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Autore: New Moon Black    13/04/2020    2 recensioni
~{Nei primi momenti si era sentito a disagio, come se non dovesse trovarsi lì, ma alla fine familiarizzò così tanto con la quiete che lo aggradava, davvero tanto.
Lo aiutava a mettere ordine nei suoi pensieri.
Nonostante non fosse abituato a vivere in un posto al di fuori di Berlino, chiassosa e colorata quanto il sottoscritto, era comunque felice della scelta che aveva fatto.
Non se ne pentiva affatto.
E per ricordarselo, ogni giorno guardava l’anulare della sua mano sinistra, un piccolo anello di puro oro nuziale spiccava sulla pelle diafana del prussiano, e sempre lì vi era un incisione.
Un nome.
Era di una donna.
Non una qualsiasi, ma bensì quello della sua amata e straordinaria donna che aveva deciso di sposare e condividere ogni fibra del suo essere fino alla notte dei tempi.
La stessa che fin dall’infanzia, era stata la sua rivale nonché migliore amica.}~
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Scritta per il Contest “Home Sweet Home” indetto dalla pagina facebook Axis Powers Hetalia – Italian Fans.
Genere: Angst, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Prussia/Gilbert Beilschmidt, Ungheria/Elizabeta Héderváry
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Iniziativa: Scritta per il Contest “Home Sweet Home” indetto dalla pagina facebook Axis Powers Hetalia – Italian Fans.
Numero parole: 5.447
Prompt: n.9 Album fotografico
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N.B:  {Human!AU} Gilbert e Elizabeta  non sono nazioni, ma persone in carne ed ossa.

 

 

 

 

 

Geborgenheit*

 

 

 

“I suoi gusti, le sue opinioni,
credo di conoscerle meglio delle mie,
e di certo… mi sono molto più care.”

- Jane Austen


 

Si dice che quando una persona è  legata al passato e ai propri scheletri nell’armadio, non riesce a vivere il presente; si rifugia nei sogni per dimenticare qualunque cosa le provoca dolore e sofferenza, arrivando persino a smettere di vivere nella realtà.
Gilbert Beilschmidt aveva tanti pregi e difetti, alcuni amabili e altri un po’ meno, tuttavia nessuno sapeva che era succube dei suoi stessi “demoni”; era talmente ancorato agli errori del passato che viveva nella paura di perdere, nuovamente, tutto ciò che aveva costruito negli anni.
La solida amicizia con quegli scalmanati dei suoi migliori amici, i cimeli di famiglia, l’eredità che avevano lasciato i suoi genitori e il rapporto con suo fratello Ludwig.

Il solo pensarci, lo uccideva dentro.

Nei momenti di puro sconforto, quando non riusciva a sopportare il peso che gli attanagliava il cuore e la mente, il prussiano si isolava dal resto del mondo.
In un luogo di pace, ove poteva sfogarsi indisturbato.
Spariva per qualche giorno, o di più, e ritornava sui suoi passi.
Ritto con la schiena, petto in fuori e un gran sorriso sulle labbra, pronto per affrontare la giornata idolatrandosi di quanto fosse effettivamente fantastico e ben dotato; guai a chi osava attaccare “Il Magnifico”!

Eppure, nessuno aveva notato quanti sforzi facesse per mascherare il suo dolore.
Nessuno conosceva il suo segreto.
Nessuno.

Eccetto qualcuno.

Il rintoccare di un orologio a pendolo, posto nel grande soggiorno dai colori verde pastello e i vari ghirigori delicati in bianco perla, echeggiò in tutta la casa.
Nonostante fosse lontano da quella sala, Gilbert poteva sentire chiaramente il rumore assordante delle lancette che ticchettavano ad ogni millesimo di secondo.

Tick tock.
Tick tock.

Odio quello stupido aggeggio, pensò lui.

Alzò pigramente la testa dal monitor del suo computer, poggiato sulla scrivania da lavoro alla sua sinistra, vide l’orario da un altro orologio.
Stavolta elettronico, dalla superficie scura e poteva silenziarlo con un semplice “click” dell’indice.
Non diede peso alla luce del sole che, filtrando dalla finestra del suo studio, stava iniziando a scarseggiare; nemmeno l’ombra delle nuvole che la coprirono ermeticamente.
Era troppo concentrato a fissare il piccolo schermo del dispositivo.

Le sette in punto.

Fischiò.

-“Mein Gott*, è già tardi? A furia di lavorare mi si è sciupata la magnificenza!”

Ridacchiando tra sé e sé, sgranchì le mani e le braccia rumorosamente, facendo rombare i suoi muscoli tonici.
Si premurò di salvare  per ben tre volte il file a cui stava lavorando già da un paio di settimane, e dopo aver dato gli ultimi controlli spense il monitor.

Per oggi, aveva dato abbastanza.

Sebbene non fosse ancora arrivato al termine del suo impiego, l’albino sapeva che non doveva essere così precipitoso.
Ok, era ad un passo più vicino verso la fine e sì, vedeva con i suoi occhi tutto il frutto dei suoi sforzi e sacrifici e pensava “perché continuare a tirarla per le lunghe quando posso dare una fine a tutto?”
Desiderava con tutto il suo cuore che tutti sapessero quanto si era impegnato per raggiungere quel traguardo ed era disposto a fare qualunque cosa pur di riuscirci.

