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Autore: DanceLikeAnHippogriff    08/04/2020    0 recensioni
"L'inizio che non avrei voluto" o di come un povero e ignaro bardo si è ritrovato alla mercé di un culto di veneratori di draghi, è scampato alla morte e, per la sfortuna delle orecchie del suo pubblico, ha composto la ballata delle sue epiche imprese.
Genere: Angst, Avventura, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Di draghi e Dragomanni'
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Horo si asciugò il sudore che gli colava dalla fronte e sollevò lo sguardo da terra. Il suo compagno camminava imperterrito da ore e non si era rivelato un gran conversatore. Come se non bastasse, il caldo soffocante che impregnava la caverna in cui erano stati rinchiusi non faceva che aumentare man mano che si addentravano in quel corridoio tortuoso e la cosa non lo rassicurava affatto. Si grattò mollemente la base del collo cercando di scacciare il fastidioso prurito di sudore rappreso misto a sporcizia e sangue. La catalessi in cui era sprofondato quando era stato liberato da quel gruppo di avventurieri lo aveva rimesso in forze, ma avrebbe avuto bisogno di un periodo di letargo per riprendersi da quell’esperienza; inoltre, rimettersi in marcia forzata appena sveglio non aveva aiutato per niente. Le uniche pause che si concedevano erano di fronte ai bivi che il sentiero biforcuto gli poneva di fronte; l’energumeno annusava l’aria per un po’, cauto, mugugnava qualcosa, ignorava i suoi tentativi di interpellarlo insieme ai suoi suggerimenti e poi sceglieva una direzione senza degnarlo della benché minima spiegazione.

Quell’atteggiamento lo faceva infuriare non poco, ma la stanchezza che si sentiva in corpo, avvinghiata alle sue caviglie come blocchi di granito, domava i suoi sentimenti rendendoli niente più che un placido borbottio. Non si sarebbe mai sognato di allontanarsi dall’unico essere vivente che gli era “amico” nel raggio di chissà quanti chilometri; dunque, seppur contrariato e ferito nell’orgoglio per il costante mutismo dell’altro, continuava a seguirlo mettendo un piede dopo l’altro, rassegnato.

L’interno della caverna non sembrava cambiare mai, facendogli dubitare le loro scelte di direzione. Non avevano già superato due volte quel ciuffo di funghi bluastri bioluminescenti? E la sporgenza su cui si era ammaccato la tempia l’aveva colpito in pieno anche la seconda volta. Non poteva essere un caso. Eppure, il suo compagno procedeva a passo spedito senza dar segno di cedimento, come se sapesse già dove andare, senza inciampare ancora e ancora nella stessa pietra come invece capitava a lui.

Emise un lungo verso lamentoso, incassando la testa nelle spalle. L’altro emise un basso ringhio senza voltarsi, intimandolo al silenzio. Horo alzò gli occhi al cielo. Aveva perso la cognizione del tempo e quel postaccio non lo ispirava minimamente; inoltre, iniziavano a dolergli le piante dei piedi, graffiate dai sassi del sentiero sterrato. Imbronciò le labbra, prendendo una lunga boccata d’aria viziata, ed espirò con lentezza; si sentiva la testa stranamente più leggera.

“Che ne dici di una pausa?” Esordì con voce cauta, tastando il terreno.

“Siamo in un tunnel. Non mi sembra il posto migliore dove fermarsi in caso di attacco, non credi?”

Horo per poco non si strozzò. “Attacco?!” Terminò la parola con una nota stridula nella voce, affrettandosi a raggiungere l’altro. Dopo qualche momento, si decise ad aggiungere, sottovoce: “Siamo in pericolo? Hai sentito qualcosa?”

La risposta arrivò dopo qualche minuto di silenzio, scandito dal rumore regolare dei loro passi. “Siamo in territorio nemico, per quanto ne so, quindi non possiamo abbassare la guardia.”

