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Autore: Mirty_92    11/04/2020    1 recensioni
Jane si è appena dichiarato. Lisbon, per lui, ha rinunciato alla sua partenza e prima di riprendere servizio all'FBI di Austin, ha ancora una settimana di libertà. Ma che settimana l'aspetta? Entusiasmante, speciale, fuori dagli schemi? E chi può dirlo. Lei sa solo che se al suo fianco ci sarà Jane allora tutto andrà bene.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Patrick Jane, Teresa Lisbon | Coppie: Jane/Lisbon
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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1. Questione di vita o di morte Angolo Mirty_92

Ciao a tutti! Eccomi di nuovo qui contro ogni mia più assurda previsione con un’altra storia su di un mentalista e una poliziotta. Questa fanfic si collocata tra la fine della sesta e l’inizio della settimana stagione. Li abbiamo lasciati così, con una dichiarazione struggente e un bacio da favola. E li abbiamo ritrovati di nuovo al lavoro come coppia che sì, funziona bene come sempre. Ma in mezzo cosa è accaduto? Se siete curiosi e se vi va, qui di seguito trovate la mia “versione dei fatti”. Dovrebbe essere una storia di qualche capitolo, senza troppe pretese.
Ed ora a voi! Buona lettura!

A presto, spero!
Mirty


 

 

1.      Questione di vita o di morte

 

“Adesso sarà meglio che vada” gli sussurro staccandomi a fatica dalle sue labbra, ancora decisamente scossa dagli eventi così improvvisi non solo degli ultimi dieci minuti ma anche di quell’ultima mezz’ora, o forse più.