Era tentato di gridare ai quattro venti del suo gioiello.
Il suo orgoglio più grande.
Il tesoro più prezioso che avesse mai custodito.

Era così tentato che aveva il forte impulso di tirarsi i capelli e distruggere qualsiasi cosa gli capitasse sotto mano.

Tuttavia, non fece niente di tutto questo.
Gilbert era fin troppo consapevole che qualsiasi passo falso, avrebbe compromesso non solo la sua reputazione, ma anche la sua salute; anche se si trattava di esprimere quello che amava di più fare: raccontare.

Doveva essere paziente e agire con discrezione.

Sorrise sommessamente.
Arriverà quel momento, pensò lui.
Dopotutto, glielo aveva promesso.

Lui lo stava vegliando.

Alzandosi dalla sua postazione di lavoro, si tolse gli occhiali dalla montatura rossa; sbatté le ciglia più e più volte per mettere a fuoco l’immagine davanti a sé.
Le iridi color rubino seguirono le pareti color ocra che circondarono la stanza con un lieve profumo di pulito e margherite, una modesta libreria era posta vicino a due divanetti e un tavolino con sopra alcuni libri dalla copertina rigida e scura; la porta in legno di frassino era aperta di pochi centimetri ove si affacciava il corridoio per la sala da pranzo.
Poggiò delicatamente i polpastrelli all’altezza delle palpebre massangiandole per scacciare via la stanchezza.
Aveva iniziato a portarli da alcuni mesi, quando doveva lavorare al suo progetto, il suo oculista di fiducia  gli aveva intimato di far attenzione a non sforzare la sua vista se voleva evitare forti capogiri ed emicranie.   
Ovviamente rispettava tutte le sue indicazioni, soprattutto quando lavorava a stretto contatto con un dispositivo elettronico; appena era in stato di riposo, poteva toglierseli.
Mise le lenti dentro la custodia che aveva preso dal cassetto della scrivania e le rimise al suo posto.
Approfittò di sistemare i libri che aveva lasciato in giro l’altro giorno per una ricerca e quando pulì alcuni scaffali, ammirò soddisfatto il risultato.
Era tutto in ordine.

-“Ora hai un aspetto decisamente magnifico, proprio come me.”

Non appena percepì un brivido di freddo correre lungo le braccia, srotolò le maniche della sua maglietta felpata blu scuro che, inizialmente, le aveva arrotolate fino ai suoi gomiti.
Successivamente, la sua attenzione si spostò sulla finestra dalle tende chiare.

Incuriosito, si avvicinò ed appoggiandosi ad un lato del bordo, vide il paesaggio.

Grossi nuvoloni coprirono per una buona parte quel cielo grigio piombo, alcune casette sembravano scolorite e disabitate e i vasti prati sempreverdi di Hortobàgy avevano una tonalità più scura del normale.
Quel paesino di valli e colli, ricchi di flora e fauna, aveva un non so ché di particolare, quasi suggestivo.
Quando scendeva la notte e la temperatura si abbassava di qualche grado, c’era quel silenzio, così innaturale quanto mistico, che l’accompagnava durante i suoi sogni ad occhi aperti.
Gli era capitato di udire in lontananza il fruscio degli alberi contro il vento impetuoso oppure il frinire di un grillo, ma mai lo schiamazzo della “movida”, come direbbe Antonio, nel centro del paese.
Nei primi momenti si era sentito a disagio, come se non dovesse trovarsi lì, ma alla fine familiarizzò così tanto con la quiete che lo aggradava, davvero tanto.
Lo aiutava a mettere ordine nei suoi pensieri.
Nonostante non fosse abituato a vivere in un posto al di fuori di Berlino, chiassosa e colorata quanto il sottoscritto, era comunque felice della scelta che aveva fatto.

Non se ne pentiva affatto.

E per ricordarselo, ogni giorno guardava l’anulare della sua mano sinistra, un piccolo anello di puro oro nuziale spiccava sulla pelle diafana del prussiano, e sempre lì vi era un incisione.

Un nome.
Era di una donna.
Non una qualsiasi, ma bensì quello della sua amata e straordinaria donna che aveva deciso di sposare e condividere ogni fibra del suo essere fino alla notte dei tempi.
La stessa che fin dall’infanzia, era stata la sua rivale nonché migliore amica.

Fiera, resiliente, brillante… e persino magnifica!

Elizabeta, affettuosamente chiamata Erzsì.
La sua Erzsì.

Sorrise distrattamente fra sé e sé.
Come era arrivato ad innamorarsi di uno spirito libero e ribelle come lei, quando fin da piccoli, battibeccavano come cane e gatto?
Già da ragazzino?
O forse più tardi?
Non lo sapeva nemmeno lui.

Ma ricordava perfettamente com’era scattata la scintilla, anche se in maniera inusuale.
Molto inusuale.

