanto c-ci-cibo, e b-b-bollette pa-pa-pagate, e a-a-acqua c-c-ca-calda…”

“Era proprio un bel sogno.”

“S-sì, hai r-ra-raagione. P-p-però st-stavo p-p-pensando c-che si p-po-potrebbe r-r-realiz-zare.”

“E come?”
Smettendo di drogarci.

Takanori era rimasto completamente spiazzato. “Cos…”
“Sì. C-ci s-s-sto p-pe-pensando s-s-seriam-mente, Taka.” e qui aveva finito di vestirsi, rimanendo immobile di fronte a lui. “N-non c-credo d-di a-a-aver bi-bi-bisogno d-di lei. N-non p-più. L’unica d-droga d-di c-cui ho b-b-bisogno s-sei tu.

Takanori arrossì. “Aki, smettila.” bisbigliò.

“S-s-sono sin-sincero. E po-potremmo a-avere t-t-tutto que-questo s-se s-s-met-tess-simo. P-pensaci: s-starem-mo be-ene en-entrambi, e a-a-avremmo co-co-così t-tanti s-s-soldi che n-non sa-sapremmo che far-farcene. E po-po-potremmo m-m-mangiare t-tutto q-quello che vo-vorremmo, e… N-non lo s-so, s-sarà bel-bellissimo. N-ne sono si-sicuro.”

“E potremmo avere davvero quel letto enorme di cui parlavi prima.”
“S-sì, se l-lo vu-vuoi.”
“In stile occidentale. Con le lenzuola di seta nera.”

“V-va bene.”

Quel gioco piaceva a Takanori, che ridacchiando, lasciò correre la fantasia. “E potremmo prendere una di quelle lampade dalla luce regolabile, da mettere proprio sopra il letto.”
Akira godeva di quella felicità, se ne nutriva costantemente. “S-s-sì, es-esatto.”
“E sai cosa mi piacerebbe avere?”
“Co-cosa?”
“Fogli e matite per riprendere a disegnare. Mi manca così tanto farlo…” Negli occhi di Takanori ci scorse la paura. Ne aveva molta anche lui, ma questo non riusciva a fermarlo dal voler realizzare il sogno che aveva. “E il Sumidagawa? E i nostri amici?” chiese poi, in un filo di voce.

Akira fece spallucce. “N-non lo so. E f-f-franca-m-mente, non m’im-importa. Vo-voglio p-pensare a n-noi, ora. D-d-devi so-solo dirmi s-s-se se-sei d’ac-accordo. S-se non l-lo s-sei, n-non im-importa. Lo s-s-sai che n-no-on v-v-voglio co-co-costrin-n-gerti a f-f-fare una c-c-cosa c-che non v-v-vuoi.”

Takanori ci rifletté un secondo. Poi annuì. Akira si mise in ginocchio di fronte a lui, sul futon, per guardarlo meglio. “S-s-sei si-sicuro?”
“Sì.”

E allora lui, alzando una mano, gli porse il mignolo. Takanori lo strinse con il suo.

Guardandosi negli occhi, se lo giurarono in silenzio.

Il futuro non poteva essere più luminoso di così.

Ma la retata distrusse tutti quei delicatissimi sogni. 

 

***

 

Quel giorno pioveva. 

Il lavasecco era stranamente pieno, e mentre Yutaka si destreggiava con i clienti, lui stava compilando fattura dopo fattura, non accorgendosi quindi di una persona dall’aria emaciata che era entrata nel negozio proprio in quel momento, mettendosi educatamente in fila per il suo turno. E mentre la fila scorreva, e lui distribuiva fatture accettando con educata gioia il denaro in ricambio, il ragazzo emaciato venne di fronte al bancone e i loro sguardi si scontrarono.

Lo riconobbe immediatamente.

I tempi in cui era stato host erano ormai andati, notando i capelli rasati a zero e che la bellezza che un tempo lo accompagnava era sfiorita, lasciando però quella grazia che aveva sempre contraddistinto i suoi lineamenti.

Dovette portarsi le mani al viso. “Kouyou…”

E l’altro non ci poteva credere nemmeno lui, pronunciando il suo nome in un bisbiglio.

Si abbracciarono, fortissimo nonostante il bancone a separarli. 

Sentì le lacrime rigargli le guance, intuendo come il ritorno dal passato di Kouyou fosse solo uno dei tanti segni che continuavano a ricordargli che anche se lo voleva con tutta l’anima, non avrebbe mai potuto chiudere davvero con il passato. 

Si separarono solo per chiedersi se andasse tutto bene. 

“Oh, io bene, davvero bene, Kou-kun… Aspetta, aspetta; non è finita qui.” gli disse, pullulando di emozione, chiamando quindi Yutaka a gran voce, vedendo ancora più emozione formarsi negli occhi di Kouyou. E quando infatti si rividero, mentre Yutaka emergeva dalla stanza delle lavatrici, si riconobbero, si strinsero, piansero.

“Che ne è stato di te?” chiese Yutaka, tenendo il vecchio amico sotto braccio. 

Lui arrossì, con un mezzo sorriso. “Ho finalmente avuto la mia vendetta su mio padre. Dopo essere scappato, quella notte, senza essere braccato, ho girovagato per un po’ senza sapere che fare. D’altronde, lavoravo comunque per un host club gestito dalla Yakuza, sapevo che non sarebbe stato facile destreggiarmi da quel casino. Così per il momento decisi di presentarmi in casa così com’ero, in palese astinenza e completamente sfiancato. Quasi non mi riconobbero. Ma dissi a mio padre tutto quello che avevo fatto finora, nel minimo dettaglio. Il suo sguardo pieno di vergogna era esattamente ciò che volevo.”

“E poi che hai fatto?” Era sinceramente interessato.