Il bardo decise di non aggiungere altro e la conversazione morì con la stessa velocità con cui era nata. Tutto quel moto, però, gli stava facendo venire un certo languorino. Si abbracciò lo stomaco con fare rassegnato, augurandosi che bastasse a calmare i suoi eventuali ruggiti di protesta; il fatto che il suo compagno fosse così tanto sul chi vive non lo faceva stare tranquillo. Certo, era un barbaro temprato dalle battaglie e da una probabile vita da eremita passata a conversare con le bestie piuttosto che con altri esseri viventi dotati di parola, quindi poteva anche aver esagerato; insomma, era sempre sul chi vive, quindi ci saranno pur state delle volte in cui aveva tenuto alta la guardia per niente, no? Horo si augurava di cuore che quello fosse uno di quei casi. A dispetto del sudore che gli imperlava la pelle, sentì un brivido corrergli lungo la schiena, facendogli rizzare i peli delle braccia.

Doveva calmarsi. Era sicuramente autosuggestione e non poteva permettere alla sua proverbiale fantasia di annebbiargli il cervello. Non doveva pensare ai mille tipi di agguato che avrebbero potuto tendergli in quel buco o a come la loro proverbiale fuga avrebbe potuto essere in realtà parte di un articolato piano dei loro carcerieri o a come forse l’unica persona che considerava “amica” non era chi pensava che fosse o…!

Cacciò un urlo, saltando in avanti e aggrappandosi alla prima cosa che trovò sul suo cammino.

La suddetta “cosa” ringhiò e si voltò di scatto, pronta a colpire, ma i suoi artigli affondarono nel vuoto. Rimase in posizione di difesa, pronto a reagire a qualunque movimento sospetto, ma quando fu evidente che non c’erano altre presenze in quel posto tranne loro, si rilassò, raddrizzando la schiena. Lasciò vagare lo sguardo intorno a lui, strizzando gli occhi nell’oscurità. Poi, colto da un’improvvisa illuminazione, si portò una mano sulla schiena, tastandola con fare sospettoso.

Le sue dita incontrarono degli stopposi capelli ricci.

Reclinò la testa all’indietro, rivolgendo uno sguardo truce alla volta del tunnel. “Scendi.”

Horo emise un gemito strozzato, abbarbicandosi ancora di più alla sua schiena. “Preferirei rimanere qui, se non ti dispiace.”

“Scendi, non lo ripeterò ancora.” Accompagnò le ultime parole con un gorgoglio gutturale, facendo un piccolo saltello; un debole tentativo di scrollarsi l’altro di dosso.

“Ho male ai piedi…” Borbottò il bardo con fare lamentoso. “E poi la roccia adesso è più calda, mi sono scottato!”

“E ti aspetti che ci creda? Vuoi solo scroccare un passaggio.”

“Senti, forse i tuoi piedi induriti dalla vita selvaggia delle foreste hanno perso la loro sensibilità, ma ti posso assicurare che il sentiero è rovente!” Per buona misura, si inerpicò fino alle sue spalle, sedendovisi a cavalcioni e lasciando le gambe a penzoloni. “Quindi, a meno che tu non voglia perdere l’unico guaritore che hai a disposizione in questo buco, potresti anche farmi questo piccolo favore.”

L’altro rimase in silenzio per qualche momento, poi si mosse, procedendo alla stessa velocità di prima. Non si curò affatto di evitare eventuali abbassamenti della volta, da quello che la testa di Horo poté constatare infelicemente. Ma il bardo non si lamentò affatto e si mise a fischiettare contento, godendosi quei dolci attimi di riposo. Non poteva sapere quando sarebbe stato scaraventato a terra di malagrazia, d’altronde, quindi tanto valeva rilassare e distendere le gambe indurite dalla camminata.

Man mano che avanzavano, prese a fare caso alle piccole particolarità che caratterizzavano il suo compagno. Si teneva leggermente incurvato in avanti – ma quello forse era a causa del peso del bardo – e quando annusava l’aria muoveva impercettibilmente le orecchie. Poteva sentire i muscoli delle spalle guizzare fluidi sotto la pelle e si sorprese a percepire sempre più il dondolio ritmico della sua camminata. Si sentiva le palpebre pesanti ed era così dannatamente stanco… Forse avrebbe potuto appoggiarsi sulla sua testa per un po’ e chiudere gli occhi, riposare la vista, dormire e basta senza cercare di accampare una scusa. Voleva solo farsi un pisolino, poi sarebbe stato molto più di compagnia, ne era sicuro. Come se quella bestia avrebbe notato la differenza… Forse sì, mi direbbe che sono ancora più molesto, pensò con un ghigno sulle labbra, e appoggiò con delicatezza il mento su quei capelli ispidi, gli occhi a mezz’asta, pregustando la dolcezza di quel sonno ristoratore.