Si erano azzuffati in malo modo per una questione futile e di poco conto, del tipo chi fosse più forte a braccio di ferro, e ricordava che si erano sporcati così tanto di terreno che sembravano dei contadini.
Trattenne a stento una risata al ricordo di una piccola Elizabeta con i capelli castani tutti arruffati di terra ed erbacce, gli occhi grandi e verdi in balìa dello shock totale e i vestiti tutti sporchi ed impolverati.
All’epoca, l’albino era così orgoglioso e spocchioso che, spesso, veniva schernito dalla sfacciataggine dell’ungherese e dalla sua forza.
Non importava come o quando, ma ci riusciva nel suo intento.
Il più delle volte perdeva contro di lei e questo non riusciva mai ad accettarlo, non lo capiva e questo lo portò a farsi due domande.
Perché, il Magnifico Gilbert Beilschmidt, si faceva battere da una ragazzina con una grazia di un elefante?
Perché non riusciva ad avere la meglio contro Elizabeta Hérdevàry?
Si promise che un giorno l’avrebbe battuta e avrebbe mangiato la sua polvere e quando arrivò il fatidico momento, che si strinsero nella solita presa ferrea a braccio di ferro, era ad un passo più vicino verso la sua vittoria.

Fu lì, che accadde.

Il prussiano non aveva preso bene la stabilità del suo braccio e con ciò scivolò e cadde di faccia, trascinandosi con sé la ragazzina.
Rotolando nel terreno, si ritrovarono ammassati uno sopra l’altro con qualche erbaccia tra i capelli e il terriccio tra i polpastrelli e alle gote; l’odore acre di polvere invase le narici, minacciando ad entrambi la mancanza d’ossigeno.
Per l’impatto aveva chiuso con forza le palpebre e solo molto dopo riaprì gli occhi, percependo una pressione su qualcosa sopra di lui, come se ci fosse qualcuno che gli schiacciava lo sterno, il busto e la pancia.
Udì un sussurro impercettibile.
Assottigliò gli occhi e poté vedere chiaramente cosa lo stava, lentamente, soffocando ed impedendogli di prendere appieno le sue boccate d’aria.

Era… Erzsì?

Sudò freddo.

Dovette trattenersi dal non urlare a squarciagola alla vista dell’ungherese che, a quanto pareva, era a fargli peso sul suo corpo.
Cosparsa di terreno e varie piantine in alcune ciocche arruffate, aveva varie macchie scure in viso; su naso, palpebra destra, una buona parte delle guance e del labbro inferiore, ma quello che lo fece rimanere a bocca aperta furono i suoi occhi.
Verdi come le praterie floreali su cui erano caduti, così grandi e lucenti che ci si poteva perdere dentro e non uscirne più vivi.

Sembrava una fata.
Una fata decisamente carina.

A furia di specchiarsi nelle iridi dell’altro, la sua pelle diafana fece pendant con il colore dei suoi occhi pizzicandolo quasi fastidiosamente, con tutto che era sporco di terra e aveva contaminato il suo candore.
Doveva ammetterlo, quello sguardo così innocente e sbarazzino fece breccia nell’animo dell’albino.
Tutto ad un tratto, un calore indescrivibile lo travolse come un uragano, le sue orecchie fischiavano assai e non aveva più il controllo di muovere ogni singolo muscolo del suo corpo, braccia e gambe comprese.

Cosa gli stava succedendo? 

All’epoca non poteva ancora comprendere che, quella volta, il piccolo Gilbert Beilschmidt ebbe un colpo di fulmine per la giovane ungherese.
Ah, quanto tempo ci aveva impiegato ad ammettere a se stesso che nutriva dei forti sentimenti per lei, la sua Erzsì, e a riprendersi da quell’episodio.
Quante notti insonni aveva passato rigirandosi tra le coperte sognando più e più volte quell’espressione smarrita e delicata, gli occhi lucidi ed espressivi e il volto roseo a metà con le macchie scure di terra.
Quante volte aveva avuto quel forte impulso di stringerla tra le sue braccia, proteggerla da qualunque cosa potesse farle del male e dirle che sì, quella volta aveva vinto lei a braccio di ferro.

Scosse il capo.

Ultimamente, si perdeva un po’ troppo spesso nei suoi pensieri e questo lo portava a dimenticarsi del presente.
Il suo presente.

Gilbert si allontanò dalla finestra e superata la libreria, abbandonò lo studio alle sue spalle.
Il corridoio si era fatto quasi buio, presumeva che si fosse fatta sera ma lentamente percorse il corridoio di casa;  fino ad allora non aveva mai provato quel senso d’inquietudine ed ansia.
Era come una sorta di déjà-vu.
Ebbe vari brividi lungo la schiena e le braccia.

C’era un silenzio di tomba.

Si morse un labbro nervoso.

-“Dove cazzo sono gli interruttori delle luci quando servono?”

Non sapeva perché si stesse agitando così tanto, cercò con tutte le sue forze di non farsi suggestionare da possibili crisi nervose ma più lui faceva alcuni passi in avanti, più sentiva quel groppo in gola che gli bloccava la circolazione.
Era vicino alla soglia della stanza da letto, mancava davvero poco.
Ma i suoi piedi si fermarono di colpo quando calpestò qualcosa di duro.
Assottigliò gli occhi e fu allora che lo vide, lì, per terra.
Era buio, ma aveva riconosciuto il colore rosso del nastro, con alcuni decori in pizzo scuro, che adornava quell’enorme oggetto quadrangolare e portava un’etichetta bianca sistemata a regola d’arte.
Con mani titubanti lo prese, sorprendendosi di riuscire a sostenere il suo peso.
S’avvicinò alla fonte di luce più vicina e quando entrò in quella benedetta stanza, accese la luce.
Sgranò gli occhi scioccato.