Da quando ero scesa da quell’aereo, il tempo si era come fermato. In una decina di secondi avevo voltato le spalle ad una nuova proposta di vita per fare, come si dice spesso, un salto nel vuoto. Ma per cosa? Perché il mio cervello rielaborava una sola, martellante domanda che esigeva una risposta immediata e sincera da quell’imprevedibile del mio consulente, nonché tasto dolente del mio cuore da quando avevo iniziato ad uscire con Marcus. Era vero quello che Jane mi aveva detto? Lui mi amava sul serio? Dovevo assolutamente saperlo.
Così, appunto una mezz’ora prima o giù di lì, avevo finito di asciugare le lacrime di imbarazzo che rischiavano di fermarmi, slacciato con gesti frenetici la cintura del sedile 12b, per poi precipitarmi verso il portellone anteriore dell’aereo seguita da bisbiglii eccitati di approvazione. Avevo sentito a mala pena ciò che mi diceva la hostess per cercare di farmi tornare al mio posto perché ormai eravamo pronti al decollo e l’unica cosa che mi ricordo nitidamente di aver fatto è stata quella di mostrarle il mio distintivo dell’FBI e di averle fatto cenno di voler scendere. E poi mi ero catapultata giù dalle scale come una pazza iniziando a correre verso un ingresso qualunque che mi permettesse di riaccedere all’intero dell’aeroporto. Il tutto seguita da due addetti aeroportuali che a stento riuscivano a starmi dietro gridando chissà cosa per fermarmi. Non ce l’avevano fatta, ovviamente. Una poliziotta come me non si ferma facilmente.
Una volta entrata di nuovo nei locali dell’aeroporto il mio buon senso aveva ripreso il controllo della situazione e cercato di fare mente locale sul da farsi. La guardia che era venuta a portare via Jane dopo il suo folle gesto - perché diciamocelo, è stata davvero una pazzia quello che ha fatto! – doveva sicuramente averlo messo sotto custodia lì, da qualche parte. Avevo cominciato subito a vagliare le diverse indicazioni ed ecco, sotto forma di un cartello blu, trovata la risposta: uffici di polizia aeroportuale.
“Signorina, cosa crede di fare?” Ero rimasta ferma un attimo di troppo e i due addetti all’imbarco passeggeri mi avevano raggiunto. Avevano il fiatone e uno dei due era quasi piegato sulle ginocchia.
Non avevo potuto fare a meno di sorridere appena e di sentirmi per un attimo in colpa per averli ridotti così.
“FBI” avevo risposto decisa, mostrando il distintivo. Si erano paralizzati all’istante. “Tranquilli. Devo solo raggiungere quell’idiota che è salito sull’aereo un momento fa e che è stato giustamente riportato qui.”
I loro volti, già provati per lo sforzo, erano diventati cerei alle mie parole.
“È un attentatore?” Mi guardavano con tanto d’occhi. Ancora una volta mi era venuto da sorridere ma ero riuscita a trattenermi. Avevo assunto un’espressione che speravo potesse rasserenarli anche se dentro di me non riuscivo a smettere di pensare al gran casino che aveva combinato Jane facendosi scambiare per un attentatore. Di questi tempi poi!
“No, è solo un idiota. Un consulente dell’FBI. Ma ora devo proprio andare a prelevarlo. È da quella parte l’ufficio di polizia, giusto?” Cercavo di far capire a quei poveretti che non dovevano preoccuparsi. Loro avevano fatto il loro dovere e non erano mai stati in pericolo.
“Sì, signorina… ehm… agente?”
“Agente Lisbon, sì. Va bene, grazie mille. Ora potete tornare al vostro lavoro.”
Erano ancora un po’ scossi, l’avevo notato. Ma io non avevo più tempo di dedicarmi a loro. Dovevo parlare con Jane, quel genio!
“Se passa di qui arriverà in un attimo. La posso accompagnare io direttamente dal capo della polizia. Venga.” L’uomo più giovane mi aveva aperto la strada tra una folla che stava aspettando l’imbarco e io l’avevo seguito. “Ci penso io, Frank. Tu riprenditi e poi torna in pista.” E con un cenno del capo, aveva salutato il suo collega che iniziava a respirare più regolarmente. Beh, gli avevo fatto fare decisamente una bella corsa, non c’è che dire.
Ma dovevo tornare a concentrarmi sul mio obiettivo: dovevo rivedere Jane.
Passando per dei locali di sicurezza eravamo arrivati ad una piccola stanza dove un agente di polizia si trovava di guardia alla porta. “Ehi, Todd, dov’è il capitano? Qui c’è l’agente Lisbon. Deve parlare con lui per poter vedere quel folle che è salito ora sull’aereo per Washington.” Poi a bassa voce con tono timoroso aveva aggiunto: “È dell’FBI.”
Il poliziotto di guardia mi aveva squadrata ma non sembrava minimamente impressionato dal fatto che io fossi dell’FBI. Avevo ricambiato lo sguardo, da dura. Pareva che comunque avesse capito la situazione.
“Aspettate qui.” Era ritornato in poco tempo, seguito da un uomo corpulento dall’aspetto serio, il capitano.
“Mi pare mi abbiano detto che lei sia dell’FBI.”
“Esattamente. Agente Lisbon. Devo vedere l’uomo che avete in custodia. È qui?”
Guardava il mio distintivo come per assicurarsi che non fosse un falso. Avevo alzato gli occhi al cielo cercando di rimanere calma.
“E cosa vuole l’FBI da quell’uomo? Ha violato le leggi sulla sicurezza aeroportuale. È sotto la nostra tutela.”
“Devo solo parlargli. È un collega, un nostro consulente.”
“Consulente?”
Quante volte ancora avrei dovuto vedere facce scettiche, perplesse o qualunque cosa di simile quando presentavo Jane come consulente dell’FBI? Sempre, che domanda!
“Sì, esatto. Senta non vorrei essere scortese ma dovrei proprio parlargli. Questo è il numero del mio capo, l’agente supervisore Dennis Abbott. Lo chiami pure per controllare tutto ciò che le ho detto se qualcosa non le torna, ma ora voglio vedere Jane.”
L’avevo preso in contropiede mentre si era ritrovato praticamente con il mio telefono in mano con la voce Dennis Abbott già selezionata nella rubrica dei contatti veloci.
“O-ok. Falla entrare, agente Anderson. E lei può tornare al suo lavoro” fatto un cenno col capo all’addetto passeggeri, ancora un po’ intimidito, avevo visto quest’ultimo allontanarsi gettandomi ancora sguardi in tralice. “Mentre io mi accerto con questo agente Abbott.” Il capitano cercava di riprendere una parvenza di controllo. Come lo capivo. In fondo era lui che aveva autorità lì come capo della polizia. Non volevo fare la superiore, solo che iniziavo proprio ad avere una certa urgenza di parlare con Jane. Volevo vederlo.
“La ringrazio” avevo aggiunto prima di seguire l’agente Anderson che mi aveva accompagnata lungo un corridoio fino ad arrivare ad una stanza con un vetro dove aveva spiegato ad un collega che avevo il permesso del capitano di poter vedere il prigioniero.
Ed eccolo lì: Patrick Jane.


