Crossover
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Autore: Registe    09/04/2020    4 recensioni
Quarta storia della serie "Il Ramingo e lo Stregone".
La guerra tra l'Impero Galattico e la famiglia demoniaca si è conclusa, ma non senza un costo. Vi è una cicatrice profonda che attraversa mondi e persone, le cambia, rimane indelebile a marchiare i frammenti di tutti coloro che hanno la fortuna di essere ancora vivi. Qualcuno decide che è il momento giusto per partire, cercare di recuperare qualcuno che si è perso. Qualcuno decide di dimenticare tutto e lasciarsi il passato alle spalle.
Qualcun altro decide invece di raccogliere i frammenti di una vita intera e metterli di nuovo insieme, forse nella speranza che lo specchio rifletta qualcosa di diverso.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Film, Libri, Videogiochi
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Ramingo e lo Stregone'
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Capitolo 3 - Cacciatori e prede







La Slave I








Anche il contadino più ignorante di Tatooine avrebbe saputo riconoscere un Mandaloriano se ne avesse incontrato uno. Dopo i Jedi erano praticamente l’ordine di guerrieri più famoso della Repubblica, e persino nelle arene mabari aveva visto proiettare ologrammi di questi soldati dalle armature inconfondibili in volo su degli zaini a razzo.
Dei guerrieri eccezionali, noti per il loro codice ma anche per la mentalità inflessibile. Per saper combattere da soli anche due o tre Jedi contemporaneamente e per il benessere e la ricchezza del loro pianeta, Mandalore, dovuti, alle miniere di beskal la cui lega non veniva ceduto a nessuno che non fosse un Mandaloriano, nemmeno davanti alle generose offerte della Federazione dei Mercanti di Nemoidia. Un Mandaloriano era pensato per essere invincibile, letale, incorruttibile.
Esattamente l’ultima persona di cui avrebbe voluto essere prigioniera.
Zam riprese a respirare regolarmente solo quando la nave era entrata nell’iperspazio da una discreta manciata di minuti. Il ronzio dei motori, molto lieve, la svegliò dal torpore. E parte di sé decise che forse sarebbe stato preferibile rimanere priva di coscienza ancora per un altro po’.
Era sospesa a un paio di palmi da terra: un piatto gravitazionale sul pavimento della nave ed uno sopra la sua testa emettevano delle leggere pulsazioni, e l’aria intorno a sé era pesante e ionizzata. Il magnete che attivava i piatti era chiaramente posizionato nelle manette elettrostatiche che le bloccavano i polsi a livello del petto. Il primo istinto fu quello di provare a rimuoverle o quantomeno a testarne la resistenza, ma la scarica che ne seguì fu abbastanza dolorosa da costringerla a desistere. La sensazione di pesantezza a livello delle braccia si sarebbe senza dubbio acuita nel corso del viaggio, dunque strinse i denti e cercò di conservare le poche forze che si sentiva in corpo. La gamba sinistra continuava a farle male, ma l’assenza di gravità diminuiva il carico sul ginocchio e le fitte erano molte meno di quando era stata catturata.
Il pensiero delle mani del corelliano su di sé le fece correre un brivido lungo la schiena.
La cella gravitazionale si trovava in quella che doveva essere la stiva della nave del Mandaloriano. Era immersa nell’oscurità, ma la luce azzurra delle manette elettrostatiche era in grado di fornirle un’idea dell’area, e le luci intermittenti di quello che doveva essere un quadro comandi rivelavano sostanzialmente l’intero piano. Doveva trattarsi di un’astronave di dimensioni ridotte, perché l’intera stiva non era più grande di un paio di nidi alveari geonoisiani; contò altre quattro celle gravitazionali oltre la propria, tutte vuote. Lungo la parete più lontana dalla sua vista vide una piccola vasca da congelamento carbonitico spenta, ma non le parve di vedere nessuna figura senziente bloccata in quella prigione metallica e fu contenta di non essere stata rinchiusa lì dentro, congelata come una statua in attesa di essere consegnata come un pacco a chiunque avesse desiderato la sua testa.