Un album fotografico.

Assomigliava in maniera incredibile a uno dei tanti album  che amava conservare sua madre, quelli dedicati alla sua famiglia, ma non ricordava di averne portati tanti da quando si sposò con Elizabeta.
In effetti, alcuni  erano rimasti in soffitta nella sua vecchia casa a Berlino, tenuti con cura in un baule e fino ad allora mai più toccati.

La domanda gli sorse spontanea.
Era uno dei suoi, che si era portato prima di andarsene dalla sua terra madre?

Ma non ricordava di aver mai avuto tra le mani quell’album fotografico.

L’albino esaminò attentamente l’oggetto davanti a sé, curioso.
Notò altri dettagli che prima al buio i suoi occhi non avevano catturato, ovvero alcuni ghirigori floreali di un grigio chiaro, sbiadito con il tempo, all’altezza dell’etichetta, aveva un leggero strato di polvere che andava in forte contrasto con la sua superficie scura e al centro vi era scarabocchiato qualcosa.

Assottigliò lo sguardo.

C’era una calligrafia elegante e pulita ma faceva fatica a decifrare le lettere, aveva intuito che ci fossero tre vocali, ma nulla di più.
Strano, non ricordava di aver scritto qualcosa, nonostante lui stesso avesse una brutta grafia seppur era troppo orgoglioso ad ammetterlo così apertamente, di certo non avrebbe mai e poi mai usato quei motivi così difficili alla sua comprensione.
Inclinando la testa, arricciò il labbro inferiore sbattendo di tanto in tanto le palpebre ancora più confuso di prima.

Improvvisamente, ebbe un’illuminazione divina.

Durante il periodo del suo trasloco, Elizabeta gli aveva raccontato che prima di riallacciare i rapporti con il sottoscritto, aveva conosciuto un giovane musicista austriaco.
Come si chiamava?
Ricordava che il suo nome iniziava per “R”, suonava qualcosa come… Rowan?
Roderick?
Rowley?
Non ricordava molto bene al momento, tuttavia, quel tipo era arrivato nella sua città natale per un concerto di beneficenza, dedicato all’Opera d’Austria e qualche ballata folkloristica; e proprio in quell’occasione, lui ed Erzsì s’incontrarono.
Gli disse che all’inizio era incuriosita da quel musicista, il prussiano dovette pizzicarsi la pancia per non inscenare atti di gelosia per quanto fosse dannatamente paranoico, ma dopo qualche mese l’ungherese aveva smesso di frequentarlo.
Aveva delle strane abitudini, a detta sua, del tipo che smarriva spesso i suoi affetti personali e aveva la brutta abitudine di lamentarsi per questioni futili e di poco conto.

Sgranò  gli occhi.

E se quel grosso album fotografico appartenesse a qualcuno che conteneva un qualche segreto?
Tipo, quel damerino che gli voleva soffiare la donna della sua vita?

Si avvicinò al bordo del letto e sedendosi sul parquet a gambe incrociate, accese una lampada posta vicino ad un comodino per far  più luce.
Voleva scoprire cosa custodisse al suo interno e solo il buon Dio sapeva quanto fosse ghiotto di curiosità; eppure aveva una strana sensazione, come dei brividi, che lo aveva portato a raddrizzare la schiena e le spalle muscolose.
Il suo sesto senso gli intimava di non sottovalutare quel brutto presentimento, ma il solo pensiero che si stesse mettendo paura per uno stupido album fotografico lo fece quasi ridere per il nervosismo.
Chiuse per un attimo gli occhi, preparandosi psicologicamente a qualsiasi “sorpresa” gli potesse capitare davanti, anche la più inaspettata.
Rimase per vari minuti in silenzio, a guardare quel grosso album impolverato poggiato dolcemente tra le sue gambe e solo il suo respiro rompeva la quiete in quella stanza.
Inspirò ed espirò.

Era pronto. 

Gilbert imbracciò con decisione la copertina dell’album e senza ulteriore indugio, aprì la prima pagina.
Un delicato aroma di gigli e fiori d’arancio invase le sue narici.
Sorrise senza rendersene conto.

Gli ricordava Elizabeta al giorno del loro matrimonio.

Aveva quel profumo quando lo stava raggiungendo all’altare, sparso tra le dita affusolate per via del bouquet di fiori, sui lunghi capelli castani che in quell’occasione erano raccolti in una crocchia morbida e persino alle gote, contornate da un bel rosso amarena.
Ricordava i loro sorrisi fugaci durante lo scambio delle promesse, la loro stretta di mano che emanava calore ed affetto supportandosi a vicenda in quel momento unico e gli applausi degli invitati che gioivano, chi con le lacrime agli occhi e chi no, al fatidico “puoi baciare la sposa”.
Come poteva mai dimenticare, poi, il loro bacio inumidito dalle lacrime di gioia di sua moglie, profumavano proprio come l’inconfondibile odore dei gigli e fiori d’arancio, che lo fecero sentire l’uomo più felice del mondo.

