Libri > The Nevernight Chronicle
Ricorda la storia  |      
Autore: QueenOfEvil    08/04/2020    2 recensioni
[ATTENZIONE: spoiler per tutta la trilogia, in particolare per l'ultimo volume, Alba Oscura]
È passato del tempo dagli eventi dell’ultimo verobuio e Jonnen non può fare a meno di pensare a quello che è accaduto e quello che sarebbe potuto accadere.
E il senso di colpa lo divora.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash | Personaggi: Jonnen Corvere
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Neh diis lus'a, lus diis'a'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

SPETTRI










Quando Jonnen era piccolo e non riusciva ad addormentarsi, la sua balia spesso gli raccontava delle storie per tenergli compagnia.
Era una donna di origini Vaaniane -capelli talmente biondi da apparire quasi bianchi a un primo sguardo e occhi dello stesso colore del cielo durante un’illuminotte- e le sue narrazioni erano testimonianza vivente della cultura a cui apparteneva, talmente diverse da quelle che i bambini itreyani erano abituati a leggere nei libri che spesso sortivano l’effetto contrario a quello desiderato: rapito dalle trame che la balia tesseva, Jonnen perdeva anche quel poco di sonno che poteva aver avuto.
La sua storia preferita, e quindi quella che ella gli aveva raccontato centinaia di volte, sino alla nausea, parlava di una bambina di un regno lontano, rapita da una maga cattiva quando ancora era in fasce e rinchiusa in una torre altissima, senza via di uscita*. 
Non era tanto il racconto di per se stesso ad affascinarlo -l’idea della storia d’amore e del lieto fine lo attirava ben poco-, quanto il pensiero di quella ragazza, rapita dalla propria casa da una sconosciuta che l’aveva cresciuta come propria per anni, e di ciò che ella poteva aver fatto in tutto quel tempo, senza mai uscire.
“La bambina voleva bene alla donna?” aveva chiesto una volta alla balia, cogliendola di sorpresa.
Non ricordava la risposta che ella gli aveva dato, in realtà, -il tempo era passato e quei ricordi sembravano appartenere ad un’altra vita-, ma sapeva che non lo aveva soddisfatto.
La notte -la notte-, invece che dormire, Jonnen spesso guardava fuori dalla finestra, verso la luna -la luna-, e si domandava se la sua balia sarebbe riuscita a farlo addormentare, adesso.
Era una donna anziana, e aveva già accudito sua madre prima di lui, e Jonnen non poteva smettere di chiedersi dove fosse. Se avesse saputo. Se si stesse domandando la stessa cosa su di lui, in quell’esatto istante.
Ne dubitava.
Aveva pensato di cercarla, in realtà, quando la situazione si era almeno un po’ stabilizzata.
Di farle sapere che stava bene.
Ma lei aveva sempre vissuto nelle Costole. E ciò voleva dire che durante il verobuio era stata molto vicina allo scontro. 
Jonnen sapeva che molti erano morti quel giorno.
Lo sapeva, l’aveva visto, continuava a vederlo.
Non era sicuro di volerne anche sapere i nomi.
Anche lui era stato dato per morto, dopo una sommaria ricerca. I Luminatii -i pochi rimasti- avevano già abbastanza di cui preoccuparsi per mettersi sulle tracce del figlio di Julius Scaeva -il figlio di Julius Scaeva-.
Non sapeva neanche quello che gli avrebbero fatto, se l’avessero trovato.
Ed era per questo che non aveva obiettato, anzi, si era quasi sentito sollevato, quando Mercurio gli aveva detto che sarebbe stato saggio starsene nascosto per un po’.
Per un bel po’.
Era stata sua l’idea di farsi tagliare i capelli quasi a zero: per passare più inosservato, aveva detto. L’immagine che il popolo aveva di Lucius Atticus Scaeva era quella di un ragazzino dai folti riccioli neri, e sarebbe stato prudente -per quanto magari superfluo- apportare qualche minimo cambiamento al suo aspetto. In un momento tanto delicato, la sicurezza doveva venire prima di tutto.
Non aveva battuto ciglio, quando Sidonius era arrivato davanti a lui con tutto l’occorrente. Aveva chiuso gli occhi, stretto i pugni, e si era limitato ad ascoltare il rumore della forbice che tagliava.
Click, 
Click, 