“Immagino tu debba risolvere un altro gran bel guaio.
Ritorno al presente quando la voce di Jane mi sussurra piano all’orecchio. Mi sorride complice e io non posso fare a meno di alzare gli occhi al cielo.
“Mi sa proprio di sì. Devo almeno tentare. Vedrò cosa posso fare. Alla peggio ti toccherà rimanere qui ancora per un po’. Non ti farebbe male.”
“Suvvia, Lisbon. Non sono rimasto in castigo abbastanza?” Ha ripreso a schernirmi, Jane. Ma un attimo prima, quando ha voluto dimostrarmi con quel bacio che ci siamo 
scambiati che le parole dette sull’aereo erano vere, era più serio che mai. Cerco di rimanere lucida nonostante stia sentendo l’adrenalina scorrere come un fiume in piena nelle mie vene.
“Non saprei. Ti aggiornerò.” Gli sorrido ed esco, mentre con la coda dell’occhio lo vedo rimettersi a sedere. Mi toccherà portarlo all’ospedale per fargli controllare meglio la caviglia. Chissà come se la sarà slogata. Dovrà spiegarmi anche questo ma per ora mi basta quello che ho appena vissuto. Sì, perché l’essere stata baciata da Jane è stato speciale. Semplicemente speciale. Era una cosa che il mio inconscio aspettava da tempo. Sentivo che l’affinità tra di noi era arrivata ad una svolta. Prendere o lasciare. All’inizio avevo lasciato. Non potevamo andare avanti così per sempre e in un attacco di rabbia, sentendomi ancora una volta usata da lui, avevo fatto chiamare un taxi per farmi portare all’aeroporto e, come se ciò non fosse bastato, avevo persino accetto di sposare Marcus. Dannazione! Marcus! Gli avevo promesso che una volta preso l’aereo l’avrei avvisato dell’orario previsto di arrivo a Washington. Non l’avevo fatto perché quel maledetto aereo non l’avevo preso ed ora il mio cellulare era ancora tra le mani del capitano di polizia. E sì, anche per altri ovvi motivi non ero partita, d’accordo. Beh, Marcus capirà. Me lo ripeto ancora dopo averlo già detto anche a Jane.
“Oh, Lisbon. Eccoti qui.”
Svoltato l’angolo mi ritrovo di fronte Abbott e il suddetto capitano. 
“Buonasera, capo.”
“Tutto ok?” Vedo Abbott che mi squadra ma non pare sorpreso di vedermi lì, anzi. È soddisfazione quella che vedo nel suo sguardo?
“Sì. Sono restata. Ho… diciamo… quasi volutamente perso l’aereo.” Mi sento in dovere di dargli dei chiarimenti ma non saprei da che parte iniziare. Arrossisco lievemente mentre Abbott mi scruta curioso attraverso gli occhiali.
“Capisco.” Mi risparmia le spiegazioni imbarazzanti. Per ora almeno. “Beh, visto che sei qui perché non accompagni tu Jane all’ospedale. Il capitano Smith mi ha detto che si è slogato una caviglia in circostanze che, a quanto ho letto nella deposizione di Jane, erano questione di vita o di morte.” Cita queste ultime parole leggendole direttamente da un fascicolo che tiene in mano. Questione di vita o di morte. Sbuffo appena. Perché devi essere sempre così teatrale, Jane!
“Ecco il suo cellulare, agente Lisbon.” Il capitano di polizia me lo rende. “Ha suonato un paio di volte con un prefisso di Washington da quando me l’ha lasciato per contattare l’agente Abbott.”
Ecco, lo sapevo. Abbasso appena lo sguardo. “La ringrazio.”
“Bene, io vado ad avvisare che il signor Jane può essere rilasciato. Lo aspetti qui, agente Lisbon. Glielo faccio subito portare. Agente Abbott, arrivederci. Spero che l’FBI la prossima volta non sia più in situazioni di vita o di morte qui in aeroporto.”
Abbott assume un’espressione seria ma nasconde un non so che di divertito. “Non si può mai sapere, capitano Smith. Arrivederci.”
Rimango da sola con Abbott. “Tutto è bene quel che finisce bene, Lisbon. Penso che tu ora debba chiamare Washington. Da quello che ho capito, presumo tu voglia restare.”
“Sì, capo. Sempre che sia possibile.”
“Per un agente come te le eccezioni si possono fare. Non ti preoccupare per l’aspetto burocratico del tuo reinserimento in squadra. Penserò a tutto io. Tu per ora hai ancora la tua settimana di congedo transitorio. Risolvi la tua situazione. Ci vediamo presto. Ah, e dì a Jane che mi deve un favore.”