Gli si inumidirono gli occhi.

-“Smettila di fare il rammollito, è poco magnifico.
Se Francis mi vedesse in questo stato… come minimo mi paragonerebbe a Matthew.”

Ridacchiando tra sé e sé, asciugò con il dorso della mano le piccole gocce di rugiada da entrambe le palpebre.
Scuoté la testa un paio di volte ricordandosi che non aveva ancora ispezionato l’album che aveva tra le gambe.
Le iridi scarlatte catturarono varie fotografie sparse in ordine casuale, tenute ferme grazie ad appositi appoggi sopra, un po’ sbiadite ma non aveva difficoltà a mettere a fuoco l’immagine davanti a sé.
Alcune ritraevano varie persone in una grossa magione tipica ungherese, che si stringevano in un grande abbraccio con sorrisi che partivano da una guancia all’altra da vari bambini, altri invece si vedevano alcuni momenti quotidiani della giornata.
Feste di compleanno, cenoni durante le festività, le escursioni a cavallo, le comunioni e tanti altri momenti racchiusi in varie figure; erano così tanti che il prussiano fece fatica a metabolizzare tutt’insieme.
In altre pagine aveva trovato una sezione dedicata ad Erzsì: in fasce, i suoi primi passi, all’asilo fino all’adolescenza e persino in alcuni ritratti dove la castana badava ai cavalli, creature meravigliose quanto intelligenti, dentro ad una stalla; in altre ancora, c’era sempre lei che accudiva amorevolmente e con dedizione due puledrini.

Sorrise teneramente.

Sapeva perfettamente quanto ella ci tenesse a stare all’aria aperta e stare a stretto contatto con gli equini, guai a lui se osava contraddirla!
Seppur con velata apparenza, anche l’albino condivideva un legame profondo con i cavalli e prima che la sua famiglia si sfasciasse definitamente, andava con un piccolo Ludwig alla veneranda età di dieci anni nella stalla del vecchio Fritz, il migliore amico di suo padre.
All’inizio li accudiva e si assicurava che a loro non mancasse niente, ma prima che se ne rendesse conto, aveva iniziato a salire in groppa a quelle creature imponenti quanto regali.
Era un adolescente allora, ma non dimenticò mai quelle sensazioni che lo travolsero come una tempesta in una giornata di sole.

Adrenalina.
Empatia.
Libertà.

Lo avevano aiutato ad essere più sicuro di sé.
Non ringraziò mai abbastanza il caro e buon vecchio Fritz.
Il timore che suo padre lo scoprisse e lo punisse per le sue azioni sconsiderate era alto, ma quando andava a galoppo con l’entusiasmo a mille, niente aveva più importanza.
Trasmise quella voglia di correre ed essere un tutt’uno con il vento anche a quel musone di suo fratello, però lui era più un tipo da terra ad addestrare pastori tedeschi.

Ma di tanto in tanto, gli parlava delle sue escursioni mattutine nella Foresta Nera.

Gli mancava battibeccare con Ludwig durante le loro gite a cavallo, la sensazione di poter toccare il cielo e le nuvole con le dita e l’odore di fieno fresco.
Lo sterco un po’ meno.
Arricciò le labbra in una smorfia, disgustato, al ricordo del Gilbert bambino a occuparsi delle stalle armato di forcone e pazienza.
Sfogliando un paio di pagine, aveva adocchiato delle fotografie nel periodo in cui lui ed Elizabeta erano dei bambini  talmente inarrestabili e problematici che ogni giorno scommettevano sulle loro abilità e si davano azzuffate come cane e gatto.
Ne aveva viste di sfumature in lei, ma ciò non significava che l’amava ancora di più.
Ok, forse stava invadendo uno spazio personale trattandosi proprio del suo album dei ricordi, ma se questo poteva aiutare Gilbert a punzecchiare l’ungherese su fatti imbarazzanti legati alla sua infanzia, era pronto nell’impresa.
Pagina dopo pagina scopriva sempre qualcosa di nuovo e questo lo rese felice nella maniera più genuina e pura possibile.
Non aveva niente a ché vedere con gli album fotografici che aveva con sé tempo fa, su questo poteva essere onesto, tuttavia non poté negare che quelle fotografie lo avevano conquistato.

Sfogliò un paio di pagine più avanti finché una figura conquistò la sua attenzione.
Era scivolata tra gli appoggi dell’album e poco a poco stava rotolando via tra le sue ginocchia.
La acciuffò con i suoi riflessi pronti e voltò quel pezzo davanti alla sua visuale, curioso di sapere cosa si nascondesse.

-“Vediamo cosa nascon-”

Le parole gli morirono in gola quando vide una foto a lui familiare.
Fin troppo familiare.
Sgranò gli occhi scioccato.

Cosa ci faceva quella foto nell’album fotografico?
Non esisteva solo una copia tra i cimeli della famiglia Beilschmidt?