Click.
Aveva trovato il coraggio di guardarsi allo specchio solo qualche turno dopo.
Non era mai stato troppo vanitoso. O, almeno, a lui piaceva pensarla così.
Sapeva quanto l’aspetto fosse importante, quanto il popolo guardasse all’apparenza e quanto poco alla sostanza, e soprattutto conosceva -lui, figlio del più potente tra i midollani- la differenza tra buona e cattiva qualità, ma non ne era mai stato ossessionato.
Ciononostante, gli era sempre piaciuto sostare qualche minuto, tutti i giorni, davanti a una superficie riflettente. Il motivo però era un altro.
Quando aveva sette anni, sua madre -Liviana. Sua madre, Liviana- si era accovacciata vicino a lui e gli aveva spettinato dolcemente i capelli: “Sei ancora un bambino” gli aveva detto, gli occhi che brillavano “ma assomigli già tanto a tuo padre. Una volta diventato grande, vedrai: sarai proprio come lui”
Ricordava che il petto gli si era gonfiato di orgoglio, sentendo quelle parole.
Aveva sorriso, un sorriso così grande che sua madre non aveva potuto che fare lo stesso, e le aveva buttato le braccia al collo: “E come voi, madre” le aveva detto, sicuro che le avrebbe fatto piacere sentirlo “sarò anche come voi!”
Aveva sentito il corpo di Liviana irrigidirsi a quelle parole e, mentre il sorriso le moriva sulle labbra, aveva capito di aver detto qualcosa di mortalmente sbagliato.
Aveva abbassato gli occhi, tutta la gioia provata fino a un attimo prima improvvisamente dimenticata, e aveva chiesto scusa, non sapeva neanche lui per cosa.
Sua madre aveva scosso la testa e gli aveva detto che non era colpa sua -non che non ci fosse nulla che non andava, però, questo l’aveva notato-. Poi gli aveva sorriso di nuovo, ma senza la brillantezza di prima, e i suoi occhi, Jonnen aveva notato anche questo, erano rimasti tristi.
Da allora in poi, per qualche settimana, aveva fatto caso a come nessuno gli dicesse mai quanto lui assomigliasse a sua madre.
Ma il suo cervello di bambino non era riuscito ad attribuire a questo l’importanza che meritava, e aveva concluso che ciò era perché suo padre -suo padre- era Julius Scaeva. Console della Repubblica. Non c’era un complimento più grande da poter fare a suo figlio.
Adesso, faticava a pensare a quei giorni e passava quanto più tempo possibile lontano dagli specchi.
Eppure, ogni tanto, una curiosità quasi morbosa si impadroniva di lui, e allora non poteva fare altro che rivolgere uno sguardo alla sua immagine.
Aveva paura, quando lo faceva, ed era grato che non ci fosse nessun Messer Cortese nei paraggi per nutrirsene.
Osservava il suo viso, i suoi occhi, il suo collo, e poi provava ad immaginarsi cresciuto. Adulto. Ed era allora che l’immagine di suo padre si sovrapponeva alla sua.
No.
Ma non era tanto il terrore di somigliargli che lo angustiava. Perché quello, lo sapeva, era un giusto sentimento. Nessuno avrebbe potuto biasimarlo per pensieri simili. E se ne avesse parlato con Mercurio, o con Sidonius, o con Mia, avrebbe ricevuto solo rassicurazioni e parole gentili.
Il vero problema era che dentro di lui, negli anfratti più bui e sperduti della sua anima, sentiva che sarebbe stato ancora peggio -ancora peggio- se la sua versione adulta fosse stata un completo estraneo, che con Julius Scaeva non aveva nulla a che fare.
E si vergognava.
Si vergognava infinitamente.
Allora, per distrarsi, tentava di fare un esperimento opposto: sempre guardandosi negli occhi, cercava di trovare, in se stesso, gli elementi estranei, quelli che sapeva non appartenere a suo padre, ma alla donna che lo aveva messo al mondo.
Quella che Mia chiamava madre.
Quella che Mia -lo sentiva ogni volta che incontrava i suoi occhi- nel profondo del cuore desiderava che anche lui considerasse sua madre.
Alinne Corvere.
Sua sorella aveva provato più volte a parlargli di lei, ma si era sempre scontrata con una reticenza silenziosa ed ostinata e non aveva mai insistito. E Jonnen le era grato per questo. Perché qualsiasi curiosità potesse provare per un fantasma di cui non aveva memoria era soffocata dai ricordi di spettri ben più consistenti.