Perché, era pronta a scommetterci entrambe le gambe, il cacciatore di taglie non l’aveva sottratta ai suoi inseguitori per mera filantropia.
Nella Galassia le persone che avrebbero voluto esporre un clawdita come trofeo erano molte più di quelle che le avrebbero aperto la porta in caso di bisogno. E dei committenti che potevano permettersi i servigi di un Mandaloriano gliene venivano in mente davvero pochi.
Quasi avesse sentito del suo risveglio -o forse qualche maledetto sensore di quella cella si era attivato- dal soffitto si aprì uno spazio ed una scala metallica venne calata nella stiva occupando più della metà dello spazio disponibile. Il suo rapitore ne scese, armato di tutto punto esattamente come lo aveva incontrato.
Per quanto avesse paura, Zam decise che non gli avrebbe reso la vita facile. Mandaloriano o meno.
“Avanti, Mando. Spara. Ti paga qualcuno del Clan Bancario? Quelli di Kerkoidia?” serrò i denti “Qualche altro Hutt?”
L’altro non rispose. Nonostante il viso completamente coperto dall’elmo era sicura che l’avesse sentita. Le diede le spalle, armeggiò sul quadro comandi e l’istante dopo Zam sentì qualcosa saettarle nell’aria e pungerla all’altezza del collo. Mosse la testa d’istinto, ma qualunque cosa fosse le rimase incollata e quello che era chiaramente un ago le iniettò qualcosa che le iniziò a bruciare sotto la pelle. Capì cosa stava succedendo, e nonostante la situazione non riuscì a trattenere un piccolo ghigno.
La seconda iniezione arrivò dopo una decina di secondi. Stavolta nemmeno si mosse, immaginando la faccia del suo rapitore sotto il casco. Come prevedibile seguì un’altra serie di punture, ma la lunga serie di aghi non era nulla rispetto al dolore al ginocchio o alla soddisfazione di vedere le mani del Mandaloriano, prima lente e controllate, selezionare le droghe sempre con maggior stizza. L’ultimo ago, spesso quanto un suo dito e pensato per attraversare probabilmente la pelle coriacea di un Hutt, le si piantò nel braccio e le attraversò anche la tuta, ma a parte il dolore e la sensazione di gonfiore sotto la pelle non si sentiva né stanca né stordita. “Ti consiglio di rinunciarci, Mando. Sprechi il tuo tempo” mormorò “E un bel po’ di fiale”.
Quello rimase ancora qualche secondo fisso contro la plancia, poi la spense. “Errore mio. Mi avevano avvisato che voi clawditi siete coriacei. Ma valeva la pena fare un tentativo”.
“Ti dà fastidio avere la tua preda sveglia?”
“Una preda che nemmeno un’ora fa ha aperto la gola di un collega non esattamente alle prime armi nonostante una gamba sfracellata? Più che fastidio direi … motivata diffidenza”.
Da una fondina estrasse un blaster, si appoggiò ad una parete e lo strinse tra le mani. Non lo puntava in nessuna direzione, ma Zam era certa che se avesse tentato qualche movimento strano quell’uomo avrebbe impiegato meno di un battito di ciglia per aprirle un buco nella fronte. Era chiaro che la nave stesse viaggiando con l’iperguida automatica e che il cacciatore avesse tutte le intenzioni di tenerla sotto tiro per il resto del viaggio.
Lei si irrigidì, respirando l’aria ionizzata. Parte di sé avrebbe voluto chiudere gli occhi e recuperare le forze in attesa di cogliere l’occasione propizia per liberarsi; la testa ancora le martellava per l’inseguimento, ed anche una sola ora di riposo avrebbe permesso al suo corpo di riprendersi. Ma d’altra parte non sarebbe mai riuscita ad abbassare le palpebre con un uomo con lo sguardo fisso su di lei, soprattutto con un blaster in mano. Se quello avesse voluto farle quello che aveva tentato il corelliano, dopotutto, doveva essere pronta a difendersi.