“Bé, innanzitutto ho dato le dimissioni dall’host club. Per mia fortuna ero l’ultimo interesse dei tizi della Yakuza; a quanto pare avevano altro a cui pensare che prendersela con un ragazzetto qualunque che abbandonava un loro locale. Quindi non mi è successo nulla di male. Poi, con l’aiuto economico di mia madre, mi sono chiuso in riabilitazione. Nel frattempo, incoraggiate da quello che avevo fatto, le mie sorelle hanno deciso di aprire un atelier di abiti da sposa.”
“Davvero? Ma è fantastico!”
“Sì, ed eccomi perché sono qui. Di solito io sto in negozio, ma oggi Emi-chan non si sentiva bene ed è rimasta a casa, quindi mi è stato affidato il compito di venire a recuperare un vestito che lei vi ha consegnato qualche settimana fa.”
“Ah, ma quindi siete voi quelli del vestito rovinato dal trucco di una cliente! Non avrei mai immaginato che quella donna graziosa che viene spesso sia tua sorella!” esclamò Yutaka, indirizzandosi quindi all’enorme appendiabiti per ritirare ciò che Kouyou chiedeva.

“Sì, è lei. È più grande di me di due anni.”

Tenendo l’abito perfettamente pulito fra le braccia, Kouyou si aggiornò sulla loro di vita.

Takanori dovette ammettere della fine di Akira, lo fece con una certa tranquillità all’esterno, ma dentro di sé il dolore era rimasto sempre uguale. Non ci poteva davvero fare nulla. 

Dopo questa rivelazione, gli occhi di Kouyou si riempirono di lacrime.

Kami. E io che speravo che almeno voi…” disse, ma s’interruppe per schiarire la voce. “Il mio povero Aki-kun. Gli volevo davvero bene. Non riesco a credere sia morto.” Schiarì di nuovo la voce, decidendo di tacere, asciugandosi in fretta una lacrima.

“Mi dispiace, Kou-kun.” disse, commuovendosi al dolore di Kouyou.

“No, a me dispiace, Taka-kun. Davvero. Non so quanto puoi essere stato male in questi anni.”

Prima di andarsene, Kouyou lo riabbracciò con più forza di prima.

Per la perdita di Akira, per la perdita di quella luce preziosa che aveva illuminato il giardino del Sumidagawa. E se ne andò, augurandosi di rivedere lui e Yutaka proprio su quello stesso prato il giorno della riapertura.

 

***

 

Akira capì nel momento esatto in cui s’iniettò dell’eroina endovena che sarebbe andato in overdose. Ma non disse niente, impaurito dal spaventare Takanori. E quindi si sentì sprofondare, non rendendosi conto che l’avrebbe spaventato comunque.

Quando riaprì gli occhi nel leggero fiume della coscienza, dopo aver ricominciato a provare del vago dolore e sentito una voce lontana che lo chiamava, lo vide come mai l’aveva visto prima. Impaurito, nel panico totale, il volto macchiato di lacrime pesantissimi e orribili. L’ultima cosa che sentì prima di scivolare nell’incoscienza fu il cuore, che gli doleva come mai. Non poté nemmeno rassicurarlo che stava bene.

E si svegliò in ospedale. 

Una dolce infermiera al suo capezzale prese subito nota di tutto ciò che le serviva per decretare come stava. Chiese immediatamente di Takanori, ma lei le disse che purtroppo non ne aveva idea. Nessuno con quel nome era stato ricoverato.

E fu allora che la tremenda, spaventosa certezza che Takanori lo stava sicuramente credendo morto lo venne a trovare. Non poteva essere altrimenti. Ricordava quel sprazzo di coscienza, chissà quante ore prima. Takanori non aveva nessuna sicurezza sul fatto che fosse sopravvissuto. 

E mentre quella stessa infermiera lo spediva a calci nel sedere in riabilitazione senza avvertire la polizia, probabilmente rischiando il suo lavoro, Akira era certo che finché non lo avrebbe trovato, Takanori avrebbe creduto in una terribile bugia.

E come se non bastasse, la prima volta non aveva funzionato: appena uscito, così disperato nel ritrovare Takanori per assicurargli che era vivo, che stava bene, che non era morto sul pavimento freddo del bagno del Sumidagawa, la notte della retata, si era infilato di nuovo nel labirinto oscuro di Tokyo, credendo di poterlo ritrovare lì. Ma sbagliò completamente strada ritornando di nuovo a cadere nelle fauci appuntite di ciò da cui nemmeno sette mesi prima voleva scappare. Per lo meno se ne accorse, e quando lo fece tornò sui suoi passi. Decise di guarire davvero stavolta, e solo poi avrebbe cercato Takanori. E qualcosa gli diceva che non l’avrebbe trovato nei luoghi maledetti da cui erano venuti.

La seconda volta fu quindi infinitamente più difficile della prima. La certezza della convinzione di Takanori lo spingeva a voler fare più in fretta, sapendo che non aveva tempo da perdere, che il ragazzo che amava era là fuori da qualche parte, convinto che fosse morto. Ma per fortuna dall’altra parte c’era chi gli invitava la calma. Doveva prima pensare a sé stesso. E si mise d’impegno per mettere per la prima volta sé davanti al resto.

Si chiese spesso se le quattro mura in cui era rinchiuso erano le stesse che avevano ospitato Takanori.

E quando ne uscì, un ragazzo nuovo solo in parte, gli venne dato un appartamento e un piccolo lavoretto al Family Mart. Ma forse ricordando con quanta accettazione era stato accolto la prima volta, decise di ritornare nella losca fonderia dove tutto era cominciato.

L’omone burbero dall’altra parte della scrivania era sempre lo stesso e lo riconobbe immediatamente. Gli chiese che fine avesse fatto, perché in tutto quel tempo non si fosse fatto sentire. Gli disse addirittura che la sua padrona di casa aveva telefonato lì per sapere dove fosse l’inquilino scomparso, prima di dover procedere con lo sfratto per gli innumerevoli affitti non pagati.