 

Il giorno in cui aveva saputo che Mia era viva -il giorno in cui se l’era ritrovata davanti- aveva provato una felicità talmente assoluta da lasciarlo senza fiato: le era corso incontro, anticipando sia Mercurio, che Sidonius, che Corleone -congelati in una sorpresa che sapeva di incredulità- e le aveva gettato le braccia al collo, chiamando il suo nome. Lei aveva ricambiato il suo abbraccio, lo aveva stretto a sé e aveva finto di non notare le lacrime che gli scendevano lungo le guance.
In quel momento, era stato quasi sicuro che tutto si sarebbe sistemato all’istante. Per magia. Che si fosse chiuso un capitolo e se ne fosse aperto un altro.
Ma raramente le cose sono così semplici.
Amava sua sorella. Ed era a quell’amore che si aggrappava quando, la mattina o la sera, sentiva di stare andando alla deriva.
Fissava lo sguardo sui suoi capelli, sul suo viso, sulle sue mani -mai sugli occhi- e trovava la forza di dimenticare tutto il resto.
Lei è qui, si diceva.
Lei
è

qui.
Come se la sua presenza avesse potuto compensare il vuoto di chi, invece, lì non era.
Di chi, lì, non sarebbe più stato.
Non rimpiangeva la sua decisione di aiutarla. 
Si sarebbe disprezzato ancora di più se avesse trovato anche solo una briciola di rimpianto nel cuore per le sue azioni, durante il verobuio.
Ma, e qui stava il problema, non poteva in tutta onestà di rimpiangere di essere andato con suo padre, quel giorno alla Montagna Silenziosa. 
Non rimpiangeva di aver riabbracciato sua madre. Di averla rivista. Di aver sentito la sua voce.
Se solo avesse saputo che sarebbe stata una delle ultime volte…
Il suo comportamento durante il verobuio gli era sembrato -e continuava a sembrargli- l’unico possibile.
Non avrebbe potuto agire altrimenti.
Ed era proprio quella mancanza di scelta ad angosciarlo.
Perché se ne avesse avuta, se la situazione fosse stata diversa, se fosse stato messo di fronte a un bivio nel vero senso della parola, aveva paura di quello che avrebbe potuto fare.
Aveva odiato Scaeva in quel momento. Era vero. Quando aveva visto il corpo di sua madre, lì, abbandonato al suolo, il disgusto e il disprezzo avevano preso il posto nel suo cuore che fino a poco prima avevano occupato l’ammirazione e il rispetto.
Ma. 
Ovviamente c’era un “ma”.
Ma quelle scene avevano continuato ad ossessionarlo nei giorni, e nelle settimane, e nei mesi a seguire.
E aveva sentito, aveva capito, che quella… cosa che aveva ucciso Liviana non era suo padre più di quanto Alinne Corvere, la donna che lo aveva messo al mondo, potesse essere considerata sua madre.
E cosa sarebbe accaduto, allora, se fossero stati sua sorella e suo padre a scontrarsi, e non quello che Niah aveva voluto che diventassero?
Chi avrebbe scelto?

