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Autore: AdelaideMiacara    16/04/2020    2 recensioni
Era il pomeriggio del 13 luglio. Sulla riva del Prue, nella sponda appartenente a Little Garden, Mary era sdraiata all’ombra di un eucalipto rosso mentre con le dita accarezzava l’acqua che scorreva, e desiderava morire.
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Dalla finestra socchiusa entrava un filo di vento stridente che tentava di rinfrescare quella giornata afosa del 13 luglio, mentre la camera da letto restava ombreggiata grazie alla posizione del sole nel cielo a quell'orario. Louis si avvicinò alla finestra lentamente e la aprì per sporgersi e guardare il deserto di Cornwell Street. Era una strada lunga e stretta, parallela a quella principale del centro città, ma decisamente più pittoresca.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Una tipica giornata afosa estiva abbracciava la campagna, costringendo i pochi abitanti fuori porta a rifugiarsi al fresco delle loro case. Era il pomeriggio del 13 luglio, e poco dopo l’ora di pranzo usualmente le persone riposavano in quella che sembrava un’oasi in mezzo a due grandi città. La campagna era attraversata a metà da un piccolo fiume, il Prue, che divideva involontariamente due mondi opposti. Da un lato Lakoma, la città del commercio, dall’altro Little Garden, quella del turismo. Ciò che differiva realmente delle due città erano gli abitanti.
Sulla riva del Prue, nella sponda appartenente a Little Garden, Mary era sdraiata all’ombra di un eucalipto rosso mentre con le dita accarezzava l’acqua che scorreva, e desiderava morire. Il silenzio e la tranquillità della campagna nel periodo estivo, nonostante il caldo soffocante, le donavano una pace interiore che avrebbe potuto fare a meno di continuare a vivere, di quanto in quell’istante si sentisse completa. Mary, in verità, aveva tanti altri motivi nella sua vita per cui avesse desiderato morire, ma quelli accompagnavano il desiderio tristemente con le lacrime, mentre quello che stava provando adesso era quasi simile a una forma di gioia. In più di un’occasione Mary si trovò a pensare “se non muoio questa volta, vivrò fino a cent’anni”, ma questa prospettiva svaniva nei rari momenti di equilibrio mentale in cui inceppava la ragazza. Con lo sguardo fisso verso l’alto, Mary scrutava tra i rami dell’albero sotto il quale era distesa per cercare un uccellino che da qualche minuto aveva iniziato a cantare sopra la sua testa. I raggi del sole filtravano attraverso le fitte foglie di eucalipto, infrangendosi qua e là e creando sul pavimento erboso dei giochi di luce.
Da quando era una ragazzina, quello è sempre stato il suo posto preferito: il luogo dove poter dimenticare che fosse viva, ma soprattutto che stesse vivendo in un mondo che non le apparteneva e i cui abitanti fossero la cosa più distante dalla sua persona. Continuava a giocare con le dita nell’acqua del fiume, distesa su un fine lenzuolo di lino color crema che avrebbe dovuto lavare non appena tornata a casa, dato che iniziava già a intravedere delle macchie di terra.  È difficile descrivere Mary senza precisare che, in realtà, era una ragazza solare e carismatica come poche. Di lei si innamorarono tanti uomini, ma nessuno era ancora riuscito a rubare il suo cuore. Lei era ribelle e inafferrabile.
Persa tra i suoi pensieri, fu portata alla realtà dal fruscio di un cespuglio poco lontano da lei, facendola sollevare sulle braccia. La prospettiva era cambiata, e davanti a sé vedeva il boschetto che la circondava e il fiume scorrere lento e cristallino. Si guardò intorno per pochi secondi e la fonte di disturbo sbucò dal cespuglio di fronte ai suoi piedi.