Non fece in tempo nemmeno a chiudere gli occhi.

Il suo compagno gli diede un violento scossone alle gambe e Horo mugugnò contrariato, ma le sue proteste si acquietarono di colpo quando i suoi occhi assonnati misero a fuoco un flebile chiarore proveniente dall’ennesima curva.

Trattenne il fiato, deglutendo a fatica con le parole ancora annodate in gola, e scivolò giù dalla schiena dell’altro, fermandosi a pochi centimetri da terra per poter appoggiare i piedi con movenze lente e controllate per non fare rumore.

Fissarono entrambi quella luce per qualche momento, il respiro poco più di un alito d’aria che gli sfuggiva dalle labbra, il petto che si abbassava con una lentezza quasi dolorosa. Horo sentì i polmoni bruciare, ma non per questo si affrettò a inspirare un po’ di ossigeno per dargli sollievo; se possibile, rallentò ancora di più il suo respiro, sentendo una sensazione liquida raccogliersi all’imboccatura dello stomaco, fredda come metallo fuso e pesante come piombo.

Strana cosa la speranza: non aveva desiderato altro che trovare quei misteriosi viaggiatori o una qualunque altra forma di vita da quando si era deciso a tallonare il suo compagno in quel tunnel e ora che aveva di fronte una prova del fatto che qualcun altro fosse lì sentiva l’irrefrenabile impulso di scavarsi una buca sul posto e sprofondare nelle viscere di quella caverna. Muovere un passo verso quella luce avrebbe significato trovare persone, ma chi? Amici o nemici? Un pasto caldo e sorrisi o una spada nel ventre e risate di scherno?

Portò a fatica lo sguardo sulla presenza accanto a lui e rimase congelato sul posto; la pozza di metallo che sentiva nello stomaco si fece improvvisamente pesante, minacciando di lacerarlo dall’interno, e sentì il sangue gelarsi nelle vene. Quegli occhi, quello sguardo non era umano. Poteva sentirlo, l’odore di un istinto sanguinario tenuto a bada dalla mente calcolatrice di un cacciatore, e il suo primo istinto fu quello di fuggire. Darsela a gambe. Perché qualunque altro essere in sua presenza non era altro che una preda e sentiva quella schiacciante verità in ogni fibra del suo corpo, che si ribellava a quella vicinanza urlando a pieni polmoni, facendogli tremare braccia e gambe, rendendogli le ginocchia molli, ancorandolo al suolo.

“Rimani dietro di me.” Sussurrò. La sua voce era seria, ma non trasudava neanche una goccia di quell’aura sanguinaria che emanava il suo corpo.

Il bardo sobbalzò a quelle parole, temendo di essere stato colto sul fatto a fissarlo come un ebete, ma tentò di dissimulare il terrore e l’imbarazzo con un cenno lento del capo. “Ti seguo.” Mormorò in risposta, sentendo le parole raschiare contro le pareti aride della sua gola.

Si mossero con cautela verso la luce, e l’alone chiaro che questa tracciava a terra si allargò sempre più, fino a quando non ne vennero inghiottiti.

Horo trattenne il fiato, tenendo le braccia alzate di fronte a sé in uno spaurito tentativo di difesa, e sbatté le palpebre più e più volte, cercando di riabituarsi il più velocemente possibile al nuovo ambiente per non farsi cogliere impreparato, la testa che guizzava in ogni direzione, frenetica. Se pochi secondi prima non sapeva che cosa aspettarsi, ora sapeva che non era quello. Lanciò un’occhiata di sottecchi al suo compagno e, dal suo sguardo, capì che lo stesso valeva per lui.

Dopo la curva, il tunnel si allargava in uno spazio abbastanza ampio, una sorta di piccola camera interna, per poi proseguire, immergendosi nuovamente nel buio. Lo spiazzo era illuminato dalle saettanti lingue di fuoco di un piccolo falò rudimentale. Accanto alle pareti, sempre all’interno del cerchio di luce, erano ammassati zaini, bisacce, provviste, tutto alla rinfusa.