Si era trovato a desiderare, più di una volta, che almeno una delle parti -una delle estremità che lo tiravano prepotentemente verso di sé, talmente forte che temeva di spezzarsi in due- avesse solo finto di amarlo.
Che, come nella favola della maga e della torre, ci fossero dei buoni, e dei cattivi, e lui avesse solo imparato a distinguere gli uni dagli altri.
Sarebbe stato più semplice, in quel caso.
Avrebbe potuto piangere per Eclissi e Macellaio senza sentirsi un ipocrita.
Senza sentirsi un traditore.
Ma ricordava fin troppo bene, Jonnen, l’urlo che Liviana aveva emesso quando se l’era rivisto davanti, sano e salvo. Il modo in cui lo prendeva in braccio e lo baciava, prima di metterlo a letto. Il sorriso pieno di orgoglio che gli rivolgeva, ogni volta che lo guardava.
E ricordava, suo malgrado, le lezioni con suo padre, quando gli aveva insegnato a piegare le tenebre al suo volere. I cenni di approvazione di fronte ai suoi progressi. Il modo in cui lo aveva guardato, mano protesa verso di lui e morte negli occhi, quando gli aveva fatto da scudo contro la magia di Adonai.
E come poteva, lui, condannarli, quando sapeva che nessuno in quella storia era innocente?

 

Spesso, cercava di dimenticare.
Ripeteva il suo nome -il suo vero nome- tra sé e sé, talmente tanto da farsi venire la nausea.
Accompagnava Ash al mercato, ogni qualvolta c’era qualcosa da comprare.
Chiedeva a Sidonius di addestrarlo con la spada.
Ma si girava ancora, se sentiva qualcuno chiamare “Lucius” per strada.
Tra le bancarelle di spezie, riusciva sempre ad identificare il profumo preferito di sua madre.
E quando perdeva l’equilibrio e finiva a terra, e il suo paziente maestro lo rimetteva in piedi, e gli spiegava “quello di cui aveva bisogno”, Jonnen sentiva un’altra voce ripetere quelle parole, completare quella frase, e si allontanava con una scusa, il cuore pesante e la certezza che chiunque, lì, l’avrebbe disprezzato se avesse saputo ciò che pensava realmente.
Erano quelli, i momenti in cui sentiva qualcun altro prendere possesso del suo corpo.
Guardava Mercurio, guardava Ash, guardava quelli che erano ormai diventati suoi amici a tutti gli effetti e non provava altro che rabbia. 
Anche pensare a Mia -con la ragazza che amava, con Messer Cortese, con la sua vendetta portata a termine- non aiutava affatto.
Perché se lei aveva la sua famiglia, adesso, lui cosa aveva?
E poi, quando la bufera calava e la sua mente tornava calma, si detestava per quei pensieri. Anche Mia aveva perso tanto, si diceva. Anche Mia aveva patito. Anche Mia aveva visto i suoi genitori morire alla sua stessa età. 
E adesso che aveva trovato la felicità, adesso che potevano davvero ricominciare, lui aveva anche il coraggio di biasimarla per quello che gli aveva tolto? 
Sua sorella? 
Che lo amava? 
Che lui amava?
Che aveva rischiato la vita pur di tenerlo al sicuro?
Che diritto aveva, lui, di rimpiangere coloro che le avevano per primi arrecato tanto dolore?
Egoista,
egoista,
egoista
.
Ed era lo stesso sentimento che provava quando sentiva un estraneo, per le strade di ‘Grave, commentare quello che era successo durante il verobuio. La loro opinione sui fatti -e suoi loro protagonisti- era sempre la stessa.
Tu non c’eri, avrebbe voluto urlare. 
Tu non sai.
Ma si mordeva la lingua, ingoiava quelle parole, e andava avanti, sentendosi un codardo.
Come poteva dire di amare persone che non riusciva neanche a difendere?
E come poteva difenderle, sapendo quello che avevano fatto?
Gli sembrava di portare di nascosto il lutto per persone che non si sentiva autorizzato a rimpiangere.

