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Autore: betelgevse    07/04/2020    1 recensioni
[Hiromido/TatsuMido | lievi accenni ad altre coppie]
"Una credenza medievale vuole che alla figura femminile siano associati il male, il peccato, la seduzione lussuriosa, l’incarnazione del demonio tentatore. E gli uomini di allora si sbagliavano, si sbagliavano eccome: il diavolo non era una ragazza leggiadra, una di quelle fanciulle che ispiravano i poeti stilnovistici, e nemmeno una donna voluttuosa, dedita alla frequentazione dei postriboli.
Il demonio era un uomo sui vent’anni con la pelle ambrata, i capelli raccolti, una miriade di lentiggini e gli occhi che riflettevano l’infinito cosmico e tutta la volta celeste. Se gli antichi avessero conosciuto Midorikawa Ryuuji, probabilmente avrebbero descritto Lucifero come una creatura che suonava l’organo di notte seguendo gli spartiti di Mozart, che leggeva solamente opere di autori classici e che alzava il mignolo quando beveva: un’immagine ben distante dall’essere immondo e bruto, simbolo di pura stoltezza e perdita della ragione, a cui veniva associato."
[pubblicata anche su Wattpad sotto il medesimo username]
Genere: Romantico, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Altri, Isabelle/Reina, Jordan/Ryuuji, Kariya Masaki, Xavier/Hiroto
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
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Personalmente, non ho mai creduto a tutte quelle accuse fondate solo all’apparenza su basi teologiche: non che io sia un miscredente od un ateo, sia chiaro, ma penso sia giustificato dalla ragione pensare che angeli e demoni -ed altre creature sovrannaturali- non esistano.
Certo, nessuno mi avrebbe mai potuto garantire o confermare la loro esistenza senza ricevere un mio sguardo al culmine dello scetticismo o, nel peggiore dei casi, una risata miseramente trattenuta.
Eppure, nemmeno con qualche scorcio di dialettica perduta negli antri remoti del mio cervello, avrei potuto argomentare l’opposto non appena ne vidi uno, proprio di fronte ai miei occhi.
Una credenza medievale vuole che alla figura femminile siano associati il male, il peccato, la seduzione lussuriosa, l’incarnazione del demonio tentatore. E gli uomini di allora si sbagliavano, si sbagliavano eccome: il diavolo non era una ragazza leggiadra, una di quelle fanciulle che ispiravano i poeti stilnovistici, e nemmeno una donna voluttuosa, dedita alla frequentazione dei postriboli.
Il demonio era un uomo sui vent’anni con la pelle ambrata, i capelli raccolti, una miriade di lentiggini e gli occhi che riflettevano l’infinito cosmico e tutta la volta celeste. Se gli antichi avessero conosciuto Ryuuji Midorikawa, probabilmente avrebbero descritto Lucifero come una creatura che suonava l’organo di notte seguendo gli spartiti di Mozart, che leggeva solamente opere di autori classici e che alzava il mignolo quando beveva: un’immagine ben distante dall’essere immondo e bruto, simbolo di pura stoltezza e perdita della ragione a cui veniva associato.
Forse si erano accordati nell’inculcare nelle menti dei credenti l’idea di un demone empio ed immorale per proteggerli: se mi avessero insegnato sin dall’infanzia che Lucifero era più simile alla rappresentazione fornita da Cabanel ne “L’angelo caduto” piuttosto che a quella giottesca nella Cappella degli Scrovegni, sarei stato ben più contento nel sentirmi augurare l’inferno dopo la morte.
Non ho mai incontrato qualcuno che si accostasse a lui nell’aspetto, nei gesti, nei modi, nel portamento.

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Sono circa le tre del pomeriggio e mi sto recando a casa, dove Masaki probabilmente mi aspetta dopo essere tornato da scuola. Da quando ho divorziato dalla mia oramai ex-moglie, Masaki è stato costretto a vivere con me e non sembra particolarmente entusiasta di questa decisione: non credo di poter racimolare il coraggio sufficiente per dirgli che Reina ha trovato un nuovo compagno. Tutto quello che sono stato in grado di riferirgli è che si era trasferita per motivi di lavoro e che, magari, durante l’estate gli avrebbe fatto visita per salutarlo. Ed effettivamente così è successo dal primo anno di separazione: nel mese di luglio, puntuale come un orologio svizzero ed impeccabile come al solito, si presentava alla nostra porta e Masaki era al settimo cielo.