Confuso, Horo fece vagare lo sguardo intorno a lui; il che, a dirla tutta, non gli prese molto tempo. Quel posto non era così grande. Eppure, non riuscì a individuare la benché minima traccia di vita. Sbatté le palpebre per l’ennesima volta, perplesso. Aprì la bocca per tentare di esprimere i mille dubbi e ipotesi che gli affollavano la mente, ma la richiuse di scatto, puntando lo sguardo verso l’oscurità del tunnel che si spandeva di fronte a loro.

Pochi secondi dopo, dal buio emersero cinque figure, i loro contorni tremuli man mano che si avvicinavano al fuoco. Erano armati.

Non riconobbe nessuno dei loro volti.

Amici o nemici?

Il ringhio gutturale che si levò da un punto di fianco a lui gli segnalò che il suo compare aveva già trovato una risposta alla sua domanda silenziosa. Nonostante si fosse abbassato, pronto a scattare verso i loro misteriosi assalitori, la sua stazza rimaneva impressionante.

La figura incappucciata che li guidava si fermò. Non poteva biasimarlo, chiunque avrebbe esitato a quella vista. Ma nessuno avrebbe mai pensato di abbassare la propria arma, ecco. Quello sarebbe stato da stupidi… Eppure fu proprio quello che fece, entrando nel cerchio di luce; si scostò il cappuccio dal volto, rivelando un sorriso bonario e un paio di occhi vispi, che risaltavano nel bagliore del fuoco.

“Non abbiamo cattive intenzioni. Siamo amici.” Disse, rivolgendo loro un ampio sorriso. Ridacchiò quando ricevette un ringhio per tutta risposta e lasciò cadere la balestra a terra, alzando le mani in segno di resa. “È la verità. Non volevamo attaccarvi, ma non avevamo la più pallida idea di chi foste. Sono contento di vedere che vi siete ripresi.” A un suo cenno, anche le altre figure abbassarono le armi e si avvicinarono al fuoco, rivelando i loro volti.

Lo affiancò una giovane che, nella luce calda che riempiva quella grotta, sembrava aver assunto uno strano colorito bluastro. Annuì alle parole del suo compagno di viaggio, facendo ondeggiare la chioma di ricci che le cresceva fino alle spalle. Horo notò due strani bozzi sulla parte alta della sua fronte. Strano. “Allora le mie pozioni hanno funzionato!” Trillò, estatica, unendo la punta delle dita di fronte a sé.

Quando vide che il bardo si era portato di scatto la mano alla bocca, inorridito, e che il gigante di fianco a lui si era irrigidito, sventolò la mano, come a volerli rassicurare. “Ma no, tranquilli. Funzionano seeeempre… E poi siete in piedi, no?” Rivolse loro un tiratissimo sorriso a trentadue denti, rivelando un paio di canini che sembravano più zanne che altro.

Horo si limitò a umettarsi le labbra, cercando di ricomporre i pezzi del puzzle nella sua mente. Allungò una mano, poggiandola sul braccio dell’altro per cercare di trasmettergli che forse era il caso di rispondere alla cordialità con la cordialità, anche se le rimanenti tre figure non si erano ancora pronunciate in merito, tenendosi a distanza. Però, riconosceva quelle voci…

“Tu sei uno dei viaggiatori che ci ha salvato…” Esordì, cauto. “E tu…” Spostò lo sguardo sulla ragazza, che aveva le guance di un’intensa sfumatura blu per lo sforzo di mantenere quel sorriso. “…credo di aver sentito la tua voce, quando mi trovavo nella caverna.”

Il ragazzo annuì, grattandosi la barbetta che gli ricopriva le guance. “Dovete essere affamati. Perché non vi unite a noi? Abbiamo carne secca per tutti!” Indicò con fare gioviale lo spazio intorno al falò e si diresse verso gli zaini, iniziando a frugare tra le tasche, borbottando tra sé e sé. “O almeno credo, ma non penso che importi.” Si mise a fischiettare, perso nel suo mondo.

Una figura alta che, fino a quel momento si era tenuta in disparte, fece un passo verso il mucchio di oggetti, accompagnato dal fruscio della sua lunga tunica. Era un uomo allampanato che si reggeva a un bastone nodoso alto quanto lui sulla cui cima si poggiava con fare imperioso un falco. L’animale fece scattare il becco in direzione del ragazzo, emettendo schiocchi e chiocci, esprimendo il suo disappunto.

