Black vodka
Molte persone
entreranno ed usciranno dalla tua vita, ma soltanto i veri amici lasceranno
impronte nel tuo cuore. (E. Roosevelt)
∞
Guardo l'orologio, sono le sei del pomeriggio. Come sei sono gli
ospiti che arriveranno fra un paio d'ore; meno male, ho il tempo necessario per
prepararmi e riceverli al meglio.
La tavola della sala da pranzo è stata già apparecchiata, per la
cena, dalla signora ecuadoregna che ho assunto per un aiuto nei lavori
domestici. Aiutarmi, sì...detesto pulire, ho sistemato, per tutta la vita, gli
errori altrui e mi secca occuparmi della sporcizia del mio attico.
Durante il colloquio per l'assunzione, la governante ha compreso
subito con chi avesse a che fare. Ha letto nei miei occhi, verdi e taglienti,
che la riservatezza, l'obbedienza e la trasparenza sarebbero state doti
indispensabili per tenersi il posto. Non ha detto una parola che non fosse un
sì e continua su quella linea.
D'altronde - rifletto, seduta sul letto a gambe incrociate,
tentando di raccogliere le idee - da una ex spia del KGB, assassina provetta,
mercenaria, membro del team degli Avengers, non c’è da aspettarsi nulla di
meno.
Do una rapida occhiata alla sveglia di cristallo Swarovski, a
forma di stella, sulla cassettiera, alzandomi in piedi, e togliendo dalla testa
la felpa della comoda tuta grigio mélange che indosso; la lancio sul pavimento,
facendola volare, svogliata. La raccoglierò, poi.
Mi diverto a riprodurre i passi di una spogliarellista di
professione davanti a un pubblico inesistente, per mero divertimento personale.
Sono sempre stata un'esibizionista, consapevole della mia bellezza e di come
utilizzarla. Continuo coi pantaloni, che si depositano anch'essi sul parquet
rovere chiaro.
Cammino sulle punte dei piedi - alla maniera della ballerina che
ero ai tempi passati del Teatro Bol'šoj - verso il bagno, ove mi aspettano le
bollicine della vasca idromassaggio, che già ribollono nel liquido, per donarmi
una coccola piacevole.
Mi libero delle mutandine di pizzo nero, molto poco caste, e
osservo, compiaciuta, il mio corpo allo specchio, indugiando sul torace, libero
da un reggiseno che non indosso.
Sto per soffiare su una coppia di candeline impegnative, i due
numeri del mezzo secolo; tuttavia, la muscolatura è ancora tonica, la pelle è
compatta, il petto è teso. Da dietro sembro un'adolescente, lo dimostrano i
fischi di apprezzamento che ricevo per strada, da perfetti sconosciuti.
Il merito è della maniacalità nell'allenamento e della disciplina
di stampo d'oltrecortina. Potrebbero testimoniarlo le giovani reclute mie
sottoposte, che schiavizzo quotidianamente, con la severità di un’istitutrice.
Ammetto di aver usufruito di un piccolo aiutino del più noto
chirurgo plastico newyorchese, che frequento regolarmente: un appuntamento
mensile per svariate punturine, a cui mi convinse dopo un intervento contro la
forza di gravità che penalizzava il pezzo forte, la parte del mio corpo più
amata in assoluto più guardata. Il seno… un biglietto da visita che ha aperto
molte porte, anche della stupidità.
Raccolgo i capelli - che porto ancora lunghi e rosso mogano - con
un elastico morbido, per evitare di rovinare la messa in piega del coiffeur,
nel cui salone mi sono recata nel pomeriggio.
Con un cerino, accendo i bastoncini di incenso azzurri, posizionati
orizzontalmente su un piattino di ceramica decorato a motivi etnici, posto sul
bordo marmoreo della vasca, in cui entro. Incenso di Asgard, un regalino di
Thor, che proviene da lì, e che non indica certo la presenza degli Angeli.
La sua battuta sessista, pronunciata la prima volta che mi vide,
soppesando il contenuto della mia uniforme da combattimento elasticizzata e
nera carbone - la sfumatura legato al mio nome di battaglia - indirizzò il
nostro rapporto.
Era un principe, un semidio con mille anni di vita sulle spalle
granitiche e incredibili poteri, proveniva da un altro regno ed era sconvolto
per il voltafaccia del fratello adottivo Loki, presentatosi sulla Terra per
conquistarla, con intenzioni bellicose.
Fu poco nobile di spirito, squadrandomi dall'alto in basso,
soffermandosi sulle forme del mio fisico sinuoso. La sua mano corse a spostare
la ciocca di capelli biondi ricadutagli sulla fronte, sopra le iridi cerulee,
schernendomi.