Un forte senso di nausea ed abbattimento lo costrinse a poggiare la testa sul materasso morbido e rivolgere lo sguardo verso il soffitto bianco, sciogliendo i muscoli delle braccia che prima tendevano come una corda di un violino.
Batté lentamente le palpebre fino a quando non li tenne chiusi, percependo quell’irrefrenabile desiderio di strofinarseli per non piangere a dirotto, fino a farli diventare rossi come le sue iridi.
In quel lasso di tempo, con il magone alla gola che gli impediva di mandarlo giù, non aveva voluto mollare la foto.
La strinse così forte tra le dita che udii impercettibilmente il tipico suono della carta accartocciarsi su se stessa.
Il suo respiro si era fatto lento e profondo permettendogli di sentire, in maniera precisa e scandita, il battito del suo cuore; era regolare e costante come sempre, tuttavia si stava aprendo man mano una ferita che, per anni e anni, aveva cercato di guarirla nei migliori dei modi.

Gli pareva di sentire il suono della sua voce.
Era dolce e innocente, tipico di lui.

“*Bruder, quando sarò guarito, mi prometti che faremo un’escursione con i cavalli?”

Ogni volta che Gilbert armeggiava con i suoi album fotografici perdeva la cognizione del tempo e spesso viaggiava nei ricordi con un sorriso nostalgico, per ricordare i bei vecchi tempi.
Tuttavia, quella situazione era tutto fuorché piacevole.

Era decisamente diversa.

Riaprì gli occhi con una lentezza asfissiante, se li sentiva gonfi e inclinando la testa di lato, si ritrovò faccia a faccia con la suddetta fotografia che lo aveva messo in agitazione.
Era un po’ sbiadita, segno che era stata presa tra le mani un paio di volte; essa provocava al giovane uomo una dolorosa fitta al cuore e aveva il forte presentimento che di lì a poco si sarebbe soffocato, ancora una volta, per il grosso magone alla gola.
Con dita tremanti, accarezzò la fotografia.
C’erano due bambini avvolti in grossi cappotti scuri, circondati dal manto candido e purpureo della neve di una Berlino in pieno inverno e guardavano l’obbiettivo curiosi; il primo aveva dieci anni, aveva i suoi stessi capelli albini, sempre disordinati, e i suoi stessi occhi rossi vispi e malandrini che abbracciava con affetto ed energia l’altro bambino.

 “Hey, tranquillo Otto, ci andremo insieme. È una promessa.”

Doveva avere all’incirca otto o nove anni, che stringeva con fare protettivo un soldatino giocattolo, i capelli di un biondo così chiaro come l’oro bianco e leggermente spettinati facevano capolino nel berretto grigio di lana e gli occhi grandi ed azzurri sembravano brillare di luce propria.
Era terribilmente pallido, non quanto non lo fosse già l’altro bambino, e nonostante il continuo rossore sulle sue guance paffute e il naso piccolo, il suo sorriso era così puro e caldo che riscaldava i cuori di chiunque lo guardasse negli occhi.

Da quanto tempo era rimasto fermo a guardare quella fotografia?
Qualche minuto?
Mezz’ora?
Non lo sapeva nemmeno lui.

Ogni volta che vedeva il viso di quel bambino timido ma tanto felice gli ricordava in maniera spaventosa Ludwig: stessi capelli biondi e corti, stessi occhi azzurri e lucenti, stesso broncio infantile ma adorabile, stesso sorriso candido e genuino.
Per alcuni anni aveva pensato che, magari erano la stessa persona e non dovesse più sentirsi responsabile della sua prematura scomparsa, ma Gilbert sapeva perfettamente che non era affatto così, che non era questa la realtà dei fatti.
Ludwig e Otto non erano la stessa persona.
Non aveva la sua stessa piccola voglia a forma di corona sulla spalla destra.
Non aveva i suoi stessi e numerosi nei intorno al torso e alla clavicola.
Non aveva i suoi stessi gusti in fatto di cibo, musica ed interessi.
Era vero che di aspetto si assomigliassero molto, tuttavia, Ludwig e Otto erano completamente diversi.
In tutto e per tutto.

Gli s’incrinò la voce talmente forte che temette di perdere la voce.

-“Otto…”

Sembrava un brutto scherzo del destino.
Davvero brutto.
Crudele e spietato.
Proprio come il cancro che, infame e bastardo, gli aveva portato via il suo amato fratellino in tenera età; lasciandolo in balìa nel dolore più puro e meschino.
Ricordava bene cosa disse il medico di famiglia tempo addietro, le probabilità che Otto si salvasse dal cancro, al quarto stadio, proprio all’altezza del cuore erano inferiori al cinquanta per cento; ma in cuor suo, sperava che almeno il Buon Dio lo risparmiasse da quella brutta agonia.

Ma, sfortunatamente, avevano altri piani per lui.

Si morse un labbro, provando invano a soffocare un singhiozzo ma sapeva bene che trattenersi non serviva a niente, se non a farsi ancora più del male.
Il suo piccolo, screanzato se non dolce Otto
Beilschmidt.
Almeno non ha sofferto troppo, pensò lui.

Gli si appannò la vista e prima che se ne rendesse conto, il viso diafano dell’albino fu inondato di lacrime a non finire.
La foto scivolò dolcemente tra le sue dita andando a finire tra le pagine dell’album, posto ancora tra le sue gambe.
Con la mano libera, mise l’album a terra ai piedi del comodino, così che potesse muoversi liberamente dato che si sentiva schiacciato dal peso abnorme di quel grosso librone dei ricordi e della sua stessa coscienza.

Non ce la faceva più.