L’uomo puntò i suoi occhi scuri in quelli dei due sopravvissuti, squadrandoli con fare sprezzante. “Prima mi costringete a creare dell’acqua, facendomi sprecare i miei poteri per questi due esseri, e poi vorreste anche costringermi a vagare per questa montagna a pancia vuota togliendomi il cibo di bocca?” Li indicò, ruotando il bastone. Il falco gracchiò, sbattendo le ali per mantenersi in equilibrio, e graffiò il bastone con gli artigli. “Io dico che non ci possiamo fidare. Chi sarebbero poi? Non conosciamo né i loro nomi né la loro storia.”

“Potrebbero essere dei criminali o dei condannati a morte.” Aggiunse la voce profonda di una donna, proveniente da una figura massiccia dietro alle spalle della ragazzina cianotica. “Avremmo dovuto lasciarli dov’erano.” Strinse un pugno grande quanto una testa, assottigliando lo sguardo.

Mentre assisteva a quel rapido scambio di opinioni, Horo si decise a fare un passo avanti, raccogliendo il coraggio di cui fino a quel momento aveva fatto volentieri a meno. Il suo compagno poteva anche essere forte e sarebbero riusciti a farsi strada in quel gruppetto a suon di pugni, ma in quel momento serviva ben altro: diplomazia. E chi poteva sperare di placare i loro animi con le giuste parole se non un bardo?

Si schiarì lievemente la voce, cercando di attirare la loro attenzione su di lui. Il gruppo gli puntò gli occhi addosso, in attesa.

“Non ho nessuna prova per convincervi della nostra innocenza di fronte alla legge,” il donnone borbottò qualcosa di molto simile a un ‘ve l’avevo detto io’, ma continuò, ignorandola, “ma posso assicurarvi che non abbiamo cattive intenzioni. Vorrei ringraziarvi di cuore per averci liberato. Gli ultimi giorni sono stati un inferno per noi… Avete visto in che condizioni eravamo quando ci avete trovato e, sinceramente, avevo perso ogni speranza credendo che sarei morto in quel buco. Poi siete arrivati voi. Ci avete slegato, curato, dissetato. Se c’è un sentimento che proviamo nei vostri confronti, questi non è altro che gratitudine, della forma più profonda e pura. Vogliate scusarci per esserci mostrati diffidenti poco fa, ma temevamo che foste i nostri carcerieri o peggio.”

Forse si era lasciato leggermente prendere la mano e aveva elevato eccessivamente il registro, ma la sua parlantina sembrava aver sortito l’effetto desiderato. Non aveva cancellato il dubbio negli occhi dell’uomo con il falco, però, né in quelli dell’elfo dalla pelle scura, che continuava a fissare la scena in silenzio, il volto insondabile. Tre persone dalla loro su cinque, però, erano un buon risultato.

“Inoltre, vi ringraziamo per la gentile offerta di dividere le vostre provviste con noi. Se non dovessero bastare, vi prego di non badare a noi. L’unica cosa di cui abbiamo bisogno è un po’ di riposo, lontano dai pericoli. Se foste così gentili da lasciarci passare qui la notte, promettiamo di aiutarvi come meglio potremo per sdebitarci.” Concluse, accompagnando le parole con un sorriso gentile. Allungò un buffetto al braccio del suo compagno che, però, si limitò a grugnire qualcosa che poteva essere interpretato come un ‘grazie’. Era già qualcosa.

La ragazza blu batté le mani entusiasta e annuì più volte, prendendo posto vicino al fuoco e invitandoli a fare altrettanto. Horo si sedette dall’altra parte del falò, di fronte a lei, e il suo compagno prese posto di fianco a lui, riluttante. Seduto accovacciato a quel modo aveva un che di buffo, ma non si sarebbe mai azzardato a dirglielo.

“Comunque, per una volta Kahfs ha ragione…! Non ci siamo neanche presentati con tutta quella storia che per poco non vi abbiamo riempiti di frecce.” Ridacchiò. “Io sono Anya.”

“E io mi chiamo Jazandapus, ma Jaz va benissimo.” Aggiunse con entusiasmo il ragazzo, tornando con le provviste. Allungò un paio di strisce di carne secca ai loro ospiti. “Ne abbiamo per tutti, tranquilli, avevamo fatto scorta prima di lasciare la città.” Li osservò raggiante mentre Horo e il suo compare si avventavano sul loro pasto con foga, divorando il tutto in pochi minuti masticandolo alla bell’e meglio.