 

C’era una sola persona, tra tutti, per cui provava un’avversione stabile e quasi ossessiva.
Marielle.
Era felice che Adonai fosse morto e, anche se non l’aveva mai detto a nessuno, credeva -sperava- che lei lo avesse capito. Che sapesse che lui, almeno lui, non aveva dimenticato. Che ogni volta che la osservava, rivedeva suo fratello che si liberava dalle manette, che usava il suo stesso sangue per colpirlo.
Che colpiva qualcun altro, al suo posto.
Era quello il momento che Jonnen considerava di rottura.
E anche se sapeva che probabilmente non era vero, che Scaeva avrebbe comunque perso il controllo dei suoi poteri, che il risultato sarebbe stato lo stesso, non riusciva comunque a perdonare i due fratelli per quello che avevano fatto.
Il fatto che fossero stati separati, che una fosse viva l’altro no, gli sembrava qualcosa di molto simile alla giustizia.
Ed era grato di non doversi sentire in colpa, almeno per quei pensieri.

 

Guardava per ore la luna, di notte, invece che dormire e si domandava come stesse Anais, lassù nel cielo, con una madre che aveva sacrificato secoli e vite umane per riportarlo indietro, quattro sorelle che lo ignoravano e un padre che si rifiutava di riconoscerlo come figlio.
Sperava che fosse felice.
Sapeva che non lo era.
E se si addormentava -se finalmente, dopo ore a fissare il soffitto, sentiva il sonno calare sopra di lui e rubarlo ai suoi pensieri-, quasi sempre sognava le Costole.
Sognava che nulla era mai avvenuto, che era ancora il figlio dell’unico Console della Repubblica, che sua madre era Liviana Scaeva e che la sua vita non sarebbe mai cambiata. Sognava di manipolare le ombre e di attendere con impazienza il momento in cui avrebbe avuto un amico fedele quanto Sussurro lo era per suo padre. Sognava che il Venatus Magni era ancora lontano, e con esso tutte le sue conseguenze.
Spesso, dopo quei sogni, si svegliava con le guance rigate di lacrime. 
Se qualcuno degli altri se ne accorgeva -come il più delle volte accadeva-, prima di poter obiettare si ritrovava una tazza di liquido fumante nelle mani e un braccio attorno alle spalle.
“Vedrai che passerà tutto, ragazzino” gli dicevano “Anche gli incubi sbiadiscono, dopo un po’”
E allora lui abbassava gli occhi, annuiva e beveva a piccoli sorsi.
Non aveva il coraggio, Jonnen, di dire loro che gli incubi non erano mai la ragione per cui piangeva.

 

 

 

 

 

 

*Ho usato la storia di Raperonzolo perché, dati i chiari paralleli tra la gente vaaniana e il nostro Nord ho pensato che potesse essere plausibile… mea culpa se così non è stato.




Note: anche questa cosetta è stata pubblicata prima su AO3, in inglese, ma, come spesso accade, amo la versione in lingua originale (quella che avete appena letto) molto più dell'altra. La famiglia Scaeva-Corvere è un disastro in tutti i sensi e a farne le spese, alla fine, più di tutti, è stato Jonnen, che ha perso quattro genitori che lo amavano e si ritrova con una sorella che non conosce, in un mondo cambiato, senza più appigli e figure di riferimento. Perché, per quanto maturo e forte, è pur sempre un bambino di nove anni, che stimava e rispettava sua madre e suo padre. Ho trovato il suo cambiamento un tantino repentino -i suoi ultimi pensieri su Scaeva, ad esempio-, ma ho pensato che, vista la situazione, anche le emozioni e i sentimenti potessero risultare complicati. E con più tempo per riflettere, con più tempo per realizzare veramente cosa fosse successo, probabilmente quell'odio che credeva di avere sentito per qualcuno che, alla fin fine, era disposto a dare la vita pur di proteggerlo, non sarebbe potuto durare.
Spero che questo piccolo pensiero vi sia piaciuto e che mi lascerete un commentino a proposito.
(È molto probabile, tra parentesi, che io scriva altro su di loro, in particolare su Alinne e Liviana: nel caso, questa cosa e la long che sto scrivendo su Scaeva diventerebbero parte di un'unica serie. Ma si vedrà)
Alla prossima!
QueenOfEvil

   
 
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > The Nevernight Chronicle / Vai alla pagina dell'autore: QueenOfEvil