Sul suo pianeta - dove le guerriere coraggiose non mancavano - una
come me avrebbe trovato la giusta collocazione in luoghi squallidi,
sovraccarichi di odore di incenso bruciato...ambiente corrotti e malfamati,
ovvio. Lo sottolineò, con un sorriso beffardo e sornione, che perse in un
secondo. Quello in cui lo colpii al volto, con un calcio volante. E no, non se
lo aspettava.
Diressi la punta acuminata dell’anfibio destro proprio
all'incrocio delle sue labbra, elevandomi, con precisione millimetrica.
Un'espressione sbigottita, mista a rabbia, comparve sul suo volto; riconobbi la
sua intenzione omicida, trattenuta esclusivamente dalle buone maniere, la
stretta delle nocche diventate bianche sull'inseparabile martello.
Passò le dita sul punto del mento in cui scendeva un sottile
rivolo di sangue, per pulirsi.
La mia reazione corroborò l'opinione che ha ancora di me.
Perfetto, nello stile; purtuttavia, ad ogni genetliaco - memore dell'episodio
di cui fu miserabile protagonista - mi omaggia, cortese e sfacciato, di un dono
proveniente della propria riserva personale di bastoncini, che accetto, con
altrettanta gentilezza.
Mi stiracchio, nell'acqua bollente, nel modo di una gattina appena
svegliata da un lungo sonno, e detergo il corpo con una spugna naturale,
intrisa di un’abbondante dose di olio al sandalo, una preferenza non casuale.
Con lentezza, tentando di allentare la tensione, massaggio, con
movimenti circolari, le caviglie fino ai fianchi, per poi passare al busto ed
alle scapole, e ricominciare.
L’essenza del prodotto rovina il mio piano di distacco da
elucubrazioni mentali; l'aroma dolciastro che si insinua nelle narici mi
impedisce di godere appieno del trattamento benessere casalingo che mi sto
concedendo. Bruce Banner...mi ha instradato al sandalo come un compagno di
scuola a rollare una sigaretta di marijuana, o a sniffare una sana striscia di
cocaina.
Era la nota olfattiva caratteristica del dopobarba che usava, e
che, ahimè, usa ancora. Un antico frammento di memoria mi stravolge.
Reclutata dallo S.H.I.E.L.D. - un’organizzazione spionistica e
antiterroristica internazionale - collaboravo col Direttore Nick Fury, un nero
con un occhio solo dall'aria truce e dai modi spartani.
Certo che l'unica salvezza contro la minaccia di Loki al pianeta
fosse riunire personaggi dotati di poteri fuori dall'ordinario - me compresa - in una squadra, Nick mi ordinò di convincere un ingenuo ed educato
professore - esperto di fisica e biochimica, vittima di un incidente dagli
effetti imprevedibili - ad aggregarsi allo strampalato team.
Ingannai lo scienziato, già dal primo momento, in India,
rifilandogli una bugia dietro l'altra, e lui cedette alle mie lusinghe. Avevo
un'opzione differente? Ero cresciuta a menzogne e biberon, e nulla avrei
potuto, per salvarmi, se Bruce si fosse trasformato nella creatura mostruosa,
verde dei raggi gamma da cui era venuta fuori, dal nome di Hulk.
Era un novello Mister Hyde ben poco poetico e scarsamente
gestibile, lo scoprii a mie spese. Mi affascinò il contrasto tra la bestia
incontrollabile che albergava in lui e il dolce uomo occhialuto, ricciolino,
paffutello ed estremamente intelligente, che mi approcciava con timidezza e con
la normalità di un rapporto che mi era sempre mancato...e, più del resto, mi
colpì la sua colonia. Irresistibile. Inconfondibile. Attrattiva il tanto che bastò
a azzardarmi a sedurre il suo proprietario.
Lo incalzavo, lo provocavo, perché lo volevo per me. Mi
corrispondeva, ne ero certa. Non ebbi la pazienza di aspettare i suoi tempi;
sono un tipo da tutto e subito, cotto e mangiato.
La sua lentezza esasperante nell'approccio - in apparenza
giustificata dalla rabbia indomabile del suo alter ego verde, che non riusciva
ad addomesticare - mi destabilizzò, e detti il peggio di me.
Cantavo lunghe ninne-nanne e facevo mille moine e carezze al
bestione, terminati i combattimenti coi colleghi Avengers, per aiutare il
professore a tornare in se’, a essere di nuovo antropico; la stessa persona
inveiva contro di lui, nella privacy delle nostre stanze, cercando di
sciogliere il nodo scorsoio su cui era bloccata la nostra relazione.