“Dato che gli altri sono un po’ timidini, ve li presento io.” Si propose Anya, grattandosi uno dei bozzi che aveva sulla fronte. “Quel tipo alto e scorbutico è Kahfs con il suo falco Rufus, mentre l’orchessa alle mie spalle è Barika. Guaranì invece è l’elfo lì nell’angolo.” A quelle parole, l’elfo, che stava giochicchiando con un pugnale, sollevò lo sguardo e alzò una mano in segno di saluto. La sua espressione rimaneva illeggibile. Horo sollevò una mano di rimando, ancora impegnato a togliersi i residui della cena dai denti.  “Tranquilli, sembra che gli stiate tutti antipatici, ma è solo la sua faccia che è perennemente così. In realtà ci vuole bene.”

Horo passò in rassegna quel gruppo, stampandosi nella memoria i loro volti, cercando di ricordare i loro nomi: erano un’accozzaglia di persone e, per quanto amichevole si fosse dimostrata Anya, sembrava che il suo sorriso fosse facile da conquistare. Come aveva accolto benevolmente lui e il suo compare, due completi sconosciuti di cui non sapeva assolutamente niente, aveva anche parlato dei suoi compagni di viaggio. L’entusiasmo che ci aveva messo non differiva, e lo stesso valeva per Jaz, che sembrava amichevole di natura. In sostanza, non sembravano estremamente legati tra loro, né affiatati; semplicemente… stavano. Qualunque fosse il motivo per cui viaggiavano insieme, non era di certo amicizia. Il loro collante poteva essere un obiettivo comune, una meta magari, un tesoro o una qualche ricompensa, e il fatto di avere due elementi come quei due ragazzini a tenerli insieme era solo un extra.

E quello poteva rivelarsi un asso nella manica nel caso in cui le cose si fossero messe male.

Allungò le mani verso le fiamme e flesse lentamente le dita, godendosi il tepore che si propagava dai palmi fino all’ultimo polpastrello. Anya si rivelò essere una stregona alle prime armi e spiegò al bardo come li avevano trovati e che tipo di cure gli avevano somministrato. Chiacchierare con lei si rivelò alquanto piacevole, e ben presto anche Horo si lasciò leggermente andare, rivelandole del suo lavoro, delle sue canzoni, dei suoi viaggi; e di come non avesse memoria dei giorni che precedevano il suo rapimento. Nel mentre, chi con più o meno riluttanza, si erano tutti avvicinati al falò e avevano preso posto, masticando carne secca e trangugiando il contenuto delle loro borracce. Jaz si era seduto di fianco al suo compagno e aveva subito attaccato bottone, con sommo disagio del suo interlocutore.

“Già, siamo finiti col seguire questo brontolone nelle viscere di una montagna solo perché degli invasati l’hanno guardato un secondo di troppo nella piazza di un villaggio. Non fare domande, è imbarazzante…” Disse Jaz ridacchiando, e sventolò una mano di fronte al suo viso come a voler scacciare qualunque tentativo di approfondire la questione. Poi abbassò la voce, rivolgendosi anche a Horo con fare cospiratore. “Ma vi rendete conto? La gente crede ancora alle profezie. Come se Kahfs possa essere parte di un piano più grande di lui. E quel pazzo di un druido ha comunque deciso di trascinarci qui…!”

Horo gli rivolse un sorriso di cortesia, confuso da quell’improvviso coinvolgimento in una conversazione di cui non sapeva l’inizio.

La robusta orchessa allungò uno schiaffo sulla testa di Jaz. Il ragazzo, preso alla sprovvista, perse l’equilibrio e cercò di ammortizzare la sua caduta, ma finì comunque lungo disteso, mancando il falò per un pelo. “Per caso vuoi dirgli anche chi è tua madre? Cerca di darti un contegno.” Abbaiò, anche se nella sua voce c’era una leggera punta di divertimento. Il gruppo si mise a ridere di gusto e Horo si permise di lasciarsi sfuggire una risatina sottovoce. Il falco frullò le ali, indispettito, e svolazzò su una sporgenza di roccia, occhieggiandoli severo dal suo trespolo improvvisato.