Akira ammise tutto.

Lui capì. E lo riassunse immediatamente, in poche parole.

Gli disse che la signora era stata così gentile da infilare tutta la sua roba in uno scatolone, che lui aveva ritirato e che custodiva nella fabbrica, in caso fosse tornato. Akira pensò che sinceramente non se lo meritava tutto quell’affetto da un estraneo qual era il suo capo. 

Ma fu indubbiamente una toccasana per lui tornare in quel piccolo mondo che l’aveva trattato bene, scoprendo nel vecchio armadietto che gli era una volta appartenuto qualche sostanza rimasta a prendere polvere. Se ne liberò senza il minimo ripensamento.

E recuperati i suoi vecchi vestiti, nel frattempo usciva, disperatamente cercando Takanori, sentendo i tentacoli neri della bestia sfiorarlo ma non inghiottirlo, non di nuovo, mai più. 

Quel viaggio lo portò a conoscere gente nuova, a trovare un paio di ragazzi che gli fecero di nuovo perdere la testa, ma mai come prima. Mai come Takanori. Era per lui l’unità di misura su cui confrontare altri, ritrovandosi molto spesso a pensare a lui nei momenti meno opportuni, soffocando a fatica quel nome che amava fra le labbra durante un orgasmo di cui poi si sentiva tremendamente in colpa. 

Dopo pochi mesi di lavoro, aveva guadagnato abbastanza da permettersi di abbandonare l’appartamento affidatogli per prendersene uno tutto suo, grande e luminoso, come l’aveva sempre immaginato. E pian piano cominciò ad arredarlo, a comprare abiti nuovi, effettivamente a migliorarsi. 

Venne a sapere della riapertura del Sumidagawa un venerdì come gli altri, uscendo con un nuovo amico che si era fatto, a cui aveva raccontato tutto e che lo aiutava nella ricerca di Takanori, la quale era rimasta ancora completamente infruttuosa. E guardando il poster sapeva che c’era solo un posto al mondo dove l’avrebbe ritrovato, il posto dove tutto era cominciato. 

Sì, sapeva che lo credeva morto, ma dentro di sé sentiva che Takanori avrebbe voluto per lo meno ritrovare Yutaka, Kouyou e Yuu; la stessa cosa che si augurava lui. Gli mancavano i suoi amici, certo, ma non come gli mancava Takanori. 

E forse finalmente, dopo cinque anni, la sua ricerca avrebbe finalmente trovato conclusione.

 

***

 

Alla fine decise di andarci.

Non tanto per farsi del male, cosa che sapeva sarebbe successa inevitabilmente, ma per rivedere Yuu. Sperava intensamente almeno lui ci fosse. Il vecchio migliore amico che gli aveva salvato la vita tante di quelle volte da aver perso il conto era l’unica cosa che in quel momento avrebbe avuto riavere con sé. Non voleva nemmeno pensare a quanto sperava che Akira tornasse in qualche modo. 

Comunque, aveva deciso di portare anche Ryuichi, per fargli vedere chi e dove era stato. 

Yutaka fu felicissimo della sua decisione, e anche Kouyou. Lui non ne era per nulla convinto. Aveva in verità paura di passare l’intera serata ad illudersi.

Fu Hoshiko ad offrirgli una chiave di lettura che non aveva considerato, mentre si godevano il calore estivo sulla minuscola terrazza del loro appartamento, in solitudine. Con una mano a protezione di un minuscolo pancino che a malapena affiorava dalla maglietta che indossava, gli disse “Forse tornare al Sumidagawa è l’ultimo atto di una lunga chiusura di un capitolo importante. Sai, nulla mi potrà far cambiare idea sul fatto che tu e Akira eravate uniti dal filo rosso, ed è proprio quel filo che ancora vi tiene uniti. Sì, oltre la morte. L’amore può fare anche questo, io ne sono convinta. Il tornare dove tutto è cominciato, Taka-kun, è l’unico modo per recidere con decisione quel filo, per lasciare veramente Akira riposare in pace e per poter ricominciare la tua vita.”

E la cosa aveva perfettamente senso per lui.

Quindi man mano che si avvicinava il grande giorno, si sentiva un pochino più speranzoso. La prospettiva di finalmente liberare Akira dalla sua costante nostalgia e mancanza gli metteva buon umore. E in men che non si dica, la riapertura arrivò.

Lui, Yutaka, Kouyou, Ryuchi si erano organizzati alla perfezione: il primo alle cinque del pomeriggio in punto sarebbe partito di casa insieme agli altri due per andare a prendere Kouyou e quindi dirigersi verso la loro destinazione. Scherzando, Yutaka sottolineò che ricordava ancora la strada perfettamente a memoria, imboccando un’arteria stradale abbastanza trafficata. E durante il viaggio raccontarono a Ryuichi quanto fosse speciale quel luogo, che ci combinarono. Lui era silenzioso, studiava la strada, lasciando che ogni piccolo ricordo lo cullasse, stringendo la mano di Ryuichi. Era arrivato il grande giorno. Ancor più di quel pellegrinaggio al tempio, quello era davvero il momento di cambiamento della sua vita. 

Ma il Sumidagawa non era più lo stesso. Stranamente nessuno di loro se lo aspettava.

Completamente ristrutturato, le siepi ben curate, dentro era un locale vero, un bar e pub con piccola cucina, arredato con gusto in chiave moderna, una prevalenza di grigi che lo rendevano estremamente accogliente. L’enorme prato era stato falciato di fresco, ed erano state installate piccole luci per illuminare gli avventori che si appartavano sui piccoli tavolini disposti sull’erba, assieme a candele alla citronella per allontanare insetti indesiderati. L’unica cosa che era rimasta, segno immutabile di ciò che era stato quel luogo, erano le altalene. Ancora appese agli alberi, sempre loro, fatte con vecchie corde e legno recuperato chissà dove. Dei bimbi vi si dondolavano gioiosi mentre i genitori li osservavano poco lontano.