“Un favore, Abbott?” Ho lo sguardo perplesso.
“Sì, Lisbon. Ho prestato la mia macchina a Jane e lui l’ha tranquillamente abbandonata alla mercé di tutti di fronte all’aeroporto. Per fortuna la sicurezza qui non è niente male. L’hanno requisita. Ora andrò a reclamarla.” Alza le spalle e mi sorride.
“Il solito Jane.” Mi giustifico alzando gli occhi al cielo ma lasciandomi sfuggire anche io un mezzo sorriso.
“E la questione di vita o di morte.
Ormai non so più quale soglia di rossore io abbia raggiunto. Dannazione, Jane! Questa me la paghi!
Il cellulare inizia a vibrare nella mia mano e poi squilla. Per un attimo sono grata per questo diversivo che mi evita di rispondere ad Abbott che ne approfitta per farmi un cenno di saluto, rivolgermi un sorriso enigmatico e sparire oltre il corridoio.
Ora però guardo il telefono come se fosse uno scorpione velenoso o qualcosa di simile. È Washington. È Marcus. Devo rispondere. Chiudo gli occhi e premo il tasto verde.
“Teresa, a che punto sei? Devo organizzarmi per venire a prenderti in aeroporto.” È allarmato, non seccato. Solo ansioso. L’ho fatto stare in pensiero.
“Ciao Marcus. Ho avuto un contrattempo.” Un contrattempo? Quello che è successo con Jane tu lo chiami un semplice contrattempo? Suvvia, Teresa, qualcosa di meglio no? Cerco di zittire il mio inconscio e riprendo a parlare.
“E sono dovuta restare qui.”
Dall’altra parte della cornetta sento uno strano silenzio. Il respiro di Marcus è lieve, poco percettibile.
“Non verrai, vero? Non mi raggiungerai più a Washington.”
L’ultima non è una domanda.È una considerazione. Un dato di fatto.
“Scusami.” Una lacrima mi sfugge involontaria e mi riga la guancia. Sento che se gli avessi sparato al petto con la mia pistola probabilmente gli avrei fatto meno male di quanto gliene sto facendo ora. Ma adesso non posso più mentire. A me, a lui. Gli dovrei dare delle spiegazioni. Sento che se le merita ma continuo a rimanere in silenzio.
“Capisco.” La voce di Marcus arriva alle mie orecchie come se partisse da un baratro. Beh, Teresa, non avevi forse detto a Jane che Marcus avrebbe capito? Hai indovinato. Sì, ho indovinato ma mi sento uno schifo comunque. Continuo a non parlare.
“Teresa, dimmi solo una cosa. È Jane, giusto?”
Mi ritrovo ad annuire al telefono non capendo subito che lui non mi può vedere.
“Teresa?”
Mi riscuoto. “Sì, Marcus. È Jane.”
“D’accordo. Addio Teresa.”
La linea cade. Il persistente tu-tu-tu del telefono mi rimbomba nelle orecchie. Una vigliacca. Ecco come mi sento. È stato triste oltre ogni dire. Ma non potevo continuare a mentire. A me, a lui. Passerà, dovrà passare.
“Agente Lisbon?”
Asciugo veloce quell’unica lacrima traditrice e mi volto verso la voce che mi ha chiamata. E poi lo vedo: il mio piccolo sole personale. E tutto pare improvvisamente più chiaro. Più bello e sereno. Jane è aiutato a camminare dalla guardia che ci teneva d’occhio quando lui mi ha baciato solo mezz’ora prima?non ho più davvero la cognizione del tempo, è un dato di fatto –.
“Oh, sì. Lo lasci pure. Lo aiuto io.”
Jane mi mette un braccio attorno alle spalle mentre io lo sorreggo in vita. Per un attimo si lascia quasi sostenere a peso morto da me ma poi, di fronte alla mia occhiataccia di rimprovero, mi sorride e si sostiene meglio.
“Ce la fate?” La guardia pare preoccupata anche se guardinga.
“Sì sì. L’agente Lisbon è una tosta, non si preoccupi. E grazie per la sorveglianza.”
“Jane!” Non posso fare a meno di ammonirlo.
“Che c’è? Che ho detto?”
“Guarda che se non la smetti ti lascio ancora qui, ok?”
“Non penso che mi rivogliano, vero Arthur?”
La guardia ora sembra terrorizzata. “No, no, signor Jane. Vada pure. Lei è libero.”
Guardo entrambi stranita. Poi prima che la mia pazienza possa essere messa a dura prova venendo a conoscenza di fatti strani, decido di allontanarmi almeno dall’aeroporto. Per oggi, qualcuno qui ha già procurato abbastanza guai.