Il ragazzo, ancora con la faccia a terra, si unì al coro di risate e si rotolò a pancia in su, guardandola. “Dai, Barika, ti sei lamentata fino a poco fa che seguire Kahfs non ti ha portato altro che guai. E poi, sono comunque delle belle avventure! E a cosa servono le avventure se non a raccontarle a qualcuno?” Appoggiò il peso sui gomiti, facendo spallucce. “Come quando ti sei lanciata dal tavolo in quella locanda e sei atterrata su quei due halfling, SBEAM! È stato pazzesco, lo rifarei anche domani!”

“Uhm.” Esordì il bestione di fianco a Horo, ma il suo tentativo di schiarirsi la voce risultò in uno strano rombo cavernoso, che azzittì l’allegra caciara. L’attenzione si spostò interamente su di lui.

“Dicci pure, amico.” Lo esortò l’elfo dopo qualche attimo di silenzio, ma più che un incoraggiamento suonò come una presa in giro.

“Volevo solo, uh, chiedere dove si trova il vostro sesto compagno.” Quattro paia di occhi sbatterono le palpebre, confusi a quella domanda.

Fu Barika a prendere la parola. “Credo che stia parlando di Kei.” Borbottò. Le sue parole vennero seguite da un coro di “ooo” di assenso. L’orchessa continuò, grattandosi la nuca, leggermente a disagio: “Eravamo compagne di viaggio; lei è, uh, ci ha abbandonati dopo avervi salvato. Diceva di avere faccende importanti da sbrigare.” Riportò lo sguardo su di lui. “Perché?”

“Immagino che volesse ringraziarla.” Si intromise Horo, e il suo compagno fece un breve cenno di assenso.

“Non ho riconosciuto la sua voce tra le vostre, tutto qui.” Aggiunse l’altro.

“Io direi che avete fatto anche abbastanza domande finora. Adesso tocca a noi.” Disse il druido, accigliato, e si sporse leggermente verso i loro due ospiti, fissandoli attraverso la danza sconnessa delle fiamme. “Chi siete e cosa ci fate qui?”

“Almeno diteci i vostri nomi…!” Disse Anya, dissipando visibilmente la cappa di tensione che le parole del suo compagno avevano fatto calare intorno al falò. “Insomma, noi ci siamo presentati, quindi… Vedetelo come uno scambio equo di informazioni.” Rivolse loro un dolce sorriso, e Horo poté sentire il suo compare muoversi leggermente sul posto, quasi come a disagio.

“Io sono Horo,” sorrise il bardo con fare sornione, e guardò negli occhi i presenti, uno a uno, “e sono un bardo, un viaggiatore. Mi nutro di storie e diletto la gente con le mie composizioni. E il qui presente campione di cordialità è…” Fece un ampio gesto con il braccio, indicandolo con fare teatrale.

L’unico rumore che riempì il silenzio era il crepitare del fuoco.

Horo si accigliò. “È…!” Ritentò, guardandolo ed esortandolo a dire qualcosa. Le sue parole rimbalzarono nuovamente contro il muro del suo mutismo. Sembrava che lo stesse bellamente ignorando.

“Come ti possiamo chiamare? Immagino che tu ce l’abbia, un nome.” Disse Anya, le labbra arricciate in un piccolo sorriso, come a volerlo incoraggiare.

Lui sollevò appena lo sguardo, posando le sue iridi scure come pece negli occhi di lei. “…Aennìleas.” Mormorò. “Sono… Mi chiamo Aennìleas, sono uno shifter. E un mercenario.” Concluse, chiudendosi a riccio, per quanto la sua stazza glielo permettesse. La ragazza sorrise, ma lui distolse lo sguardo.

Horo boccheggiò, estremamente indignato. “Cos-? Come? Perché?!”

Aennìleas inarcò un sopracciglio, guardandolo di sottecchi.

Tu!” Disse, puntandogli un dito contro e riuscendo chissà come a caricare quella parola di tutto lo sdegno che aveva in corpo. “Abbiamo passato insieme l’inferno! Ho tentato per giorni di parlare con qualcuno per non uscire di testa e mi hai risposto a grugniti! Ci liberano e la prima cosa che fai quando ti svegli è insultarmi! Non hai fatto altro che maltrattarmi per tutto il tempo e io, che ti avevo dato la mia più totale ed estrema fiducia, presentandomi e tutto-!” Gesticolò con foga, la voce incrinata per l’apnea in cui aveva forzato i suoi polmoni. “E tu!” Riprese avidamente fiato, strabuzzando gli occhi. “Tu! Non mi dici neanche il tuo nome! Ma se te lo chiede la prima bella signorina che trovi allora va bene, lei sì!” Sputò fuori dai denti, aggrottando le sopracciglia.