Passarono diversi minuti, ma il Mandaloriano rimaneva immobile. Se non fosse stato che le aveva rivolto la parola avrebbe potuto pensare ad una statua: la mano che impugnava il blaster era appoggiata lungo il fianco, e da sotto il tessuto che emergeva tra le piastre della cotta poteva vederne i muscoli in tensione. L’armatura gli ricopriva il petto, le braccia e quasi tutte le gambe, rendendole impossibile capire anche solo se stesse respirando; puntava gli stivali contro una delle grate di aereazione sul pavimento della stiva senza nemmeno spostare di tanto in tanto il peso da una gamba all’altra. La mano libera era poggiata contro la cintura, ed a livello del polso Zam non poté non notare uno dei complessi sistemi di generazione di fiamme che avevano reso le armature mandaloriane celebri quasi quanto la loro durezza. L’acciaio dell’armatura, almeno da quello che riusciva a vedere dalla sua scomoda posizione, presentava ben pochi graffi o ammaccature.
Il viso, come da tradizione di quei guerrieri, era coperto da un elmo che consentiva la visuale al proprietario attraverso una fessura con un sensore plineale che gli consentiva di vedere tutto intorno a sé. Il sensore era puntato nella sua direzione, ed a giudicare dalle flebili luci che si potevano intravedere, stava cercando di scansionarla alla ricerca di chissà quale parametro.
“Il Vigo Antonin” disse lui, rompendo il silenzio. “È lui che paga”.
Zam si irrigidì.
Un Vigo. Uno dei capi del Sole Nero.
Aveva sempre evitato di incrociare la propria strada con quello che era uno dei più famosi cartelli criminali della Galassia, ma anche così era ovvio che non poteva sperare di nascondersi in eterno. “Suppongo che il fatto che il suo rivale Dreddon de Hutt avesse messo le mani su una rarissima cambiapelle lo abbia fatto diventare verde dall’invidia”.
“Punto numero uno, Mando. Chiamami cambiapelle ancora una volta e giuro che prima di crepare trovo un modo per strapparti le palle e fartele ingoiare” ringhiò. Per la stizza mosse le braccia, ma le manette elettrostatiche le ricordarono l’errore sfrigolandole i polsi. “Punto numero due … se questo Vigo pensa di mettermi le mani addosso come quella lumaca troppo cresciuta …”
Lui la interruppe con un gesto della mano libera, il primo movimento fatto da quando quella conversazione era iniziata. “Ha detto che gli andavi bene viva o morta. Suppongo che gli basti il poter esporre una clawdita in un cilindro di septoldeide. Non sarebbe la prima volta che paga per aggiungere un pezzo alla sua collezione”.
Il cuore di Zam riprese ad accelerare.
Erano più di dieci anni che i già pochi clawditi esistenti vivevano solo per nascondersi. Chi ne aveva avuto la possibilità, come lei, aveva abbandonato Zolan prima che gli altri abitanti del pianeta, quelli incapaci di mutare aspetto come loro, iniziassero la caccia. I più vecchi avevano avuto fiducia nella Repubblica ed avevano trascorso gli ultimi giorni della loro vita in attesa che il loro caso venisse sottoposto all’attenzione del Cancelliere e del suo stuolo di politici bavosi che non vedevano alcun ricavo nell’occuparsi di una crisi umanitaria di un pianeta vicino all’Orlo Esterno. Chi era riuscito a lasciarsi alle spalle il proprio mondo si era abituato a vivere nella Galassia, scegliendo un aspetto piuttosto che un altro per nascondersi ed eludere tutti quei cacciatori di taglie che venivano pagati per riportarli su Zolan o venderli al migliore offerente.
Lei, che aveva imparato a combattere da quando avesse memoria, aveva persino provato ad offrirsi come guardia del corpo, ma anche nei pianeti meno conosciuti la gente preferiva vedere una donna che cambiava aspetto più chiusa in una gabbia che nelle loro abitazioni. “Avresti potuto spararmi, allora, Mando” disse “Avresti avuto i tuoi soldi e ti saresti risparmiato tutte quelle fiale”.