Con uno scopo: convincerlo a tradire i nostri compagni, scappando
in un non luogo ancora da scegliere, in cui saremmo stati solo io e lui, al
sicuro, e dove non ci avrebbero trovato mai, grazie alle mie doti di illusionista.
Peccai di presunzione. In fondo, c'eravamo scambiati un unico, lungo,
bellissimo ed appassionato bacio, e null'altro.
E fui pure scarsamente perspicace! Chiesi a Bruce di compiere un
gesto per lui intollerabile e incomprensibile, contro natura: disertare,
abbandonare gli amici nel momento del bisogno. E Banner scelse. In modo chiaro,
netto. Si tirò indietro, semplicemente. Lasciò il gruppo e, soprattutto, me. Da
un giorno all'altro e senza una parola. Sgretolò, senza pietà, il pezzetto di
cuore rimastomi nel petto, che ora risiede sotto una protesi di silicone dal
modico costo di cinquemila dollari.
Con una consapevolezza: avevo mal riposto la mia fiducia, l'unica
volta in vita mia in cui avevo aperto le porte dell'anima ad un altro essere
umano. E una certezza ulteriore mi guastò lo spirito, un dogma scolpito nella
pietra: quando un uomo afferma di non essere pronto ad impegnarsi, sta
mentendo. Non vuole fare sul serio, con la partner cui si sta rivolgendo.
Troverà una compagna, per la vita, e si butterà, impavido.
La compagna di Banner non ero io. Bruce incontrò Brooke Brown, la
sua piccola strega, ma questa, ovviamente, è un'altra storia.
Sciacquo il corpo dal residuo di schiuma candida, uscendo dalla
vasca, e mi avvolgo nel telo di spugna beige, ben ripiegato sul ripiano
limitrofo. Torno nella camera padronale e - abbassate le serrande elettriche
delle finestre per proteggere i vetri dalla pioggia battente della tiepida
primavera newyorchese - siedo sul letto, di nuovo, aprendo il primo cassetto del
comodino, in cui tengo una pochette della profumeria Sephora, con i prodotti
per la manicure.
Limo le unghie di mani e piedi, dando loro una forma corta,
regolare, non volgare, ed estraggo lo smalto per cui ho optato, un rosso Chanel
che mi caratterizza, una lacca a lunga tenuta che fa risaltare il colore
brillante. Ne do due passate, con estrema precisione e senza alcuna sbavatura.
Aspetto che asciughi, rimettendo a posto la bustina, facendo
attenzione a non toccare altri oggetti o il legno del mobile. Sotto i
polpastrelli, percepisco la forma squadrata di una foto, la classica polaroid.
Ha i bordi consumati.
L'afferro, con la punta delle dita, conoscendo l'immagine che si parerà
alla mia vista.
Siamo io, Steve e Bucky, abbracciati, al ritorno da una vittoriosa
missione a Lagos. Io sono nel mezzo, Steve Rogers - Capitan America, la tuta
attillata blu, lo scudo in vibranio stelle strisce, il ciuffo biondo e gli
occhi azzurri della nuance del cielo sullo sfondo - mi sorride, con complicità.
Il suo amico più caro, ugualmente centenario, catapultato pure lui
dal precedente millennio, James Buchanan 'Bucky' Barnes - ex Soldato d'Inverno
dell'Hydra, l'organizzazione contrapposta allo S.H.I.E.L.D. - scruta, con
freddezza, l'obiettivo.
E’ evidente mi guardi di sottecchi, sfiorandomi il fianco con la
mano metallica che sbuca dall’uniforme, minacciosa e insolente:
un regalino ricevuto, insieme al braccio, dai mostri che lo avevano
condizionato fino a trasformarlo in uno spietato assassino senza scrupoli e
memoria.
Non era la prima volta che mi toccava, con intenzione
apparentemente affettuosa. Lo aveva già fatto, e io non avevo resistito a
flirtare con lui, secondo il copione già scritto, in cui interpretavo il ruolo
di femme fatale.
Gli occhi grigio azzurri, la barba ed i capelli scuri tenuti
volutamente incolti, selvaggi, incorniciavano un volto da cherubino
michelangiolesco, sopra un fisico scolpito. Il carattere borderline oscillava
fra l'introversione spiccata e la sfrontatezza dello sciupafemmine, unita al
garbo di un ragazzo della Brooklyn degli anni Quaranta, lo rendevano
incredibilmente fascinoso.
Mi ero trovata fra l'incudine e il martello, in pochi giorni, mio
malgrado.
Quando Steve mi aveva invitato ad un brunch domenicale, con
un'inconsueta naturalezza, avevo accettato, subito. Dovevo pur mangiare e la
domenica, libera da impegni professionali, era la giornata più solitaria
dell'intera settimana.
Detesto la solitudine più che cucinare e pulire.