Il rimorso lo stava consumando così tanto che mise a repentaglio la sua forza di volontà e il suo spirito guerriero, costruiti dopo anni di sacrifici e resistenza forzata, scoprendo quel lato di se stesso che aveva tentato di nascondere.
La sua fragilità.
La sua sensibilità.
Rannicchiandosi su se stesso, affondò la testa tra le gambe e si sfogò in un lungo pianto liberatorio.
I suoi singhiozzi strozzati echeggiarono nella stanza, cupi e disperati come il latrato di un cane bastonato, e il buio lo avvolse completamente.
Credeva di aver trovato qualcosa d’interessante e stimolante, qualcosa che non gli facesse ricordare il passato; ma mai si sarebbe aspettato d’imbattersi in quella foto.
La stessa che da anni gli provocava un dolore morale e psicologico.
La stessa che lo tormentava da anni causandogli notti insonni ed incubi strazianti.
Imprecò parole molto pesanti, soprattutto l’anima di suo padre ormai andato, aveva i brividi su tutto il corpo e il gelo gli penetrò fin sotto la pelle chiara cercando di coprirsi invano con le braccia.
Non smise di tremare neanche per un attimo.

Biascicò non so quante volte un “mi dispiace” per essere stato un pessimo fratello maggiore e che non aveva fatto abbastanza per alleviare la sua condanna a morte.
Aveva accettato da tempo immemore che lui non avesse colpe per la malattia di Otto, eppure, in qualche modo si sentiva “responsabile” per non aver fatto niente nei suoi ultimi istanti di vita.

Era così preso dal suo sfogo che non si accorse minimamente che ci fosse qualcun’altro nella camera da letto.

-“Gil…”

Quella voce, così delicata e cristallina, gli era familiare.
Non fece in tempo ad alzare il capo che un tepore piacevole, come una calda coperta che ti abbracciava nei rigidi inverni, avvolse dolcemente se non in parte il corpo dell’albino.
Un leggero profumo di fieno fresco e fiori di campo gli invase le narici.
Chiuse per un attimo le palpebre.
Conosceva bene quell’aroma e anche la persona che lo aveva sulla sua pelle.
Tirò su con il naso un paio di volte.
Lui non si ritrasse, nelle condizioni pietose in cui si trovava al momento non aveva nemmeno la forza di muoversi, anche se gli fosse passato per la testa di fare una cosa del genere.
Si sciolse un po’, ricambiando quell’abbraccio impacciato quanto confortante, ma non abbastanza da farlo smettere di piangere.
Ci mise un po’ a formulare una frase di senso compiuto a voce alta, complici i singhiozzi e i grossi magoni alla gola che gli impedivano di proferire parola, ma riuscì nel suo intento.

-“Avrei voluto fare qualcosa per lui... qualunque cosa.”

Piccole mani rosee circondarono il viso di Gilbert, come una dolce carezza, percependo lo schiocco di un bacio umido e caldo sulla sua fronte.
Fu solo allora che aprì gli occhi, seppur la sua vista era ancora annebbiata per le lacrime, complice anche il buio.

Elizabeta era lì, inginocchiata di fronte a lui.

-“*Shhh…Nem a maga hibája, Gilbert.”

Scontrandosi con le sue iridi verdi che in quel frangente erano socchiusi appena, riuscì comunque ad intravedere un piccolo luccichio animarle lo sguardo.
Lo guardò dritto negli occhi.
Lui percepì tutto il suo amore e la sua gentilezza, nonostante vi fosse un velo di tristezza ed impotenza, soprattutto a certi ricordi del passato che faceva fatica a dimenticare.
I lunghi capelli castani, spesso liberi ed indomabili, erano raccolti in una treccia disordinata, qualche ciuffo le solleticò le ciglia, ma non sembrava infastidita.

-“Tu gli volevi un bene dell’anima e hai fatto l’impossibile per lui. 
Sei stato un “magnifico” fratello maggiore per Otto… non dimenticarlo mai, lui vive ancora lì, nel tuo cuore.”

Asciugò le sue lacrime pian piano, cercando di non fargli male, con una delicatezza da far curvare le labbra all’insù.
Le sue parole emanavano pace e sicurezza ed erano andate dritte al petto, facendolo sobbalzare un po’ a sentire la parola “magnifico” uscire dalle sue labbra rosee e carnose.
A volte stentava a credere di quanto le sue mani fossero così calde e morbide, ricordando quante volte da piccolo aveva ricevuto delle sberle dietro la nuca e i ceffoni alle spalle dall’ungherese, eppure eccole lì, a confortarlo come solo lei sapeva fare.
Vide distrattamente un piccolo anello nuziale sul suo anulare sinistro notando quanto rispecchiasse quel colore su di lei.
Così umile, gentile e premurosa con il prossimo, eppure una gran testona ed energica quanto il sottoscritto: una bella gatta da pelare.

Elizabeta Hérdevàry era fatta così e non avrebbe mai smesso di amarla; lei era la sua ancora di salvezza, il suo porto sicuro dalle tormente e la sua ragione di vita.