Lo prese come un segno. Che quel Sumidagawa, quello che pensava di ritrovare, viveva ora solo nei suoi ricordi. E capì perfettamente cosa intendesse Hoshiko qualche settimana prima.

Il capitolo si stava chiudendo. Stavolta davvero.

E concordando con Yutaka che in effetti non era male neanche così, i quattro si accomodarono ad un tavolino all’esterno, prima di guardarsi intorno e riconoscere molti volti familiari. Dovettero rialzarsi per dispensare abbracci e saluti gioiosi. Quella notte non aveva risputato solo loro.

Uno di questi era stato un grande amico di Naoji, che, dopo aver riabbracciato i tre, gli aggiornò di quel poco che sapeva. Innanzitutto, la retata era stata frutto di una soffiata fatta mesi prima proprio da qualcuno di loro, arrestato per possesso di droga e costretto dalla polizia a cantare. Dopo mesi di appostamenti in borghese, avevano scelto la sera perfetta per colpire. Naoji era morto di overdose due anni prima. L’unico del gruppo che aveva continuato a vivere nelle viscere di Tokyo era stato lui, per poi morirne fuori da un locale gestito dalla Yakuza. Yuu invece era in prigione e nessuno sapeva con precisione quanto dovesse scontare per spaccio di sostanze illegali. Proibitogli anche quell’ultimo desiderio, Takanori tirò un profondo respiro, tornando insieme agli altri al loro tavolino e bevendo subito un sorso di Cola Cola, sentendo un nodo formarsi alla gola. 

Era solo l’ennesima delle tante delusioni della sua vita. Che ci faceva lì?

Era il momento di essere sincero: sapeva che non avrebbe mai potuto davvero nascondere in un cassetto tutto questo. Sarebbe sempre stato il migliore amico di Yuu, chiuso in chissà quale prigione a marcire da qui all’eternità. Il solo pensarci gli fece dolere il cuore. E gettando lo sguardo su un preciso angolo di prato, accanto a delle precise altalene, si figurò l’immagine di un grande libro, sulle cui pagine era stato posato un pesante fermacarte. Provava con tutte le sue forze a chiudere il libro, ma il fermacarte glielo impediva, e se cercava di toglierlo, questo era troppo pesante per muoverlo anche solo di un centimetro. Quel fermacarte era Akira. Finché non sarebbero tornati a casa, avrebbe silenziosamente pregato che tornasse. Che non fosse davvero morto. Cosa che in effetti stava facendo da quando erano arrivati.

Si sentì in colpa.

Ma non aveva mentito quando al tempio aveva detto che l’avrebbe amato per sempre

Kouyou lo risvegliò dal suo vagabondare, picchiettandogli la mano che ancora stringeva il bicchiere di Coca-Cola. Indicò qualcosa oltre le sue spalle, verso la vecchia porta a vetri che tanti anni fa rimaneva sempre aperta; vide l’incredulità sul suo volto e sentì un sottile filo di speranza che mai era morto dentro di sé riprendere forza. Lo stesso filo di speranza che lo stava facendo pregare da qualche ora.

E si voltò.

Mai avrebbe potuto immaginare.

Mai avrebbe pensato di riconoscere Akira in un ragazzo sano, dai capelli inchiostro rigogliosi e luminosi, lunghi fino alle spalle; un morbido maglioncino color crema a cingere la sua figura, jeans puliti e scarpe da tennis. 

La realizzazione fu immediata.

Akira non era morto sul pavimento freddo del bagno del Sumidagawa, la notte della retata. 

Akira era vivo.

E non sognando nemmeno di nascondere le lacrime sul volto, si alzò, camminando piano, temendo che la visione potesse svanire, credendo che fosse solo un’allucinazione. 

“Ciao, Taka.” lo sentì dire, le lacrime gli bagnavano il viso mentre pronunciava quel soprannome che era rimasto suo, e in sua assenza nessuno gli aveva rubato.

Fu troppo. Si gettò fra le sue braccia, che lo accolsero immediatamente, e riscoprì con tutta l’emozione del mondo quanto fosse semplicemente perfetto essere abbracciato da Akira. 

Singhiozzando, gli disse che lo credeva morto.

“L-lo so, lo s-so, Taka.” gorgogliò Akira, stringendoselo addosso ancora più forte. “Mi d-d-dispiace, mi dispiace c-c-così tan-tanto….”

Avrebbe voluto dirgli che non doveva dispiacersi, ma non ci riuscì, la voce gli morì in gola. Stretto in quell’abbraccio che era stato disegnato apposta per accoglierlo, risentendo il calore di quel corpo che l’aveva inseguito per mille notti, capì perché quel filo rosso era impossibile da recidere.

Era ancora perdutamente, totalmente e ciecamente innamorato di lui.
 

***
 

Non si stupì che avesse trovato un ragazzo. In fondo l’aveva fatto anche lui, in passato. 

Era solo felice di essere finalmente riuscito a dirgli che non era morto e che in tutti quegli anni non aveva fatto altro che cercarlo. Oltre che di aver riabbracciato Yutaka e specialmente Kouyou, una maschera di lacrime di gioia. Con Takanori seduto alla sua destra, una mano posata sul suo braccio come se avesse paura che potesse d’un tratto sparire, aveva ascoltato le storie degli altri, aveva quindi raccontato tutta la sua. Anche che l’aveva cercato ovunque.

“N-non hai i-idea di q-quanti Takanori M-matsumoto e-esi-esistano sulla faccia d-del Giappone.” gli disse, tenendosi stretti i suoi occhi ancor più belli di quanto ricordasse.