«Ciao, stronzo» disse Mary, spezzando il religioso silenzio che l’aveva accompagnata per circa un’ora, rivolgendosi a un grosso gatto rosso con una macchia bianca che andava dal muso fino al petto. Era il suo gatto Proust, un animale che rispecchiava perfettamente il carattere della sua padrona: libero, incorreggibile, sfuggente agli altri, impiccione e alle volte aggressivo. Lo trovò un anno prima sulla sponda opposta del Prue quando era solo un cucciolo, urlante in riva al fiume. Mary pensò bene di togliersi le scarpe, attraversare il fiume noncurante dell’acqua gelida e andarlo a prendere, e una volta afferrato lo portò vicino al viso e gli disse: «tu sarai mio complice». Lo chiamò Proust per evocare a livello sonoro il nome del fiume, dove il micio fu salvato, ma soprattutto perché «se fossi rimasto a Lakoma, adesso ti chiameresti Prue. Ma sei di Little Garden, quindi meriti un minimo di cultura».
Dopo aver salutato il suo fedele compagno, Mary tornò a sdraiarsi sul lenzuolo mentre anche un lembo del suo vestito azzurrino che le arrivava alle caviglie era già sporco di terra. Proust si accomodò accanto alla ragazza, reclamando qualche carezza, così Mary lo accontentò. Dal prato strappò una piccola margherita e la appoggiò sulla testa del gatto, che prontamente fece cadere per terra iniziando a giocarci. La ragazza prese il fiore, quasi disturbata da Proust per non averle chiesto il permesso per giocarci, e lo infilò tra i suoi capelli soddisfatta. Mettendosi a sedere, si stiracchiò le braccia verso l’alto e poi rivolse uno sguardo a Proust.
«Non guardarmi così. L’avresti rovinato» gli disse, successivamente si alzò da terra con uno scatto e afferrò il lenzuolo. Per Mary, parlare con il suo gatto era la normalità, in quanto secondo lei fosse l’unica anima vivente affine alla sua. Non che evitasse il contatto umano, anzi, la ragazza era sempre al centro della vita mondana di Little Garden, anche involontariamente. Era la seconda figlia femmina di una famiglia modesta che ha sempre abitato, da prima della nascita dei suoi fratelli, in una villetta rustica in cui stavano un po’ stretti. Poi il destino ha voluto che Mary crescesse in fretta a causa di eventi concatenati che portarono alla distruzione della sua famiglia: dapprima morì la madre a causa di un brutto male, il padre dopo una brutta storia di depressione e alcolismo lasciò la famiglia per risposarsi, e rimasero Mary, sua sorella Jade e il fratello Harry. Qualche anno dopo Jade si sposò, trasferendosi con suo marito nella città di Lakoma, facendosi viva con la famiglia di tanto in tanto con una telefonata o una visita a sorpresa. Ma la vita della ragazza prese una nuova svolta quando, insieme al fratello, scoprirono di aver ereditato il patrimonio di un caro zio da parte di madre. Il buon vecchio zio Jerard lasciò ai ragazzi non solo una cospicua eredità, ma anche la sua magnifica villa vicino la sponda del fiume Prue a Little Garden.
Mary camminava lentamente, seguita da Proust come se fosse la sua ombra, passeggiando per il vialetto sterrato che portava al retro della sua grande dimora. Il sole le baciava la pelle olivastra, mentre i lungi capelli castani erano coperti da un cappello di paglia intrecciato che andava tanto di moda in quel periodo. Il vestito morbido azzurrino fluttuava grazie al filo di vento che si era levato per un istante, facendo sembrare in lontananza la ragazza una figura sinuosa tutt’uno con l’aria.
La grande villa dei Williams si trovava sulla strada principale che portava al centro città, ma alle spalle era avvolta da un piccolo boschetto simile a quello da dove la ragazza stava tornando. Arrivata davanti la grande inferriata, aprì silenziosamente il cancelletto lasciato socchiuso qualche ora prima ed entrò nel giardino privato. La villa sorgeva su una grande proprietà e possedeva un altrettanto vasto cortile, dotato tra le altre cose di due gazebi in ferro battuto e una piccola serra in vetro dove fioriva un roseto. Mary estrasse dalla sua borsa in tessuto un paio di occhiali da sole neri dalla montatura allungata e li indossò, facendosi strada nel vialetto che portava fino all’ingresso sul retro della casa. Alle sue spalle, Proust smise di seguirla per concentrarsi ad acchiappare le foglie trascinate dal vento. Aprì la porta e la lasciò socchiusa, così che il gatto potesse entrare successivamente.