L’albino strusciò piano la guancia sulle sue mani e mise il suo palmo per stringere meglio la presa, non volendo abbandonare quel tepore tanto piacevole al tatto.
Era così grande rispetto alle sue, così piccole e fini, eppure erano in grado di infondergli tante emozioni nel suo animo.
Poté notare il suo rossore contornarle le gote, al che sorrise di più fino a quando non le baciò le dita, una per una, fino all’anello; per lui era un modo per dirle “grazie”, di come fosse riconoscente della sua presenza e del suo sostegno in quel preciso momento.
Lei biascicò varie cose in lingua madre, sempre paonazza al viso, di quanto suo marito poteva essere esageratamente romantico da farle prendere un attacco di cuore ma non poté fare a meno di sorridergli, intenerita, al suo gesto.
Si strinsero in un caldo abbraccio, lasciando di tanto in tanto dei baci e carezze, ma non mollarono la presa per nessuna ragione al mondo, nemmeno se si fosse scatenata un’altra Guerra Mondiale.
Spensero la luce.
Gilbert aveva ancora i residui del lungo bagno di lacrime e rimorso in circolo ed Elizabeta voleva aiutarlo in tutti i modi possibili.
Lui aveva bisogno di lei.

Ora più che mai.

 

 

 

 

 

 Angolo dell'autor*:

Salve, era da tanto che non mi facevo sentire.
Vi sono mancat* un po'?
Non entravo qui su EFP da un paio di mesi, in effetti...
Ieri è stata la giornata dedicata alle uova di cioccolato, ai conigli e ai pulcini carini e coccolosi; insomma, Pasqua; ne approfitto per augurarvi una buona caccia alle uova e il duello all'ultimo sangue con le pietanze pasquali hahahhahha
Spero che siate riusciti a festeggiarlo in armonia, nonostate il casino là fuori con il COVID19.
Teniamo duro ragazzi, prima o poi ritorneremo alla normalità, e rendiamo questa quarantena meno asfissiante, sopratutto se avete dei parenti un po' invadenti o facilmente suscettibili.
Ad ogni modo, lasciamo questo discorso a parte perchè ho delle cosine da dirvi.
Prima di tutto sto casino del virus, ovvero intorno Gennaio/Febbrario, ho abbandonato fino ad ordine indeterminato(?) il campo del cosplay: è stato davvero faticoso dover chiudere la pagina, ma non potevo fare altrimenti; già da tempo immemore non mi sentivo più, come dire, felice a quello che stavo facendo.
Non ho scritto definitamente la parola "fine" per quel hobby, perchè nel profondo del mio cuore so che mi manca... ma ho pensato che fosse arrivato il momento di staccare la spina.
In occasione di ciò, ho aperto una pagina (di disegno, cucito, insomma tanta roba da crafter e artista)  dove posso postare tutto quello che mi passa per la testa, così che io non mi sentissi costantemente a disagio e triste.
Sto decisamente meglio dopo quel brutto fattaccio e nulla, nonostante la quarantena e tutto, mi tengo parecchio indaffarat*.
Finalmente, dopo anni, pubblico una ff seria riguardante questa serie, bellissima ed umoristica, che mi ha accompagnat* in questi anni portandomi a conoscere varie persone.
All'inizio non me la sentivo di pubblicare qualcosa, stavo provando varie tecniche di scrittura e vari punti di vista su certi personaggi... finchè ad una certa, non ho voluto mollare tutto.
Chissà poi per quale motivo, mah-
Ho parecchie sorprese per voi, cari/e lettori/lettrici, e non vedo l'ora di potervi far vedere tutto tutto.
Ringrazio l'admin del gruppo facebook di Hetalia che mi ha invitato al contest e che tempo fa, avevo provato a partecipare ma ho rinunciato per svariati motivi.
Premessa: questa ff non era prevista che si sfociasse nell'angst ad una certa, giuro, ma solo un po' di fluff service e momenti romantici con la mia ship preferita che, per anni, è stato il mio chiodo fisso... dopo la Spamano obviously.
Gilbert ed Elizabeta, aka Prussia e Ungheria.
IO LI AMO-
Ahem, dicevo, non era prevista che si trasformasse in una ff triste...ma, boh, la teoria che Otto e Ludwig, aka Sacro Romano Impero e Germania, non fossero la stessa persona mi ha davvero, ma davvero, stuzzicato la curiosità.
Partiamo con le traduzioni: durante la lettura di questa one-shot vi sarete sicuramente imbattuti/e in parole o frasi non nella nostra lingua, giusto?
Eccole qui-

* Geborgenheit: Tedesco, parola intraducibile ma ha un significato specifico, ovvero “Quella sensazione di sicurezza che si prova stando con persone a cui si vuole bene.”
* Mein Gott: tedesco, esclamazione di sorpresa “Mio Dio”.
*Bruder: tedesco, “Fratello/Fratellone.”

*Nem a maga hibája: Ungherese, “Non è colpa tua.”

Detto questo, spero che vi sia piaciuta la mia PrusHun e auguratemi buona fortuna quando riuscirò a portare per inscritto(?) tutto il materiale che avevo preparato molto tempo fa qui, su questa piattaforma.
Vi abbraccio forte, restiamo a casa e usciamo con la fantasia, e nulla non ho nient'altro da dirvi.
Ci si vede per i prossimi aggiornamenti di one-shots, future longs e quant'altro!
Baci,
Artemìs

   
 
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