Takanori fece una mezza risata amara. “Tu non hai idea di quanti Akira Suzuki esistano al mondo!” 

Ne risero insieme. 

Allora Akira realizzò che si erano cercati per tutti quegli anni senza mai trovarsi, ma era stato il Sumidagawa a riunirli. Pensò che era una cosa dolcissima. Come se un cerchio si fosse chiuso.

Lui gli rivelò che aveva scoperto che l’abuso di droghe aveva in effetti peggiorato la sua balbuzie, e da quando era pulito parlava decisamente meglio. Takanori invece gli aveva mostrato il suo tatuaggio, e lui era arrossito completamente. Non poté trattenersi dal posare una carezza con il pollice sul suo stesso nome, impresso in quella pelle tanto preziosa.

Dovendo salutare tutti verso mezzanotte per il turno di straordinari in fonderia il giorno seguente, Takanori lo abbracciò di nuovo. E lasciò che continuasse a farlo, avendone lui per primo il bisogno, confortato dalla sua presenza, sapendo che per lo meno erano tornati ad esistere nello stesso sprazzo di realtà. Ricordandosi ancora di quanto era pazzo di lui.

“Non voglio più perderti, Aki. Ti prego, rimaniamo in contatto.” Takanori lo disse con voce mozza, come se avesse avuto davvero paura che quella fosse l’ultimissima volta in cui si sarebbero visti.

“Ma c-certo, T-taka.” gli disse, pescando poi da una tasca dei jeans carta e penna e segnandoci il suo numero di telefono. Takanori glielo rubò dalle mani per segnare i suoi: quello della casa di Yutaka e quello del lavasecco.

“Puoi venirmi anche a trovare in negozio.” La speranza gli brillava negli occhi.

“N-non voglio d-disturbarti mentre l-lavori.” si giustificò. Per qualche motivo provava pena per il povero Ryuichi a pochi passi da loro, il volto serio. Osservava la scena da spettatore impotente.

“Tu non disturbi mai.” E lo abbracciò di nuovo, come a volersi davvero assicurare che era concreto e non un’immaginazione effimera.

“E poi, po-possiamo s-sempre rivederci q-qui.” gli propose, lasciandogli una discreta carezza sulla schiena. “Che ne d-dici?”
Takanori sciolse l’abbraccio. Lo guardò dritto negli occhi. “Non credo tornerò.”

Il suo sangue divenne ghiaccio. “P-perché?”
“Bè…” e qui abbassò il viso, improvvisamente timido. “Vorrei chiudere con tutto questo, Aki. Ho sofferto abbastanza.”

Akira pregò con tutto sé stesso che questo non includesse ciò che erano stati.

Separarsi di nuovo, nonostante sapessero che si sarebbero rivisti, fu difficile. Cinque ingiusti anni di lontananza remavano contro di loro, dato tutto quello che c’era fra di loro nel momento in cui si erano separati. E che non appena si rividero ritornò in prima fila nel cuore di entrambi.

Lo lasciò al Sumidagawa, percorrendo a piedi il lungo tratto che lo separava dalla stazione della metropolitana che aveva preso più volte anche in passato. Un cerchio per lui si era chiuso, dato che la sua ricerca lunga cinque anni si era conclusa. Ma ora che cosa sarebbe successo?

Non lo sapeva.

Ma almeno Takanori era tornato nella sua vita.

 

***

 

“Quindi era lui, Akira. Quello del tatuaggio.” La voce di Ryuichi lo colse completamente di sorpresa mentre si avvicendava a preparare la colazione, tanto che prese uno spavento non indifferente. Lui non gli chiese scusa, quindi capì che voleva confrontarlo. Subito dopo si sentì diventare di ghiaccio. Stavolta non aveva davvero scampo.

“Sì.” disse soltanto.

“Mi avevi detto che era morto.”
Non poté evitare di sentire un certo astio nel suo tono di voce. E, onestamente, ne aveva tutte le ragioni. “Lo credevo anch’io fino a ieri notte, Ryu-kun. Non so se ci sto credendo ancora.” Era la sincera verità. Dopo aver trascorso la notte a casa di Ryuichi, era rimasto sveglio tutta la notte ad analizzare ogni minimo fotogramma della serata. Ancora non riusciva a realizzare che Akira era vivo. Vivo, vegeto e in buona salute. 

“Perché non me ne hai mai parlato?” Il tono era accusatorio. Capì che non aveva altra scelta che voltarsi verso di lui.

“Perché un anno prima di conoscerti ho giurato di lasciarlo riposare in pace. Non l’avrei più disturbato per alcun motivo.” Era di nuovo la verità. Ma la rabbia malcelata sul volto di Ryuichi gli fece intendere che non gli stava credendo fino in fondo. Non poté biasimarlo.
“Quindi non era semplicemente un tuo caro amico.”

“No. No, non lo era. Siamo stati insieme. Sono stati gli otto mesi più belli della mia vita, non te lo nascondo.” Se doveva dire tutta la verità, allora era meglio metterla subito in campo. “La notte che ci ha separati per colpa della retata della polizia è coincisa con la sua overdose. Sapevo cosa fare, in fondo noi tossicodipendenti abbiamo salvato molti nostri amici… E spesso siamo stati salvati a nostra volta. Io credevo davvero di averlo visto morire sul pavimento del bagno, e invece, bé… Non è andata così.” Era meglio non aggiungere un per fortuna che sarebbe suonato decisamente troppo presuntuoso, quindi non lo fece.

“Capisco. E vi siete conosciuti al Sumidagawa?”
“Sì. Io allora stavo con un altro ragazzo, che lasciai per altri motivi… Akira-san era uno di quelli, ma solo in minima parte.”

“Ho capito.”