Inoltre, Rogers - inibito e impacciato, alla stregua dell’originario
ragazzino rachitico che ancora albergava in lui, un poetico fanciullino che
stentava a crescere - era stato nominato capo della nostra squadra di emarginati,
dal Direttore, meritatamente. Era magnanimo, altruista, attento al rispetto
reciproco, nelle azioni e nelle parole. Rappresentava poco più di un conoscente
gentile, per me.
Mi aspettava, camminando nervosamente, sotto il portone del
palazzo, tenendo in mano un mazzo di fiori: scontatissime rose rosse, ed il messaggio
fu chiaro, al di là del significato del linguaggio dei boccioli vermigli, dello
stesso colore delle guance del mio pretendente.
Iniziò un corteggiamento in piena regola, a seguito del nostro
primo appuntamento.
Non mi sottrassi alle sue attenzioni, banali e carine al tempo
stesso: cioccolatini a forma di cuore, pupazzetti di peluche, messaggini con
emoticon mandati ad ogni ora del giorno e della notte. Steve era Capitan
America per il mondo intero, con comportamenti tipici di un adolescente, che
non mi dispiacevano affatto.
Io stessa avevo vissuto gli anni della fase teen della vita in maniera anomala, fra poligoni di tiro, palestre,
esercizi alla sbarra ed interventi chirurgici. Ad entrambi era mancata la festa
del liceo e recuperammo, insieme...per un po'.
Ci frequentammo, platonicamente, per alcune settimane. Fin quando,
una sera, mi propose di andare al cinema, chiedendomi di estendere l'invito a
Bucky, il suo amico storico, da poco entrato a far parte del team. Acconsentii,
di buon grado, e mi ritrovai seduta in una poltrona imbottita di velluto blu
del multisala di Times Square, fra Rogers e Barnes, a guardare un film di cui
non rammento neanche il titolo.
Quando mi accompagnarono a casa, mi salutarono con un bacino sulla
guancia. Ambedue. Da lì in avanti, fu un susseguirsi di impegni a tre. E il tre
è il numero più sbagliato che esista, per una liaison e per un'amicizia. Altro
che numero perfetto!
Fui lusingata, sulle prime, che fosse scattata, fra loro, una
competizione per conquistarmi, che divenne, velocemente, una battaglia senza
esclusione di colpi, anche bassi. Concorrenza sleale, da parte di James, giacché,
in effetti, uscivo con Rogers, da un pezzo. Lui aveva sempre preso ciò che
desiderava Steve, con facilità.
Bramava me, soltanto perché il Capitano mi aveva messo gli occhi
addosso. Sciocca, mi feci coinvolgere nei loro scontri testosteronici,
divertita di essere diventata un trofeo da conquistare, che due uomini del
genere litigassero per me.
E, nel frattempo, le occhiate ammiccanti di Bucky scalfirono le
mie difese di femmina. Non esiste un’immunità dal desiderio fisico. O per lo
meno, se c’è, debbo ancora trovarla.
La sera che, con un sotterfugio, James spedì Steve al capo opposto
della città - fornendogli, intenzionalmente, l'indirizzo sbagliato di un
ristorante messicano appena inaugurato, che desiderava provare assieme a noi -
ebbe gioco facile.
Al terzo bicchierino di vodka - per cui ho un debole spiccato -
consumato al locale omonimo dell'Upper West Side Manhattan a cento passi da
casa mia, ero così accalorata dall'alcool sovietico da aver acconsentito a far
incartare la cena ordinata per consumarla nel mio appartamento.
Piatti piccanti, in particolar modo il principale...Finii nel
letto - lo stesso sopra cui sto aspettando si asciughi la lacca vermiglia stesa
sulle unghie - avvinghiata ad un partner egoista, che concluse la nostra
avventura erotica in pochi minuti, rivestendosi in fretta, in estremo
imbarazzo.
Sapevamo entrambi di averla fatta grossa, che il Capitano avrebbe
sofferto del nostro tradimento. E ce ne eravamo infischiati.
Proposi di non rivelargli alcunché, consapevole che non ci sarebbe
stato un bis della performance. Maestra di menzogne, udì Bucky acconsentire,
convinta di poter salvare il rapporto di stima che mi legava a Rogers,
oltretutto mio diretto superiore e collega.
La notte, tuttavia, porta consiglio. Quello sbagliato.
Nel corso della mattina seguente, la sala riunioni degli Avengers
- presenti i miei sei ospiti in arrivo e il Direttore Fury, pace all’anima sua!
- divenne il ring del Madison Square Garden.
Alla stregua di due boxeur titolati senza guantoni, il Capitano e
Barnes se le dettero di santa ragione, davanti all'espressione esterrefatta
degli astanti.