Alle parole bella signorina, Anya si lasciò sfuggire un risolino.

Aennìleas sbuffò, schiudendo le labbra in quello che sembrava essere un vago sorriso di scherno, e continuò a sorbirsi le proteste del bardo senza degnarlo di una risposta, tra le risate sempre più divertite del gruppo.

Le proteste di Horo si acquietarono durante la serata, anche se il bardo non si lasciò sfuggire neanche un’occasione per rinfacciare al suo compare tutte le angherie che aveva dovuto subire. Il loro teatrino unito ai racconti comici delle avventure del gruppo fece sì che le ore passassero veloci e piacevoli, scandite dai borbottii del druido, per niente contento della situazione.


Aennìleas si sdraiò di fianco a lui sotto lo sguardo attonito di Horo. Il bardo lo squadrò da capo a piedi, cercando di capire che cosa lo avesse spinto a stargli vicino dopo averlo insultato per tutto il tempo. Pensava che non vedesse l’ora di starsene per i fatti suoi. Invece, contro ogni sua aspettativa, quello si rannicchiò su se stesso e chiuse gli occhi.

Così. Senza battere ciglio. Horo era sempre più confuso dal suo comportamento.

Il sonno però, lo convinse a non farsi troppe domande da aggiungere alle altre che gli ronzavano in testa, e si sdraiò a sua volta per terra, sistemando il terriccio e la ghiaia in modo che gli facessero da rudimentale cuscino.

Finalmente, dopo quella che gli era parsa un’eternità, chiuse gli occhi, le mani sotto la guancia e le gambe rannicchiate al petto.

“Horo.”

Il bardo aprì un occhio al sentire il suo nome, esalato in poco più di un sussurro. Fissò il suo sguardo ciclopico negli occhi di Aennìleas che, a differenza dei suoi, erano aperti e vigili.

“Sono stanco.” Ribatté scocciato, ma premurandosi di mantenere basso il tono di voce, imitando il suo compagno. “Che vuoi?”

“Hai visto il pugnale dell’elfo?” Continuò, ignorando i suoi modi taglienti.

“No…?” Rispose lui, con una punta di derisione nella voce. Come se fosse stato un dettaglio su cui doversi soffermare, poi. Quando li avevano incontrati, erano tutti armati. Che differenza faceva se di un pugnale o di una balestra?

“È lo stesso che hanno usato per far fuori gli altri nella caverna.” Rispose lui in tono piatto. Horo spalancò anche l’altro occhio, improvvisamente più interessato. Quel dettaglio poteva cambiare le carte in tavola, e di molto, anche se non riusciva a spiegarsi il fatto che il loro odore fosse così diverso da quello dei loro carcerieri. Ma dissimulò i suoi pensieri, fingendosi più stupito che pensieroso.

Si umettò le labbra, continuando a fissare quei pozzi neri così vicini. “Facciamo attenzione, allora.”

L’altro fece un cenno silenzioso e richiuse gli occhi, troncando la conversazione, intenzionato a godersi un po’ di riposo.

Horo tenne gli occhi aperti e si prese del tempo per scrutare le pareti della caverna, il profilo delle persone addormentate, la sagoma vigile e attenta di Barika, seduta di fianco al fuoco coccolando la sua ascia in grembo. E, nel mentre, la sua mente continuava a lavorare incessantemente su tutte le informazioni di cui era entrato in possesso in quelle poche, ma fruttuose, ore.

Quel nuovo tassello lo turbava, ma una parte di lui non riusciva comunque a sospettare che quel gruppo di sbandati fosse in realtà una banda di sadici sanguinari. Non l’aveva sentito in loro, quell’istinto. Cullato da questa sicurezza irrazionale, richiuse lentamente gli occhi, affidandosi al dolce oblio.

L’orchessa si dondolò appena, sistemandosi in una posizione più confortevole, e inclinò leggermente la testa, come intenta ad ascoltare qualcosa con attenzione; rumori che neanche Horo poteva sentire.

  
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