“Ci siamo amati moltissimo, Ryu-kun. Così tanto che eravamo sicuri che a collegarci ci fosse il filo rosso, sai. Così tanto che avevamo deciso poco prima della retata di disintossicarci per vivere la nostra storia come si deve.”

“Bé, detto da due tossici direi essere una cosa seria.”
“Lo era.”
“E ora cosa provi per lui?”
“Solo molto affetto. Non posso negare chi sia stato per me, Ryu-kun. Ma ora ho te, e considero la nostra storia molto importante.” Era una versione della verità, lo sapeva, ma era già abbastanza nei guai fino al collo così.

“Lo sai, non so se crederti. Questa è la seconda volta che mi nascondi qualcosa.” Il tono di Ryuichi era molto serio.

Abbassò lo sguardo. “Sì, e hai perfettamente ragione. Dovresti solo essere nei panni per capire cos’ho passato. Ho una lunga lista di motivi per cui vorrei chiudere con il passato, il Sumidagawa e tutto il resto, ma… Ho capito solo ieri che non posso farlo. Non del tutto. E se potessi tornare indietro, ti racconterei subito tutto dall’inizio.”
“Anche di Akira-san?”
Specialmente di Akira-san. Era una delle primissime cose che avresti dovuto sapere.”

Ryuichi tacque. 

Lui rimase fermo ad attendere una sua reazione.

“D’accordo…” disse, e allungò le braccia verso di lui.

Takanori quindi lasciò il ripiano della cucina per stringersi a lui, cercando di non notare alcuna differenza.

 

***

 

Una volta a settimana Akira andava al lavasecco per rivedere Takanori, quando i turni di lavoro glielo permettevano. E ogni volta si riabbracciavano forte, stringendosi l’un l’altro come se ne dipendesse la vita. La sensazione di quel corpo così amato sul suo era impareggiabile.

Per il resto si aggiornavano sulle rispettive vite; Akira chiedeva sempre di Ryuichi, come se volesse sondare se fra loro andasse tutto bene, ma non con intenzioni maliziose. Insomma, se non poteva riaverlo voleva essere certo che almeno fosse fra le braccia di una persona di cui fidarsi. Takanori invece gli chiedeva del lavoro, come un tempo. E ogni volta, nel susseguirsi dei loro discorsi, si aggiungeva un piccolo frammento di quei cinque anni passati lontani alla narrazione. 

Akira sapeva una cosa sola: ogni volta che lo rivedeva se ne innamorava di nuovo.

Non c’era altro modo di dirlo. 

E la sua frustrazione cresceva, anche se non lo voleva, perché esattamente come cinque anni prima non voleva mettere il dito in una relazione stabile. Takanori era felice, lo vedeva, e si accorgeva di come entrambi fossero impegnati il più possibile a giocare il ruolo dei cari amici. Ma far di loro c’era un argomento molto difficile da affrontare e nessuno dei due voleva farlo, specialmente Takanori. E quell’argomento era che i loro sentimenti, in quegli anni, non erano mai cambiati. Anzi, con il rivedersi si erano ovviamente rafforzati. 

La sua frustrazione era che lo rivoleva per sé. Non c’era ormai più niente a separarli, né la droga né retate della polizia. Voleva amarlo di nuovo, dargli sé stesso e tutta la sua anima. 

E mentre rimuginava durante le sue notti insonni, nonostante si fossero decisamente ridotte, decise che stavolta avrebbe lottato per ottenere ciò che voleva. 

Quindi, quando andò a trovarlo quel giorno, l’ironia volle che Yutaka era rimasto a per una visita ginecologica di Hoshiko. Intavolata una tranquilla conversazione con lui, affrontò il discorso completamente tabù. 

“S-sai, Taka, vo-volevo parlarti di u-una cosa molto i-importante.”
“Cioè?” chiese Takanori, completamente all’oscuro.

“I m-miei sentimenti."
Lo vide impallidire.

“L’averti ri-ritrovato conferma quello c-che ho sempre so-sospettato, cioè… Che ti amo. Ti ho sempre amato. Ti amerò sempre. N-non posso mentirti, non posso m-mentire a me stesso. E… Per quanto m-mi stia sf-sforzando, il ruolo dell’amico n-non mi si ad-addice. Io non s-sarò mai solo un tuo a-amico. Mai. La s-storia che ci sta alle s-sp-spalle è troppo importante, e ciò che s-sento per te m’im-impedisce di es-esserlo.”

Takanori lasciò andare qualche silenziosa lacrima di commozione. “Aki…”

“Io n-non voglio però ro-rovinare la tua s-storia con Ryuichi-san. So che s-sei felice con l-lui e non sono in gr-grado di p-proibiti la felicità. Ma… N-non ce la f-faccio più, Taka, da-davvero. Sei ri-ritornato nella mia v-vita, voglio che tu c-ci rimanga. Ma voglio a-anche amarti.  Non posso più farne a m-meno, ca-capisci?”

Takanori scosse piano il capo. “Aki… Anch’io ti amo. Ti ho sempre amato. Ti amerò sempre.”

Sul viso di Akira si formò un minuscolo sorriso, il cuore riscaldato da quella confessione che sperava tanto di sentire. 

“Ma ho paura.”

“P-paura di cosa, Taka?” si avvicinò di più a lui, ma Takanori fece un passo indietro.

“Siamo cambiati. Non sono più quello che ero cinque anni fa. Tu non sei più quel ragazzo di cui mi ero innamorato allora. E se…” Lo guardò dritto negli occhi prima di continuare. “E se ci mettessimo insieme di nuovo e fossero le nostre stesse differenze a separarci? Io non voglio più perderti, Aki. Non sono più in grado di accettare un’altra separazione.” 