Sebbene abbia solo sei anni, Masaki è tutto fuorché ingenuo e prima o poi capirà da sé perché Reina non vive più con noi ed io non potrò far altro se non limitarmi ad annuire e dargli conferma.
Una volta rincasato, sospiro un “Sono tornato” più a me stesso che a mio figlio, e vedo quest’ultimo alzare il viso dal libro che stava leggendo per voltarsi verso di me.
“Ciao, papà”, mi dice tranquillo per poi alzarsi -o meglio, scendere- dalla sedia per raggiungermi mentre appoggio la mia valigetta sopra un mobile.
“Oggi andiamo al parco?”, mi chiede guardandomi dal basso, girandomi intorno e seguendomi in cucina. Onestamente le giornate al lavoro sono pesanti e tornare a casa è la mia unica soddisfazione quotidiana, ma non me la sento di deluderlo, per cui annuisco. Uno dei tanti problemi che ha portato l’assenza di Reina è proprio l’aumento del carico di lavoro: prima di licenziarsi, era la mia segretaria e condividevamo il medesimo ufficio oltre agli stessi impieghi. Adesso il posto è disponibile e, sebbene ci siano persone come Suzuno che insistono nel volerlo, far ripetere ad ogni candidato gli esami di qualifica ed il colloquio consumerebbe troppo tempo. Certo, Suzuno è testardo e sta studiando da più di un mese, ma non credo di voler aggiungere i temi di una cinquantina di impiegati a tutti i documenti che già mi tengono impegnato a tempo pieno.
Come di consueto, inizia a saltellare contento e non posso non lasciarmi sfuggire un sorriso nel vederlo così gaio. Ho dei plichi di fogli da revisionare, ma non credo sia un problema se, per una volta, mi azzardo a sistemarli in un ambiente che non sia l’ufficio di casa mia.
Ci rechiamo insieme nel piccolo angolo di paradiso di Masaki e, non appena adocchia qualcuno dei suoi compagni di classe, sfila rapidamente la sua mano dalla mia e lo guardo correre verso di loro. Probabilmente si erano messi d’accordo, ecco perché me l’aveva chiesto quando ero ancora sulla soglia di casa. Mi siedo tranquillamente sopra una panchina e prendo un paio di fogli dalla mia tracolla: tanto vale cominciare subito. Cerco di tenere d’occhio Masaki con ben poca parsimonia perché so che tende a diventare iperattivo vicino ai suoi coetanei, di conseguenza devo prestare maggior attenzione a lui per evitare situazioni spiacevoli. E, puntualmente, come leggo una riga di troppo non lo vedo già più.
Mi impongo di mantenere la calma per il mio medesimo bene e, sforzando un’espressione pacata, mi avvicino a Hikaru, probabilmente uno dei pochi compagni di classe di Masaki di cui mi ricordo il nome.
“Salve, signor Kira”, mi sorride con bontà infantile non appena lo raggiungo, lasciando a terra il pallone con cui stava giocando fino a pochi attimi prima.
“Ciao, Hikaru. Per caso hai visto dov’è finito Masaki?”, gli domando ricambiando il sorriso, piegandomi leggermente per non farlo sentire a disagio vista la differenza di altezza.
“Mhh... Forse è andato verso i campi da calcio insieme a Tenma”, ipotizza dopo averci pensato sopra per qualche istante, indicandomi subito dopo i suddetti campi con il dito.
“Ok, grazie mille”, lo saluto di nuovo per poi avviarmi verso di questi con il mio bagaglio di fogli appresso.
I campi sono di proprietà dell’oratorio e vi si può accedere in due modi: tramite un cancello dalle inferriate alte e decorate, oppure passando da una delle cappelle della chiesa. Il cancello era chiuso, per cui non vi era altra soluzione se non passare dalla chiesa stessa.
Camminando rasente alle aiuole in fiore e alle varie piante che tingono graziosamente il giardino di fronte all’edificio, mi avvio verso il portone principale e non sono in grado di ignorare i piccoli bagliori che si infrangono contro le vetrate ed i rosoni dall’interno, proiettando colori delicati sul lastricato di fronte alla struttura. Controllo per sicurezza il mio orologio da polso: sono le quattro. Che io sappia, non si tengono funzioni a quest’ora e, tecnicamente, non ci dovrebbe essere nessuno nella sede.
Non so giustificare quelle luci accese, specialmente perché il sole è fin troppo cocente oggi e quindi la luce naturale c’è ed in abbondanza. Procedendo verso la gradinata, spingo il portone in vetro ed entro. Mi guardo intorno per cercare Masaki ed assicurarmi dell’effettiva presenza di qualcuno che non sia io, ma non c’è nessuno. L’unica cosa che odo, a parte il mio respiro, è l’eco di qualche passo delicato a diversi metri sopra di me, accompagnati da altri passi sebbene affrettati e scoordinati.