In ragione della sincera amicizia che li univa, viscerale - per la
quale Steve aveva sfidato il mondo intero, arrivando persino a una spaccatura
con parte del gruppo dei Vendicatori - James aveva ritenuto di raccontare
quanto accaduto fra noi. Più che cospargersi il capo di cenere, aveva attribuito
l’intera responsabilità alla mia nota sfacciataggine.
Fui certa che Rogers, sulle prime, non gli avesse creduto affatto;
in caso contrario, avrebbe reagito in modo diverso. Invece, si era avventato,
bestiale, contro l'amico fraterno, con l'idea di spaccargli il muso. E tentò,
picchiando duro e ricevendo pugni e calci in risposta; prevedibilmente,
l'alterco fra due potenziati, dotati di una forza immane, ebbe conseguenze
catastrofiche sullo spazio circostante.
Nessuno osò separarli; si annientarono a vicenda, ruzzolando sulla
moquette beige sporca del loro sangue, supini, ansanti, coi visi gonfi, fra le
macerie della sala. Avevano disintegrato tavoli, sedie, divani, una delle
finestre e ogni suppellettile a vista.
Fu proprio Steve a rialzarsi per primo, porgendo la mano a Bucky,
aiutandolo a rimettersi in piedi a sua volta. A lui dette una stretta salda,
come salda sarebbe rimasta la loro amicizia; a me scoccò uno sguardo di
biasimo.
Mentre i due pugili amatoriali si dirigevano in infermeria per la disinfezione
delle ferite, fui convocata da Nick Fury, che mi ammonì a tenere un
comportamento più discreto. Usò le parole ‘basso profilo’, avvertendomi che
avrebbe detratto dal mio stipendio la somma necessaria a copertura dei danni
subiti dalla struttura dello S.H.I.E.L.D..
Fu una beffa in piena regola. Avevo cercato di evitare al Capitano
un piccolo dolore. Non solo avevo fallito nell'intento, ma il suo atteggiamento
nei miei confronti cambiò. Mi scruta, tuttora, con il medesimo sguardo di
rimprovero. Me ne sono fatta una ragione! Mi viene da sogghignare, a
pensarci. Evito.
Apro l'armadio, e scelgo l'abito da indossare, optando per un elegante
vestito da sera, nero, senza spalline, con un avvitato corpetto a forma di
cuore, che valorizza il busto, ed una gonna lunga con due profondi spacchi
laterali, sopra un perizoma di pizzo impalpabile; un paio di sandali della
stessa tonalità, dal tacco dodici, completa il mio outfit. Confermo la tesi per
cui sia preferibile soffrire per calzare scarpe meravigliose, piuttosto che per
gli uomini...soprattutto se si tratta di calzature firmate Louboutin!
Seggo alla toletta, per un trucco veloce: cipria chiara, un tocco
di blush sugli zigomi, una riga definita di eyeliner, più di una passata di
mascara infoltente e un rossetto scarlatto come lo smalto, tutto
Chanel.
Nessun sorriso, allo specchio: aborro chi sorride!
Acconcio i capelli, seguendo, con la spazzola, la stessa forma
datagli dal parrucchiere.
In piedi, spruzzo più volte il profumo e volteggio nella nuvola di
goccioline creatasi, affinché si distribuisca uniformemente. E’ Neroli
Portofino, di Tom Ford, un essenza maschile considerata straordinariamente
sensuale. Quando la indosso, lascio dietro di me una scia frizzante e
irresistibile, un ulteriore obbligo, per gli altri, a girarsi per ammirarmi.
La fragranza, mix perfetto fra la nota superiore del bergamotto e
una base volutamente legnosa, mi ricorda la brezza marina, mi dà quella
sensazione di estrema libertà che ho cercato e non ho mai trovato.
Vado in soggiorno, osservando l'ennesimo scroscio di pioggia
infrangersi sulla terrazza.
Chissà se l'aereo prenotato da Clint sia atterrato regolarmente,
visto il maltempo. Mi ha promesso sarebbe venuto, nonostante la distanza che
separa la Grande Mela dall'Iowa…e noi.
Ci vediamo raramente, io e il Falco. Clinton Francis Barton detto
Clint, Occhio di Falco – ex agente dello S.H.I.E.L.D., arciere oramai attempato e in
pensione - è l’uomo cui debbo la vita. Molti
lustri fa, fu incaricato di eliminarmi, e scelse in maniera differente,
ritenendo meritassi un destino diverso. Forse vide male, persino da distanza
ravvicinata.