Akira notò immediatamente che non aveva nominato nemmeno una volta il problema di Ryuichi. Ma disse: “Io c-credo che ci s-stiamo di nuovo co-conoscendo bene, e se p-posso dirti la verità, n-non credo che tu sia ca-cambiato così tanto da a-allora…”
“Come fai ad esserne così sicuro? Ci vediamo una volta a settimana da un mese e mezzo!”

“Quindi tu s-s-saresti disposto a f-f-far finta di n-no-non provare nu-nulla per p-paura di per-perdermi?”
“Sì! Sì, Aki! Ho sofferto abbastanza senza di te, non ho alcuna intenzione di ripetere l’esperienza.”

Se lo strinse fra le braccia, vedendo quanta paura avesse, sentendosi in colpa per aver tirato fuori l’argomento. Sentì Takanori aggrapparsi a lui, il cuore gli dolse. “D’accordo.” mormorò piano, cullandolo con dolcezza. “Non p-piangere, Taka. Ri-rispetto completamente la tua p-paura e la tua storia co-con Ryuichi. Non insisterò o-oltre. Ma, se dovessi c-cambiare idea…” e lasciò che la frase gli morisse sulle labbra. 

Rimasero stretti l’un l’altro in mezzo al negozio, impaurito uno e sconfitto l’altro.

Certi entrambi che quello che provavano l’uno per l’altro però era vivo e vegeto.

 

***

Yutaka capì immediatamente che aveva qualcosa che non andava appena tornò a casa. Ma aspettò prima di indagare, sperando che fosse una cosa momentanea. Ma invece di migliorare lo vide peggiorare, e mentre stavano chiudendo il lavasecco qualche giorno dopo Yutaka gli chiese gentilmente se stesse andando tutto bene. 

Lui crollò come un castello di carte, scoppiando in pianto disperato, rifugiandosi nelle braccia del socio e amico.

Gli raccontò della discussione con Akira, ribadì che aveva davvero paura. “Ma ogni volta che ci riabbracciamo ritorna in me quella convinzione che il corpo di Akira sia stato pensato apposta per custodire il mio, Yuta-kun.”

“Taka-kun, ammettilo: sei ancora innamorato di lui.”

“Innamorato di lui?! Che io e lui siamo legati dal filo rosso è una certezza matematica. Siamo fatti l’uno per l’altro. Lo sapevo cinque anni fa, lo so ora. Ma non posso non sentirmi in colpa nei confronti di Ryu-kun. Gli voglio davvero bene. Finora abbiamo passato dei bellissimi mesi insieme, ed è davvero un bravo ragazzo. Completamente differente da certa gentaglia che ho frequentato prima di conoscete Akira…”
“Direi che quella lezione l’hai imparata.”
“Oh, assolutamente. Ma Aki mi ha detto di amarmi, l’altro giorno, e io non posso fare altro che credergli… Non so che fare, Yuta-kun.”

“E tu che gli hai detto?”
“La verità, ovviamente. Che lo amo anch’io. L’ho sempre amato.”

Yutaka sospirò pesantemente. “Temo tu sappia esattamente cosa devi fare. Personalmente, credo che la storia con Ryuichi sarebbe valsa solo se Aki-kun fosse stato davvero morto.”

Rimase in silenzio, in ascolto.

“Ma non ora, Taka-kun. Akira è vivo, è ancora perdutamente innamorato di te. E tu di lui. Io e Kou-kun l’abbiamo visto immediatamente, non appena vi siete ritrovati al Sumidagawa.”

“Ma se tutto crollasse… Stavolta ci separeremo davvero. Non posso farlo. Non posso perdere Aki per davvero. Ne morirei. Piuttosto che si avverasse quest’eventualità, preferirei mille volte tenere quello che sento in un luogo segreto.”
“E soffrire per tutta la vita?”

“Sì.”

“No, Taka-kun. Io invece sono profondamente convinto che valga la pena rischiare. E se non dovessero andare come dici tu? Quanto e cosa guadagneresti? Pensaci bene.”
Non disse nulla, paralizzato dalla paura.

“Te lo dico con tutta la sincerità possibile: se decidessi di rischiare, sarebbe solo l’inizio di qualcosa di straordinario. E lo sai, lo sai anche tu.”

Passò parecchie notti insonni dopo quella discussione. Si chiese quale fosse la differenza principale fra Ryuichi e Akira. E la risposta gli arrivò immediata: amava Akira, voleva bene a Ryuichi, Aveva senso prendere in giro una persona per non ferirla?

E quindi lasciò Ryuichi.

Non poteva prenderlo giro. Non lo voleva. Non se lo meritava. 

Ryuichi ovviamente l’accusò che il ritorno di Akira aveva distrutto tutte le loro possibilità, e ora era certo che gli avesse nascosto molto di più di quello che gli aveva detto. In breve, gli diede del bugiardo. Takanori non si aspettò nulla di diverso, quindi non disse nulla, andandosene dal locale dove avevano cenato, pagando il conto per entrambi come ultimo segno di scuse.

Gli aveva spezzato il cuore e se ne sentiva in colpa, ma non poteva più mentire a sé stesso.

Era disposto a dare ad Akira una seconda possibilità.

D’altronde non voleva altro che questo: essere di nuovo suo.

 

***

 

Akira andò a trovare Takanori quel venerdì. Lo trovò al suo solito posto dietro il bancone, Yutaka invece si stava dirigendo verso la stanza delle lavatrici portando fra le braccia un intero carico di roba. Una volta che sparì oltre la porta, Akira si sedette su una delle varie sedie disposte per i clienti, chiedendo a Takanori innanzitutto come stava. Lui non disse nulla, facendo il giro del bancone e mettendosi davanti a lui. Sorrideva leggermente, e Akira si ritrovò a pensare a quanto fosse bello.

“Ho lasciato Ryuichi.” disse, con un filo di voce.