L’unica spiegazione plausibile è che qualcuno, probabilmente del coro, debba provare qualche brano o, più fattibile, un collaboratore stia già organizzando la funzione delle sei. Il mio corpo si blocca non appena una melodia si diffonde con prepotenza nell’aria, sovrastando ogni rumore presente nell’intera struttura ed imponendosi con superiorità schiacciante sul silenzio religioso dell’ambiente. Le note di un organo a canne, posizionato su un apposito piano soprelevato, occupano lo spazio nella sua interezza e con soavità disarmante, altero nella sua limpidezza di suono e nella purezza musicale. C’è qualcosa di curioso quanto terrificante in quello spartito: mi è impedito qualsiasi movimento che non sia il voltarmi in direzione del suono per capire da dove nasca, chi lo produca, come si purifichi nell’aria. Mi riprendo fortunatamente dallo stato di trance in cui ero piombato involontariamente ed inconsciamente ed avanzo sulla navata principale per poter vedere oltre il parapetto del piano così da mirare quella che sembra essere l’unica persona presente, me escluso.
Ciò che scorgo a malapena, a causa dell’ombra generata dalla parete frontale che inghiotte completamente l’organo ed il piano, è una schiena magra, avvolta da un delicato completo grigio perla, e dei capelli verdi, raccolti ordinatamente in uno chignon alto. Il brano termina e vedo, per quanto mi sia concesso, quella persona girare il viso di lato, sorridendo mentre guarda in basso.
“Ancora, ancora! La suoni di nuovo, signore! Per favore!”, sento una voce vivace ed infantile esordire gioiosa, e vi riconosco il timbro e la cadenza di mio figlio. Quello che oramai identifico come un uomo solleva il bambino che gli stava parlando per farlo sedere sulle proprie gambe e, nel notare la zazzera di capelli cerulei, mi sembra palese che si tratti proprio di lui.
“Masaki!”, lo chiamo dal basso, tenendo lo sguardo ancorato su quelle due figure, “Sei là sopra?”.
Ambedue si girano verso di me ed il diretto interessato mi sorride, sporgendosi oltre la spalla dell’uomo per salutarmi.
“Ciao papà!”, mi dice contento come una Pasqua mentre agita la mano come per paura che non lo vedessi, “Hai sentito che bravo che è il signore a suonare?”.
La domanda mi si infrange addosso come una doccia gelida: come faceva un bambino come Masaki, che si era sempre mostrato timido, se non diffidente, con gli sconosciuti, ad essere così estroverso con qualcuno che, per quanto mi risultasse, non aveva mai visto in vita sua? Perché si trovava così a suo agio con qualcuno di nuovo, ignoto in ogni aspetto?
“Sì, ha suonato bene la Lacrimosa, ma ora dobbiamo andare”, cerco di tagliare corto mentre continuo a guardarlo, tentando di fargli capire di scendere da lassù il prima possibile. Mi guarda con evidente disappunto, ma scende docilmente dalle gambe dell’uomo che, voltandosi verso di me, mi rivolge il sorriso più enigmatico che abbia mai visto prima di sparire con mio figlio oltre una porta di legno vicino alle canne dell’organo.
Dopo un paio di minuti, entrambi mi raggiungono sulla navata ed usciamo dall’edificio. Lascio che Masaki corra davanti a noi come se volesse farci strada mentre io e l’organista lo seguiamo a passo moderato. Vedendolo da vicino, noto che è poco più basso di me e che, sebbene ne avessi avuto l’impressione già da quando si era voltato in chiesa, deve avere qualche problema agli occhi dato che li ha tenuti chiusi per tutto il tempo. Mi stupisce che non sia caduto nemmeno una volta dalle scale o che non abbia sbattuto da qualche parte siccome non ha nulla per aiutarsi come fanno le persone cieche.
Ritornati a giardinetto, Masaki si unisce ai suoi compagni e mi assicuro di ammonirlo a restare nel parco prima che se ne vada di nuovo, al che annuisce per poi raggiungerli. Ero in procinto di ripescare nuovamente i fogli dalla mia tracolla, ma una voce gentile e suadente mi ferma prima che possa muovermi.