“Non uccido se non è necessario”.
Zam lo osservò, stavolta con curiosità, attirata dal leggero cambio del suono. Nonostante venisse riprodotta mediante i sintetizzatori del casco era certa che avesse abbassato molto il tono della voce. “Il famoso codice d’onore dei Mandaloriani?”
“La cosa ti diverte, cambiapelle?”
“Un po’ …”
C’era un uomo sotto quella maschera di beskal. Un uomo che credeva in qualcosa, qualcosa di fin troppo evidente agli occhi di un altro guerriero. “… voi umani l’onore non sapete nemmeno cosa sia”.
“Non sei nella posizione di provocare nessuno”.
“Ma io non sto provocando. Sto solo dicendo la verità”.
E sì, adesso aveva davvero la sua attenzione. L’uomo aveva alzato la testa, seppur di poco, e le dita sul calcio dell’arma si erano serrate.  Forse, sorrise tra sé, avrebbe ottenuto ciò che sperava. “Un guerriero con un briciolo di dignità non consegnerebbe nessuno ad un riccone annoiato per essere esibito sotto vetro come un animale” disse “Avrebbe almeno la dignità di sparargli un colpo alla tempia”.
L’altro fece un passo in avanti. “Dove vuoi arrivare?”
“Vedi tu, Mando” rispose, stavolta senza nascondere la stanchezza che le aveva preso le tempie sin da quando la sua fuga dal palazzo dell’Hutt era iniziata. “Tu cosa preferiresti? Un’agonia di ore nella septoldeide che ti cristallizza gli organi interni o qualcosa un po’ più … indolore?”
“Io preferirei rimanere vivo, cambiapelle. Ed è ciò che intendo continuare a fare per molto tempo”.
Zam inghiottì l’insulto. “Ti sembra che io abbia questa possibilità?”
“No, non la hai”.
L’astronave ebbe un sussulto, come se fosse uscita dall’iperspazio. Tutto intorno a loro le pareti della stiva si mossero e vennero sbalzate, ma il cacciatore di taglie rimase in perfetto equilibrio; aspettò qualche secondo, poi assicurò il blaster alla cintura ed iniziò a salire le scale per riprendere il controllo del velivolo nelle fasi di atterraggio. Lei fece per dire qualcosa, ma prima che dalle sue labbra potesse uscire al altro suono la scala si richiuse contro il soffitto della stiva gettando ancora una volta l’ambiente nel buio mentre la nave iniziava a decelerare senza nemmeno uno scossone.
Zam si morse il labbro, fissando il punto in cui l’uomo era scomparso.
Non aveva mai implorato per la propria vita, e non avrebbe iniziato in quel momento. Non avrebbe strisciato davanti a nessuno e di certo il Mandaloriano non l’avrebbe sentita piangere per essere liberata.
Ma poteva chiedere una morte onorevole, quantomeno. Lei non l’avrebbe negata a nessuno.
La nave rallentò ancora, e le vibrazioni la avvertirono dell’ingresso in atmosfera. Ovunque questo Vigo Antonin avesse la propria residenza era senza dubbio un pianeta distante persino da Tatooine, perché lungo la plancia manovrata dal cacciatore di taglie era segnata una durata del viaggio in iperspazio di qualche ora. Attese, osservando i minuti, sentendo anche nello stomaco lo spegnersi dei propulsori ed il poggiarsi della nave al suolo.
Qualcosa scrosciava al di fuori, come il rumore di una pioggia intensa e martellante, ma forse era solo la sua stessa testa che ringhiava per l’impotenza di non poter nemmeno sperare in un colpo d’arma al petto.
Sentì il portello aprirsi, e nonostante le pareti di metallo poteva sentire i passi dell’uomo scendere. Senza dubbio, come avveniva in quel genere di navi, nell’arco di pochi minuti avrebbe sentito un portellone aprirsi e lui avrebbe sganciato l’intero vano della cella e l’avrebbe portata fuori.