Akira si sentì gelare, l’incredulità lo investì completamente. Guardò Takanori con tanto d’occhi.

“Ma ho ancora paura.”

Sospirò piano. “Sai, ci ho p-pensato. A-anch’io ho pa-paura di perderti d-di nuovo.”
Takanori rimase in ascolto. 

Akira gli prese con dolcezza una mano. “Ma ci s-sono troppo de-dentro, Taka. A-avevo una paura sp-spaventosa anche cinque anni f-fa, ma oggi co-come allora… Il mio cuore tr-traboc-c-ca di quello che se-sento. Mi-minaccia di i-inondarmi, ormai.” E senza lasciargli la mano, si alzò in piedi. 

“Quindi sei sicuro?”
“Sì. Po-possiamo provarci. V-vedremo poi. Ma-magari veramente n-non siamo così diversi c-come temi. Pro-pobabilmente basterà s-smussare gli angoli, e quello l’abbiamo g-già fatto una vo-volta; sarà f-facile farlo di n-nuovo.”

Takanori non disse nulla, annegando silenziosamente negli occhi di Akira. E lui fece combaciare le loro labbra, con dolcezza, solo un delicatissimo tocco.

E fu come se il tempo non fosse mai passato.

Takanori si staccò subito solo per stringersi a lui e singhiozzare nell’incavo del suo collo che non aveva mai dimenticato quella sensazione. “Stavo dimenticando tante cose di te, ma non questo.”

“Nemmeno io, T-taka.” gli disse Akira, vinto a sua volta dall’emozione, cercando di nuovo le sue labbra per un bacio stavolta più lungo, che divenne anche più profondo. 

Yutaka riemerse dalla stanza giusto per vederli in quell’esatto istante, e dentro di sé esultò. D’istinto pensò che finalmente la luce del Sumidagawa era tornata a brillare. Anche se non c’era più nessuno da salvare.

Nonostante fosse ancora completamente sporco dalle ore di lavoro, Akira rimase lì con loro fino all’orario di chiusura, non potendo allontanarsi da Takanori dopo quello che era successo. Passarono la serata a Tokyo, tenendosi per mano come facevano allora.

E si baciarono ancora, e ancora, e ancora.

Raggiunsero casa di Akira, dove finalmente mostrò a Takanori come aveva arredato la sua camera: esattamente come lui l’aveva immaginata cinque anni prima. Gliel’aveva promesso.

Piansero, si strinsero, si baciarono.

Fecero l’amore fra la mezzanotte e le tre del mattino su un enorme letto occidentale dalle lenzuola di seta nere, il cassetto del comodino con dentro fogli e matite era rimasto aperto accanto a loro.

 

***

 

Aveva perso qualsiasi cosa avesse avuto importanza. La sua vita era stato un susseguirsi di delusioni, una dietro l’altra: la morte dei genitori, dell’amata nonna, gli amici che lo accompagnarono per mano nel mondo della droga, i vari ragazzi che l’avevano maltrattato, la perdita di Akira. 

Ci ripensava ancora, alla notte della retata. Eppure, anche se Akira se ne stava rannicchiato dolcemente al suo fianco da tante notti, non riusciva assolutamente a trovare il momento in cui gli aveva salvato la vita. Decise che doveva essere stato quando aveva aperto brevemente gli occhi, prima che Naoji lo portasse via. Forse, quella volta, aveva lottato per la prima volta per ottenere ciò che voleva. Aveva lottato contro un destino già segnato che lo voleva sempre in posizione perdente. E per premiarlo, ora aveva una vita perfettamente normale.

La vita che Akira aveva sognato tanti anni primi, mentre gli proponeva di disintossicarsi, si era avverata. E mentre il lavasecco andava sempre meglio, Yutaka dava il benvenuto al secondo figlio, e anche Kouyou finalmente si sposava, Takanori aveva scoperto che Akira aveva avuto di nuovo ragione: non erano poi così tanto cambiati. Akira ad esempio leggeva ancora, come metodo di resistenza. Si scambiavano spesso libri e uscivano spesso a comprarne di nuovi, che poi si recensivano a vicenda. La loro sala era praticamente un biblioteca privata, di cui amici vecchi e nuovi si meravigliavano quando andavano a trovarli. Uscivano spesso a passeggiare, altro passatempo adottato da Akira. E così aveva imparato che in inverno, l’ora fra le tre e quattro e trenta del pomeriggio, prima del tramonto, era la sua preferita in assoluto. E adorava raccontare queste e altre scoperte ad un sempre interessato Akira davanti ad una tazza di tè caldo, in un piccolo bar minuscolo nascosto ad Harajuku che era diventato il loro preferito.

Litigavano ancora. Per una lavastoviglie mai accesa, per la lavatrice con i panni dimenticati da ore all’interno, perché Akira faceva troppi turni di lavoro e tornava a casa distrutto.

Ma andava tutto liscio come l’olio senza che nulla facesse da cuscinetto.

A volte aveva paura di svegliarsi e scoprire che era stato tutto un sogno.

Come quando il giorno del suo compleanno, aprendo il regalo di Akira, Takanori aveva trovato un anello.

“N-non ci lasceranno mai sp-sposarci, ma almeno p-possiamo fare f-finta.” gli disse, sorridendo con dolcezza infinita.

Aveva paura di risvegliarsi e scoprire che forse era stato tutto solo un trip troppo reale. Ogni giorno si aspettava che la vita venisse a togliergli qualcosa di fondamentale e necessario. Tipo Akira.

Ma ogni mattina, quando si alzava lui era lì, sei volte su sette con una notte insonne alle spalle. E il bacio del buongiorno non gli era mai negato.

A volte si chiedeva se la retata non ci fosse mai stata cosa sarebbe successo.

E si disse che sarebbe andata esattamente come stava andando adesso.

 
  
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