Non appena entrò subito avvertì la differenza di temperatura: la casa era sempre fresca, nonostante all’esterno si sfiorassero i 40 gradi. Il silenzio che regnava fuori, tuttavia, si mantenne anche dentro. La ragazza si avvicinò all’imponente scala dai passanti in ferro battuto e gli scalini in marmo bianco, quando dal piano superiore scese correndo il figlio della governante e le si piazzò davanti.
«Victor» disse, a mo’ di saluto «una bella giornata. Non trovi?». Il bambino le rispose con un sorriso timido, per poi correre via verso il giardino. Victor, figlio di Jane la governante, era un bambino sordomuto. Aveva sette anni ma sembrava essere molto più furbo per un bimbo della sua età, e soprattutto un attento osservatore delle vite dei suoi coinquilini. Insieme alla madre, si trasferirono alla tenuta dei Williams quando Harry riuscì a trovare un lavoro nel campo del turismo per non gravare sull’eredità, e assunse Jane per evitare che la casa diventasse un porcile. A soli 27 anni, Harry Williams aveva già una fortuna e al tempo stesso un lavoro rispettabile, cose che lo resero molto appetibile agli occhi delle centinaia di ragazze di Little Garden alla ricerca disperata di ricchezza. “Se solo sapessero”, pensava Mary, “quale sia la vera ricchezza”. E non lo pensava per altezzosità, al contrario: Mary è sempre stata tutto ciò che di più diverso esistesse dall’intera comunità di Little Garden, una comunità frivola, egoista, narcisista. Mary sapeva bene che la ricchezza più grande non apparteneva al loro mondo, ed era la ricchezza d’animo, e quella non la si può comprare in nessun modo. Nonostante ciò, la ragazza veniva etichettata dai suoi compaesani come una loro simile. La bellezza, l’eleganza, la sensualità di Mary facevano invidia all’intera comunità, ma ciò che più faceva storcere i nasi era il suo essere ribelle. Era uno spirito libero, nessuno poteva vincolarla in alcun modo, amava far festa e bere gin, portava abiti attillati e faceva soffrire gli uomini.
Quando entrò nella sua stanza al piano di sopra, le sembrò di essersi appena svegliata da un sogno. L’impatto potente del sole l’aveva stordita, decise di sedersi al tavolino bianco nel suo balcone che dava sul retro, dove a quest’ora non batteva il sole. Il balcone non era molto grande, ma c’era abbastanza spazio per farci entrare il necessario: sulla sinistra un tavolino con due belle sedie rivolte verso il panorama, sulla destra una panchina in legno con diversi cuscini. Mary si sedette sulla panchina, alzando i piedi sulla ringhiera. Lei e suo fratello amavano organizzare di tanto in tanto delle feste nella tenuta, che finivano per essere eventi mondani a cui partecipavano anche persone provenienti appositamente da Lakoma. E il fatto che non fossero eventi periodici ma occasionali, li rendevano ancora più esclusivi.
Mentre guardava il paesaggio, la ragazza sentì un tonfo provenire dalla sua stanza e saltò in aria, per poi girarsi di scatto. Si alzò dalla panchina e lentamente spostò la tenda bianca.
«Harry?» chiamò, prima di entrare nella sua stanza. Mary trasalì quando vide una figura femminile di spalle giocare con un oggetto preso dalla sua scrivania. In un attimo cercò di pensare chi potesse essere quella ragazza, ma non somigliava fisicamente a nessuna delle sue poche amiche, tantomeno a Jane la governante. Ma il vero colpo al cuore lo avvertì quando la figura si voltò verso di lei.
«Non ridi più, Mary?» disse la ragazza in piedi davanti a lei. Mary pensò di avere le allucinazioni, perché quella donna era… lei stessa. In tutto e per tutto, dalla testa ai piedi, aveva davanti agli occhi una copia di se stessa. Mary iniziò a sentire la testa così pesante e le gambe così deboli, che alla fine si abbandonò e cadde per terra perdendo i sensi.
 
   
 
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