Saluto la guardia e mi trascino, con Jane sempre accollato a me a modi cozza sullo scoglio, fino all’uscita dell’aeroporto.
“Chiamo un taxi. Reggiti un attimo.” Sfilo veloce il telefono dalla tasca dove l’avevo riposto in fretta e furia dopo la chiamata di Marcus per non farmi vedere da Jane. Sfortunatamente per me l’elenco delle chiamate rapide rivela il prefisso di Washington. Guardo Jane di sott’occhi e mi accorgo che mi sta guardando. L’ha notato. Avverto una leggera tensione fra di noi ma è solo un attimo.
“Potresti far presto. La gamba sana inizia a dare segni di cedimento, vorrei stendermi un po’”
Rimango a bocca aperta ma poi mi riprendo subito.
“Certo che sei forte! Ti fai male in modo sconsiderato e poi hai pure il coraggio di avanzare delle pretese.”
“Suvvia, Lisbon. Per favore, puoi chiamare un taxi?” Mi guarda con uno sguardo talmente melenso e finto supplichevole che mi strappa un sorriso.
“Ok, ma bada a ciò che dici o ti lascio in ospedale e ad Austin rientri per conto tuo.” Cerco il numero del servizio taxi della zona e attendo in linea. L’ultima volta che l’ho usato stavo scappando infuriata da Jane verso un altro stato mentre ora sono qui, con Jane, e mi sento bene. Stranamente bene, dopotutto. Mi sento al mio posto.
“In ospedale? Io non voglio andare in ospedale. Sto bene. L’ospedale è per i malati e io non sono malato” protesta quasi come un bambino.
Scuoto la testa e nel frattempo aspetto che la signorina del servizio clienti mi dia conferma della disponibilità di un taxi nella nostra zona. Ma proprio mentre mi stanno dicendo che ne arriverà uno tra cinque minuti, ne accosta un altro poco distante da noi che scarica una coppia di turisti. Jane attira subito l’attenzione dell’autista sbracciandosi e finendo quasi a terra per via della foga. Io lo riacciuffo in un attimo e gli evito che la sua bella faccia vada a spiaccicarsi letteralmente - e non solo -  sul marciapiede. Lui si riprende e mi sorride, mi frega il telefono, ringrazia la signorina parlando della tempestività del loro servizio e riaggancia. Poi mi rende il telefono.
“Tutto apposto” continua a sorridermi. Non so esattamente quante volte mi stia sorridendo in quel modo da quando l’ho rivisto oggi, ma è qualcosa di diverso dal solito. Conosco il suo perenne sorriso da anni ormai ma oggi è diverso. È come se, finalmente, mi sorrida davvero per la prima volta.
“Vi posso aiutare?”
L’autista del taxi ha visto le condizioni di Jane. “Slogatura? Vi porto all’ospedale?”
“Sì”
“No”
Inizia un gioco di sguardi. Io guardo in cagnesco Jane, pronta a combattere per portarlo in ospedale. Lui mi guarda disinvolto come se nulla fosse, sfidandolo quasi a contraddirlo. E l’autista ci guarda stranito.
“Jane, devi farti vedere la caviglia. Se è slogata dovranno farti una fasciatura e darti delle stampelle.”
“Io ho già la mia stampella” mi guarda ghignando.
“Ah ah. Davvero spiritoso. Io non sono la tua stampella. Forza, sali e non fare storie.” Tengo la portiera aperta e l’autista, saggiamente, sentendo il mio tono autoritario, decide di non intromettersi e si mette al posto di guida, pronto a partire aspettando indicazioni.
Jane scuote la testa e si siede sul sedile del passeggero. “Ok, d’accordo. Ma solo se mi prometti che dopo l’ospedale, qualunque cosa mi dicano di fare, tu verrai con me in un posto. Prendere o lasciare.”
Alzo gli occhi al cielo. E ti pareva che non avesse in mente qualcosa?
Ma questa volta so perfettamente cosa fare. Ho già lasciato una volta. Ora prendo e non lascio più.
“D’accordo. Come vuoi tu.” Faccio la finta rassegnata. Mi siedo dietro e dico al taxista: “Ci porti all’ospedale più vicino, grazie.”
“Subito, signorina.”
Guardo la strada di fronte a me mentre ci allontaniamo dall’aeroporto e poi guardo lo specchietto. Incrocio per un attimo lo sguardo scintillante di Jane che mi sorride. E io non posso fare a meno di sorridergli di rimando. Sì, per l'ennesima volta.

To be continued...

 

  
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