E’ stato un compagno di lavoro con cui condividevo lo status di
umana e mortale, fra i leggendari Avengers. Non avevamo nessuna armatura,
potere particolare, pezzi di metallo nel torace o simili, solo un caratterino
determinato, un fisico allenato, conoscenze di tattica e tecniche di
combattimento, oltre la passione per le armi. Nacque un'amicizia profonda,
fatta di risate e bevute, di un cameratismo fraterno e di tanto, tanto tempo
trascorso assieme.
Mi avvicinai a lui...troppo, persi la lucidità. Nemmeno mi
piaceva, fisicamente.
Cosa differenzia amore e amicizia? Facile, il sesso. E io misi
anche quello nel calderone del nostro rapporto. Vorrei dire che accadde per
caso…non fu così.
Lo cercai, in una serata piovosa simile all'odierna, presentandomi
alla porta della sua stanza dell'albergo in pieno centro storico di Budapest,
che ci ospitava per il meritato riposo, successivo ad un'impegnativa missione;
proposi il bicchierino della staffa, portando con me una bottiglia di vodka
reperita al bar dell'hotel.
Maledetta vodka, maledetta me!
Diventammo amanti. E no, il gap fra amicizia e amore non è il
sesso…E’ l’intimità. Che il Falco aveva con sua moglie, la contadinotta che lo
aspettava, nella loro fattoria del Midwest, sfornando biscotti e marmocchi.
Lo sfruttai, quando potei, per la ginnastica e per riempire gli
spazi vuoti della mia esistenza, oscuri, per allontanare le tenebre. Ho paura
del buio, dormo con la luce accesa.
Vestii il ruolo dell'amica di letto per moltissimo tempo, con la
massima discrezione. Il Falco dette persino il mio nome al suo terzo figlio:
Nathaniel. E mi chiese di essere la madrina di battesimo del piccolo. A me - ed
è il colmo - non dette mai nemmeno un bacio.
Prima della cerimonia, programmata nella chiesetta del paesino
dell'Iowa frequentata dalla famiglia Barton, la sua consorte mi prese da parte,
e, con poche parole, distrusse la mia autostima.
Educatamente, in un tono di voce stridulo, la casalinga disperata
redarguì la coraggiosa e indomita collega Avenger del proprio marito. Non utilizzò
termini volgari, ne’ mi accusò apertamente delle corna che vedeva sulla propria
testa, guardandosi nello specchio, mentre lavava i denti al mattino. Disse solo
che le donne come me, che non possono avere figli, sono dei maschi mancati in
un corpo femminile, aride, vuote e meschine, zitelle di nome e di fatto. E che
le facevo una pena immensa.
Evidentemente Clint le aveva rivelato il segreto che gli avevo
confessato in un momento di sconforto, la sterilizzazione subita ad opera del
KGB, a soli quindici anni di età. Niente utero, ovaie, ormoni. Niente ciclo e
nessun bambino. Era una mera questione di opportunità, evitare ogni tipo di
distrazione durante le operazioni assegnate dai superiori.
La signora Barton mi ferì, con le sue frasi, più di quanto
avessero fatto proiettili e colpi presi in precedenza. Mi fece sentire una
nullità, sporca e inutile.
Presi una piccola rivincita, sibilandole che la sera della nascita
del figlioletto in procinto di ricevere il primo sacramento - mentre lei era
impegnata in un doloroso travaglio - suo marito fosse affaccendato con la
sottoscritta.
Glissò, avevamo un concetto diverso di fedeltà. Rimuginai, durante
l'intera cerimonia, per appartarmi con Clint alla festicciola organizzata, a
seguire, nella sala parrocchiale. Davanti a una guantiera di biscotti ai
fiocchi d'avena realizzati a mano, che il Falco sgranocchiava
ininterrottamente, spiegai fosse preferibile dare un taglio a ciò che c'era fra
noi. Va bene, rispose, indifferente.
Mi sfiorò la fronte con le labbra, nel casto bacio destinato ad
una bambina, offrendomi un dolcetto, amaro più del fiele. Lo inghiottii, non
prima di avergli lanciato addosso l'intero vassoio. Camminai a testa alta verso
l'uscita, schivando il tappeto di biscotti. Barton non mi avrebbe più invitato
alla sua fattoria nel Midwest, ovvio.
Siamo tornati ad essere semplici amici, con il disagio di chi ha
condiviso un talamo non coniugale.
Esamino la tavola, elegantemente predisposta dalla governante, in
ogni dettaglio: i sottopiatti dorati, il servizio di piatti di porcellana e di
bicchieri di cristallo che uso una volta l'anno, insieme alle posate d'argento.
Accendo le candele lattescenti, inserite in un centrotavola -
realizzato da un fiorista dalle indubbie doti artistiche - fra le orchidee
bianche utilizzate per comporlo.