Invece, contro ogni sua previsione, un rumore assordante esplose tutto intorno a lei e si ritrovò a terra con le manette elettrostatiche che, quasi impazzite, iniziarono rapidamente ad inviarle ripetute scariche alle braccia.
 

 
“Dunque di clawditi come te … ne sono rimasti pochi?”
Zam sorseggiò la bevanda che le era stata versata nella tazza. Calda, con un sapore che ricordava qualche frutto essiccato. Il Cavaliere del Drago, seduto davanti a lei, aspettò che avesse terminato per versargliene un altro po’.
Sapeva riconoscere un interrogatorio quando ne vedeva uno. Aveva trascorso le ultime due ore a raccontare, tra un sorso e l’altro, rispondendo alle domande della figura davanti a lei; era chiaro che, oltre al curioso interesse che il Generale mostrava nei suoi confronti, alcune osservazioni puntassero a sapere altro, piccoli e grandi dettagli del suo mondo che lo lasciavano diversi istanti in silenzio, come a ponderare qualcosa di importante. Aveva assistito ad alcuni interrogatori del Gran Moff Tarkin, ed era rimasta impressionata da come quell’omuncolo potesse ottenere informazioni dalle proprie vittime senza dare impressione che queste potessero avere per lui alcun valore.
Il Generale Baran, come tutti i membri della famiglia demoniaca, al contrario chiedeva e ponderava senza alcun bisogno di nascondere le proprie intenzioni. E lei, d’altra parte, non aveva alcun motivo di nascondere qualcosa alla persona che le aveva salvato la vita.
Specie se l’interrogatorio prevedeva qualcosa di caldo da bere. “Suppongo nessuno, a parte me. O, se ci sono, sono riusciti a nascondersi molto bene. Buon per loro” disse. “L’Impero ha completato l’opera. Una volta caduta la Repubblica lo stesso Imperatore Palpatine ha organizzato una caccia folle contro i pochi superstiti per piegarli a sé ed usarli come armi. Ma hanno tutti preferito la morte”.
“Non tu, a quanto sembra”.
Il sopracciglio scuro si corrucciò al di sotto dell’elaborato diadema a forma di testa di drago. Zam capì subito che stava per incamminarsi su un sentiero pericoloso, perché senza dubbio le premesse non erano delle più onorevoli. Ma aveva fatto delle scelte, anni prima.
Scelte che non sapeva dire se rimpiangesse o meno.
“E rovinarle così la fine del racconto, Generale?”
Sotto il suo labbro qualcosa si mosse. Sembrava un sorriso, ma tenuto molto sotto controllo.
Sì, senza dubbio quella chiacchierata si sarebbe protratta per diversi giorni a venire.
 
 
 
 
 


 
 
 
Zexion sprofondò nel sedile passeggeri. Era abbastanza grande da farci entrare persino un wookie di media taglia, dunque lui ci affondò ed impiegò qualche minuto a regolare l’altezza dei braccioli e del poggiatesta. Non aveva nemmeno terminato quell’operazione che una donna Bith si sedette accanto a lui senza smettere di sbraitare nel comlink.
Purtroppo per lui, il volo si riempì quasi del tutto. Per quanto nelle astronavi la mole degli odori fosse nettamente minore rispetto a quella che lo assaliva in qualsiasi punto del pianeta Coruscant, il ragazzo trovava comunque fastidiosa la presenza di tutti quegli esseri viventi stipati nello stesso velivolo a meno di un palmo, ciascuno con il proprio ronzio di pensieri che continuava a rodergli lungo le tempie e sul fondo dello stomaco. La ragazza due posti dietro di lei, ad esempio, aveva appena accertato con mano il tradimento di qualcuno che amava e stava tornando a casa in lacrime: Zexion assorbì le emozioni, ma alzò la mano per farsi portare dal droide inserviente un bicchiere d’acqua.
Doveva esserci abituato, certo. Dopo tanto tempo a Coruscant aveva imparato a convivere con quelle folle incontrollabili, instabili, a sentire la pressione col suo olfatto fin dentro le viscere. Alcuni farmaci, come l’antidolorifico che estrasse dalla borsa, aiutavano.