“Lascerebbe da parte le carte d’ufficio per due chiacchiere?”, mi domanda l’uomo di prima, sorridendo con garbo mentre prende posto vicino a me sulla panchina dopo che gli ho fatto un cenno positivo con la testa. Solo in quel momento lo noto aprire gli occhi per una frazione di secondo per poi chiuderli di nuovo, giusto il tempo necessario per mettersi composto sulla seduta di legno.
“Mi perdoni per la mancanza di tatto”, premetto mentre lo guardo, incerto se domandarglielo o meno, “ma perché tiene gli occhi chiusi se può vedere? Non è pericoloso?”.
Lo vedo mordersi il labbro con titubanza e mi pento per averglielo chiesto: quasi certamente sarò risultato insensibile o sgarbato, ma non faccio in tempo a scusarmi per la domanda scomoda perché lui mi anticipa.
“Ad alcune persone fa impressione, per cui li tengo chiusi”, inizia a parlare mentre si torce le dita nervosamente, voltandosi verso di me -questa volta con gli occhi aperti-, “Dovrebbe vedere quanti genitori fanno scudo ai loro figli quando lo notano: non volevo spaventare Masaki”.
Noto solo in quel momento che non c’è la minima traccia di colore nei suoi occhi. Le pupille, tinte di un nero puro, occupano anche lo spazio in cui dovrebbero comparire le iridi, che sarebbero completamente assenti se non fosse per un alone mogano di un millimetro scarso.
“È aniridia”, mi precede prima che possa reagire, senza però calare le palpebre come avrebbe fatto fino a poco fa.
“Mi dispiace per quello che deve subire”, gli confido con tono mortificato. È struggente sapere che venga discriminato non solo per una condizione involontaria, ma soprattutto per una malattia: certe persone non hanno né rispetto, né umanità.
“Non si preoccupi, ogni tanto riesco ad utilizzare le lenti, anche se è difficile trovare un colore che copra il nero”, risponde con un sorriso gioviale e non mi sento di far altro se non ricambiare.
“Posso sapere il suo nome? Credo che prima abbiamo scordato le formalità come il presentarsi”, azzardo con un sorriso sereno, vedendolo annuire di buon grado subito dopo.
“Midorikawa Ryuuji”, mi porge la mano con garbo, accompagnando un sorriso ed il suo iconico sguardo indecifrabile al gesto.
“Kira Hiroto”, stringo gentilmente la sua mano nella mia, firmando così la nostra conoscenza.
“Kira?”, vedo nei suoi occhi un bagliore nuovo, un guizzo di curiosità, mentre rimugina sopra dei ricordi remoti e a me sconosciuti, “L’ho già sentito, ma mi sfugge dove”.
“Me lo farà sapere un’altra volta”, gli faccio cenno di non pensarci per poi sentirlo ridacchiare con voce tersa e cristallina mentre si lascia sfuggire un “Farai”, come per correggermi.
“Vada per il tu mutuale, allora”, annuisco con un sorriso mentre mi alzo dalla panchina insieme a lui nel vedere Masaki raggiungerci correndo, probabilmente dopo aver notato il cielo incupirsi.
Midorikawa fa per chiudere di nuovo gli occhi mentre mio figlio si avvicina, ma li riapre non appena gli do un colpetto leggero con la nocca contro il dorso della mano, facendogli capire di non preoccuparsi. Non credo ci siano parole per descrivere la gratitudine ed il sollievo che permeano il suo volto quando si volta per sorridermi.
“Papà, andiamo a casa?”, mi domanda Masaki mentre si aggrappa alla mia gamba, guardandomi con i suoi occhi pieni dal basso. Annuisco alle sue parole mentre porto una mano ad accarezzargli gentilmente i capelli, togliendo un paio di foglie che gli si erano impigliate tra le ciocche lunghe.
“Sarà meglio incamminarsi subito, temo che tra poco pioverà”, ci fa notare Midorikawa mentre volge lo sguardo verso il cielo tetro e le nuvole dense.
“Mh, sarà meglio avviarsi”, annuisco alla sua affermazione, guardandolo poi con un sorriso cordiale, “Allora alla prossima, Midorikawa”, lo saluto con un mezzo inchino mentre Masaki fa altrettanto, restando aggrappato alla mia gamba.
“Alla prossima”, ricambiando il gesto di cortesia, ci saluta entrambi con un cenno della mano per poi incamminarsi a sua volta per la sua strada. Prendo quindi Masaki per mano, percorrendo la strada in direzione opposta a quella dell’organista mentre la tracolla sbatte con insistenza contro il mio fianco ad ogni passo.