Mi accerto che sia tutto perfetto, anche in cucina, controllando
il cibo consegnato dal catering, nel pomeriggio. Sembra ottimo, farò un
figurone.
Seggo sul divano: sono le otto passate ed è strano che Rogers e
Banner - precisi e nati settimini - non abbiano già suonato il campanello.
Probabilmente il temporale ha contributo a rallentare il già
congestionato traffico cittadino. Anche se, in effetti, il livello del rumore
delle auto è inferiore al solito.
Aspetto, nervosa. Un'ora dopo, controllato il cellulare decine di
volte, sento un brivido lungo la schiena.
Non verranno!
Li chiamo io - dal cordless di casa, giacché persino l’IPhone fa
le bizze e mi sto innervosendo - per togliermi lo sfizio e insultarli. In
ordine alfabetico. Banner, Barnes, Barton, Rogers, Stark, Thor. Nemmeno si
degnano di rispondere. Codardi, hanno inserito la segreteria telefonica. Tutti
e sei, forse d'accordo.
Non verranno!
É certezza, nel momento in cui il portiere dello stabile - un uomo
anziano, distinto, in livrea rossa - bussa, alla porta, con garbo, per
lasciarmi una scatola. Ha portato su un presente, per me.
L’etichetta del cofanetto è di ‘The Dominique Ansel Bakery’,
eccellenza gastronomica nel cuore di Soho, il cui chef miscela sapientemente la
migliore tradizione della patisserie francese con i classici della cucina
americana.
So chi lo manda. Tony Stark. Si è proposto per l'acquisto del
dolce e dello champagne, definendosi intenditore di prelibatezze. Che non le
abbia recate con sé è il segno della sua defezione. Ha spedito soltanto il
dessert, ed è poco nel suo stile fare le cose a metà, ma stasera va tutto
storto, non mi stupisco.
Sollevo il coperchio dell'involucro e una torta a forma di ragno
nero, panciuto, con zampette stilizzate ed occhi smeraldo ben definiti, fa la
sua comparsa. Splendida. Stark si è superato, dimostra stile e classe in ogni
ambito.
Il miliardario, playboy, filantropo, genio dal pizzetto curato e
dallo sguardo vispo - che vestiva il contenitore metallico di Iron Man - è
sempre stato il più eccentrico, fra noi. Anticonformista, tende a mettersi in
contrapposizione con qualsiasi persona apra bocca o respiri, per il semplice
gusto di farlo.
Con me, ha avuto gioco facile. Il battibecco era all'ordine del
giorno: dialoghi serrati, litigate infinite, produttive o per lo più sterili,
in un'antipatia a pelle.
Il mondo è degli uomini, accettalo. Lo ripete in continuazione. Il
mio brutto carattere, l'eccessiva competitività, il sarcasmo sono, a suo
immodesto avviso, i motivi della mia singletudine e della mia infelicità
permanente. Mi tormenta, con un mantra che suole ripetermi.
Ammorbidisciti, dimentica le note rosse che hai sul registro, le
malefatte di un'epoca passata, assolviti dai tuoi peccati, e, soprattutto, sii
più dolce. Sorridi. La durezza è un'arma sul lavoro, nel privato è il tuo
limite.
Sono buoni consigli, è una valida analisi psicologica. Il problema
è che nessuna terapia ha funzionato, per il mio caso clinico; lo strizzacervelli
che si occupava proficuamente persino di Banner ha alzato bandiera bianca,
rimettendo l'incarico, dopo la prima seduta.
Sono così e stop, prendere o lasciare.
I miei invitati hanno lasciato!
Colloco la torta al posto del mio coperto, dal buffet recuperò le
due candeline di cera bianca con il bordino decorato di rosso, una scatolina di
fiammiferi e la mia sorella di vita, dal frigo: è vestita di pregevole vetro
trasparente, ha un grado alcolico del sessanta per cento e brucia in gola…
all'inizio!
Posiziono le cere a forma di cinque e di zero sulla schiena del
ragno. Stonano, vicine. Troppi anni e troppo dolore. Elimino il cinque.
Rimane ciò che sono, uno zero assoluto.
Non mi sento una fallita: ho dedicato la mia esistenza a salvare
il mondo, scientemente, e ci sono riuscita. Una profonda amarezza mi coglie: il
rammarico di non aver lasciato traccia nel cuore delle persone che ho
conosciuto e amato, a modo mio.
Ho litigato, discusso, pianto, riso, con i sei uomini che stasera
non si sono degnati né di presentarsi né di avvisarmi, le persone più
importanti del mio mezzo secolo; nonostante i loro difetti e comportamenti,
sono l'unica famiglia che abbia avuto, l'unica casa in cui abbia trovato
rifugio.