Ma non sempre.
Non in quel periodo.
La nave da trasporto decollò senza nemmeno un sobbalzo ed il ragazzo si concesse qualche momento per osservare la scena oltre il portellone visivo; la Bith doveva essere abituata ai viaggi spaziali, perché nemmeno si voltò verso l’esterno, ancora troppo presa dalla sua rumorosa conversazione che per fortuna sarebbe terminata non appena il velivolo sarebbe entrato nella modalità subluce. Lui, al contrario, continuava a trovare in quella scena maestosa una delle poche cose interessanti della Galassia in cui era stato trascinato.
Coruscant, inoltre, era uno spettacolo diverso da qualsiasi altro pianeta. I grattacieli si stagliavano a vista d’occhio, quasi come uno strano guscio metallico che ricopriva l’intero mondo: non c’erano fiumi, oceani, pianure, macchie di colore che invece tappezzavano la superficie di qualsiasi altro pianeta Zexion avesse mai visitato, e l’occhio di qualsiasi osservatore non riusciva a stare fermo, calamitato ora da una luce, ora dall’altra. I primi tempi della sua “permanenza forzata” nel pianeta capitale dell’Impero aveva sempre creduto che si trattasse di un mondo “grigio” fatto di palazzi di duracciaio e piccole, rumorose, fastidiose astronavi che ronzavano intorno agli edifici come insetti: il massimo del colore poteva venire dalle insegne luminose dei nightclub delle zone meno frequentate e dai cartelloni pubblicitari che abbagliavano anche i guidatori alle prime armi. Lui stesso, una delle prime volte che aveva dovuto prendere uno speeder, per poco non si era schiantato contro una parete per essere rimasto troppo a lungo ad osservare le indicazioni stradali olografiche che erano apparse con qualche minuto di ritardo.
L’unico modo per apprezzare quell’immenso alveare d’acciaio era, in realtà, osservandolo dal finestrino di una astronave.
Da lontano gli edifici non erano tutti uguali: l’area governativa -di cui Zexion conosceva soltanto i livelli intermedi- presentava un’architettura diversa rispetto agli altri settori, con gli edifici dalle guglie sottili e le forme arrotondate dello stile della Vecchia Repubblica. I pochi edifici che l’Imperatore Palpatine non aveva fatto radere al suolo avevano colori chiari ben diversi dalla sagoma scura del Palazzo Imperiale alle loro spalle, e risplendevano delle tinte arancioni che l’atmosfera artificiale satura di ossigeno rifletteva in alcuni momenti della giornata. Un po’ oltre, sporgendosi fino a toccare col naso il sottile strato di vetroacciaio, dei bagliori rossi uscivano dal settore R, una delle poche aree di Coruscant deputate ancora all’industria e satura di fabbriche e reattori che non chiudevano mai, sfornando leghe, lastre, componenti per la costante creazione, sostituzione e riammodernamento degli edifici della Città Che Non Dormiva Mai. Dal settore R uscivano carghi dalle dimensioni doppie della sua astronave, e negli spazi orbitanti centinaia di segnalatori luminosi destinavano i carichi alle restanti giurisdizioni.
La sensazione migliore era vedere questo lato di Coruscant, quel lato dell’ingegno umano e la sfida contro qualsiasi forma di natura che probabilmente aveva abbandonato quel pianeta agli albori della Vecchia repubblica.
Soprattutto se, come nel suo caso, si sapeva di non rivederlo per un po’. Qualsiasi altro pianeta, anche l’asteroide più abbandonato dell’Orlo Esterno, sarebbe stato preferibile alle sensazioni dolorose che quel pianeta gli causava.
Specie l’idea che suo zio avrebbe invece trovato Coruscant assolutamente affascinante.
Il suo pensiero, come sempre da quando la guerra era cessata, lo costrinse a spingere ancora di più il naso contro il finestrino. Avrebbe nascosto le lacrime, o almeno così tentò di fare.