“Masaki, come mai sei andato proprio in chiesa?”, domando una volta sufficientemente distanti dal parco, “E poi perché non me l’hai detto?”.
Con la coda dell’occhio, lo noto alzare lo sguardo verso di me mentre accelera il ritmo dei suoi passi per starmi dietro, tornando subito dopo a guardare la strada pensieroso.
“Non lo so”, mi risponde dopo un po’ mentre inizia a delinearsi il profilo del grattacielo in cui viviamo, “Mi ricordava la mamma”.
Resto spiazzato di fronte alla sua affermazione, bloccandomi per un attimo dall’aprire la porta del condominio, tenendo la chiave saldamente premuta tra indice e pollice. Certo, io stesso avevo notato che Midorikawa non spiccava particolarmente per la mascolinità e che poteva benissimo essere scambiato per una donna a primo impatto, ma arrivare a dire che assomigliasse a Reina non mi sembrava concepibile. A partire dalla fisionomia facciale fino ad arrivare alla struttura corporea, l’unica somiglianza che ero in grado di trovare tra di loro erano i fianchi stretti: per verificare altre somiglianze in quanto ad attributi fisici, probabilmente avrei dovuto raggiungere il cosiddetto “punto di non-ritorno” -che tanto “di non-ritorno” non era- con Midorikawa e, onestamente, non è nei miei pensieri avere rapporti con uno sconosciuto. Certo, è innegabile che fosse un ragazzo curato e di bell’aspetto, ma al momento i miei pensieri sono indirizzati ad altro.
“E perché te la ricordava?”, decido di chiedere mentre fingo di aver avuto un crampo per giustificare la mia temporanea immobilità, aprendo subito dopo la porta.
“Mi ha preso in braccio come fa lei”, mi risponde sorridendo per poi avviarsi sulle scale. Fortunatamente nulla di ciò che pensavo: forse dovrei smetterla di dare troppo peso a tutto e dormire un po’ di più di notte.
“Coraggio, saliamo a cenare”, gli dico con un sorriso mentre lo guardo correre contento sulle rampe di granito.

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Angolino della stella cadente(?):
Zauu lettore anonimo, grazie per essere arrivato fino a qua!
Io sono Chiara, sono nuova come scrittrice su EFP -la mia carriera di lettrice invece tradisce la mia data di iscrizione ihih- e spero di non triggerare troppo chiunque decida di leggere quello che stendo!
Questa è letteralmente la prima fanfiction che scrivo su questo sito -delle altre piattaforme e del mio passato incriminato non si parla qui (;`O´)- , per cui non martoriatemi troppo perché sennò piango dalla disperazione (ˊ̥̥̥̥̥ ³ ˋ̥̥̥̥̥).
Mi scuso in anticipo per gli eventuali strafalcioni grammaticali -rileggendo spesso non mi accorgo degli errori che faccio- o per le incongruenze nella trama -queste invece cerco sempre di tenerle d’occhio-.
Ora basta parlare di me ‘ché sono noiosa, parliamo della storia -egualmente tremenda, oserei aggiungere ahah-: per chi non l’avesse capito, i personaggi da tenere in considerazione sono quelli di Inazuma Eleven GO, di conseguenza quando parlo di Kira Hiroto non mi riferisco all’emo ricciolino di Ares, ma al fregno della quarta stagione.
Riguardo al rating ammetto di essermi trovata in difficoltà nella scelta perché *spoiler ma non della Casa di Carta* dovrebbe esserci un capitolo un po’ frizzante -come il tiro di Goujin-, ma devo ancora decidere se renderlo rosso o meno, per cui moderarlo: nel dubbio, fino ad allora rimarrà arancione.
In ogni caso, fatemi sapere cosa ne pensate come inizio perché io non sono assolutamente condizionata dal pensiero altrui e non ho affatto bisogno dell’approvazione di qualcuno per avere un minimo di fiducia in quello che faccio. Scherzi a parte, mi farebbe piacere se poteste lasciarmi qualche riga di recensione con eventuali impressioni, suggerimenti, correzioni o altro, o anche un messaggio privato: mi motivano parecchio e mi piace scambiare due parole con qualcuno ogni tanto.
Ovviamente non obbligo nessuno, per cui siete liberi anche di fare ghost reading ahah.
Prima che me ne dimentichi, tra poco dovrei finire anche la copertina per la storia e, se non dovessi riuscirci, mi assicurerò di aggiungere per lo meno i disegni dei personaggi (update: ho aggiunto la copertina!).
Detto questo, ci vediamo nel prossimo capitolo ミ✩
   
 
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