Sono stata una delusione, per loro, evidentemente.
Uso un cerino per accendere la candelina, soffio con impeto,
spegnendola. Non mi auguro affatto cento di questi giorni. Un sottile filo di
fumo grigio sale verso il soffitto, lasciando nell’aria un odore pungente.
Passo l’indice sulla parte farcita della torta, affondandolo, per
portarne alla bocca un pezzetto e gustarlo. La crema chantilly conferisce un
sapore particolare al pan di spagna alla vaniglia, rendendola differente dalle
stucchevoli realizzazioni pasticcere statunitensi. Ottima scelta, Stark! Non ti
smentisci mai, te lo riconosco!
È il momento di brindare; porto la bottiglia di vodka con me, spalancando
la finestra sulla grande terrazza. Mi appago della leggera pioggerellina
british che mi ricopre, mi rinfresca le membra stanche, l’anima addolorata.
Infelice e vuota senza gli Avengers, ad un
passo dalla pensione, più sola di un cane randagio, svito il tappo dell’unica
fedele amica rimastami accanto, bevendone tre lunghi sorsi. Va giù che è una
bellezza! Mi riscalda e mi calma.
Carezzo la mia compagna, accostandola sul pavimento. Grazie, amica
mia!
Scalza, poggio le mani sul bordo del muretto bagnato, mi ci isso
in piedi, in perfetto equilibrio. Scruto nel vuoto, giù, fino alla strada
deserta; le luci del palazzo di fronte si riflettono sul mio viso cinereo.
Gli occhi si inumidiscono, un lieve pizzicore brucia in gola più
del liquore. Rimando indietro le lacrime, al mittente.
Salto, impavida, nel vuoto dei venti piani che mi separano
dall'asfalto, con uno slancio. Allargo le braccia e le gambe come un angelo
della neve, mentre il corpo acquista velocità nella caduta. I capelli offuscano
la mia vista, a pochi metri da terra. Giro la testa a destra, attratta dalle
sagome in movimento che sbucano all’incrocio fra la via principale e la strada
che conduce al mio appartamento.
Sorrido, ed è il primo vero sorriso da quando sono nata! Giuro!
Mi trovano in quella posizione, il viso bloccato in un'espressione
stupita e felice, gli occhi verdi fermi all'ultima immagine che porterò
all'Inferno: trafelati, di corsa, Bucky, Bruce, Clint, Steve, Thor e Tony si
precipitano verso di me…disperati!
Sono arrivati in estremo ritardo, a causa del nubifragio. Un
incidente stradale, avvenuto in prossimità della strada che porta al mio
quartiere, ha interrotto circolazione e traffico; hanno percorso dieci isolati,
a piedi, per raggiungere casa mia. In parallelo, non hanno potuto avvisarmi: il
vento e la pioggia hanno danneggiato il ripetitore delle telecomunicazioni
della zona.
Io, invece, sono in estremo anticipo sulla Signora con il mantello
nero e la falce affilata, e, si sa, il tempismo non è mai stato il mio forte.
Ridacchio, intanto che la mia anima vola via dal corpo terreno, un
ultimo sguardo agli amici di una vita. Quelli veri!
Vi voglio bene, ragazzi, e…grazie dei regali che portate nelle
mani; una manciata di bastoncini d'incenso da Thor, una confezione di olio da
bagno al sandalo da Bruce, un mazzo di rose rosse ciascuno da Bucky e Steve, un
contenitore per alimenti - scommetterei una vodka che sia zeppo dei biscotti ai
fiocchi d'avena fatti dalle manine della consorte - da Clint, la promessa
bottiglia di champagne francese brut da Tony. E’ il Veuve Clicquot! E' un
classico! Il migliore!
Come me. Natalia Alianovna Romanova, naturalizzata Natasha Romanoff.
Vedova Nera!
∞
Nota
dell'autrice
Il racconto è
dedicato a te, carissima Vedova, ed a tutte le donne forti, belle e selvagge.
Spaventano il resto del mondo con la loro personalità istrionica e hanno un
unico tallone d'Achille: l'insicurezza!
E, per la
cronaca, Nat.
Thor ti
omaggiava dei bastoncini d'incenso asgardiano, ogni anno, memore del miglior
combattente che gli avesse tenuto testa.
Bruce ti
ricordava come il suo primo grande amore.
Steve e Bucky
erano consci di aver perduto un'occasione di felicità, accanto a te,
concentrandosi su una sciocca rivalità.
La moglie di
Barton ti ha mandato i biscotti ai fiocchi d'avena per ringraziarti, giacche’
Clint, senza la tua amicizia, non sarebbe sopravvissuto.
E, per Tony,
ovviamente, eri la migliore!
∞