Da quando si erano separati, dopo l’esplosione del Castello dell’Oblio e la sua cattura da parte degli agenti dell’Impero Galattico, aveva trascorso gli ultimi anni nell’odio più profondo per quell’uomo che lo aveva abbandonato ai suoi nemici per fuggire più velocemente. La sua “prigionia” a Coruscant era stata accompagnata solo dal pensiero della vendetta, al bisogno di restituire a quello scienziato arrogante la fialetta di veleno, l’unico ricordo fisico che avesse di lui, con tutti gli interessi. Sapeva che era lì fuori, in mezzo a quella moltitudine di pianeti, ed aveva logorato la sua vita al servizio dell’Impero con i migliori propositi di vendetta che un ragazzo di nemmeno vent’anni potesse provare. Per scoprire poi, tre anni dopo, che aveva costruito i propri sogni di rivalsa su delle sensazioni che non aveva mai nemmeno provato per davvero.
Lo aveva ritrovato, certo. Nel punto più impensabile della Galassia, nel cuore pulsante del più grande avversario che l’Impero avesse mai conosciuto dalla fondazione dell’Alleanza Ribelle. Aveva visto di nuovo lo sguardo verde di suo zio in un laboratorio nel Baan Palace, la fortezza personale del Grande Satana, signore della famiglia demoniaca che aveva messo in scacco persino la potenza bellica e tecnologica dell’Imperatore Palpatine e dei suoi Signori Oscuri. Aveva fatto appello alle ultime forze in suo possesso per dare forma e corpo alla vendetta che gli aveva sussurrato nella testa per tutto quel tempo, specie quando la sua esistenza si era trovata al capolinea.
E lui, lo scienziato, il traditore, era stato pronto a sacrificare la propria vita per proteggere la sua, stagliandosi davanti alla forza divina nel più potente guerrieri della famiglia demoniaca.
Al solo pensiero la mano gli andò nella tasca dove per anni aveva tenuto la fiala di veleno.
Non aveva saputo cosa dirgli. O forse lo sapeva, certo, ma non aveva avuto le parole. Avrebbe voluto raccontargli tutto, i suoi pensieri, i ricordi, i momenti di pura paura in quel mondo che era l’opposto del castello in cui era cresciuto.
Ma ogni suo tentativo di parlargli era terminato quando il Cavaliere del Drago lo aveva condotto fuori dal Baan Palace prima che questo esplodesse per colpa di un attacco dell’Alleanza Ribelle, e suo zio con esso.
Sì, lui avrebbe apprezzato quella scena. Avrebbe apprezzato quella città che tributava ogni onore alla scienza ed allo studio, dove gli uomini sfidavano la natura stessa della Galassia con il loro ingegno. E adesso che lui non c’era più …
L’ologramma, come da prassi, iniziò a vibrare.
Zexion impostò velocemente la modalità audio ed attivò il comlink a livello del padiglione auricolare; il dispositivo iniziò a mandare qualche flebile luce colorata, così che chiunque potesse stargli vicino avrebbe notato solo un ragazzo dal ciuffo argentato molto silenzioso, con lo sguardo triste e quello che era un programma per sentire un po’ di musica per combattere la monotonia del viaggio. In realtà ciò che arrivò nel suo orecchio non furono le voci sintetiche delle nuove band in voga su Ithor, ma la voce dell’agente 169, il suo superiore referente per quella missione.
L’Impero aveva costruito quel ruolo per lui, e la scelta era stata accettare o morire. Zexion aveva accettato per sopravvivere, immaginando che se fosse riuscito a ritrovare suo zio avrebbe forse trovato le forze per andarsene da lì, da quel mondo e quelle persone che odiava con tutte le proprie forze. Ma lui non c’era più, e forse quelle missioni per conto dei servizi segreti imperiali erano l’unica cosa che non gli permettesse di sprofondare troppo nei propri pensieri o negli psicofarmaci che ogni tanto si era ritrovato ad assumere per sbiadire i fantasmi nella sua testa.
La nave entrò nell’iperspazio. Prima tappa: Naboo, il pianeta natale dell’Imperatore Palpatine.
  
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