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Autore: Carme93    20/04/2020    3 recensioni
C'era una volta un paese al cui limitare si estendeva un vasto bosco. Proprio il bosco era al centro delle leggende che da secoli si narravano ai bambini, leggende alle quali in fondo credevano anche gli adulti.
Samuele, o il 'cittadino', trasferitosi da poco, finirà per scoprire quanto la leggenda fosse vera.
Genere: Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La leggenda del bosco

silente
 






La prima volta che vide il bosco, fu al suo arrivo in quel paese. In realtà sarebbe stato difficile non notarlo poiché s’insinuava tra le prime case, apparendo in tal modo parte integrante del paese stesso. Lo sorprese perché in fondo i ‘cittadini’, come lo chiamarono per un po’, non sono abituati a simili spettacoli e non poté fare a meno di pensare che fosse un bel posto, ma non lo osservò più di tanto: era troppo angosciato e triste, non tanto per il trasloco, quanto per quello che era accaduto. Il dolore del suo cuore fu certamente lenito da quella visione, ben lontana dal grigiore della città: l’impressione era quella di poter finalmente respirare a pieni polmoni, proprio perché lì non vi erano palazzi alti, il cui solo ricordo rispetto a quel posto suscitava una forte sensazione di claustrofobia, degna di un incubo. Il suo cervello, però, non si lasciò intenerire: quello che era accaduto sarebbe rimasto, anche a molti chilometri da casa, anche in un luogo da favola.
La seconda volta che la sua attenzione ricadde su quel bosco fu a scuola. Sì, a scuola, quando sentì parlare della leggenda del bosco silente. Erano solo mormorii, mezze voci, frammenti di conversazioni, ma nessuno parlava con lui perché era il ‘cittadino’. Naturalmente s’incuriosì, ma sua madre non ne sapeva nulla ed era troppo impegnata ad aggiustare quello che si era spezzato, e ai professori senz’altro non avrebbe chiesto; perciò, nonostante la curiosità, accantonò la questione.
La terza volta che ne sentì parlare fu durante l’intervallo in una fredda mattina di novembre. Come da quasi due mesi, era seduto in fondo alla classe da solo: non importava che fossero in prima media, lì tutti si conoscevano fin dall’asilo.
«Ehi, cittadino».
Smise di scarabbocchiare la copertina del quaderno di matematica e sollevò gli occhi sul compagno, chiedendosi inevitabilmente se avrebbero mai imparato a chiamarlo con il suo nome.
Marco, il ragazzino più carismatico della classe, lo raggiunse seguito dal resto dei compagni.
Lui rimase in silenzio: no, non aspettava che si stancasse e lo lasciasse in pace, perché sapeva bene quanto fosse difficile, ma sperava che il burbero professore di matematica sarebbe presto sopraggiunto, affermando che l’intervallo era finito e avrebbe mandato ognuno al proprio posto.
«Ma è muto?» chiese Tommaso perplesso.
«Ma no, scemo, con i prof parla» intervenne Valerio.
«Forse soffre di mutismo selettivo» propose Giulia, spingendo gli occhiali rotondi sul naso.
«Giulia, te l’abbiamo detto un milione di volte» sbuffò Marco voltandosi verso di lei, «se tua mamma ti spiega cose strane, non le devi cercare in quelli che stanno intorno a te».
Giulia era la ragazzina più intelligente della classe, ma spesso gli altri si annoiavano ad ascoltarla.
«È una malattia?» chiese Tommaso.
«No» rispose Giulia infastidita. «Significa semplicemente che lui parla solo con chi vuole».
«Beh, su questo siamo d’accordo» sentenziò Marco appoggiando i gomiti sul banco. «Allora, cittadino, non siamo alla tua altezza?».
Lui si era tirato indietro man mano che l’altro si avvicinava e lo fissò sorpreso: non sapeva che cosa fosse il mutismo selettivo e non credeva di soffrirne, ma non comprese nemmeno perché Marco gli dicesse quelle parole. «I-io» balbettò incerto su che cosa dire.
«Vedi che lo stai spaventando» intervenne Allegra, che sembrava aver fatto del suo nome il proprio motto ed era l’unica che teneva veramente testa a Marco. «E vai dritto al punto o Laurani arriverà prima».
«Sì, infatti, vuole solo la scusa per interrogarti» borbottò Valerio.
Marco alzò gli occhi al cielo seccato e poi riportò la propria attenzione su ‘quello nuovo’. «Vuoi diventare nostro amico, cittadino? Basta un sì o un no».
«Sì» rispose lui senza nemmeno pensarci.
«Bene. Però dovrai superare una sfida» sentenziò allora Marco con un ghigno. Anche gli altri ragazzi sembravano eccitati. Il ‘cittadino’ lo fissò preoccupato ben conscio che quel genere di cose nei film finisse sempre male e lui di guai ne aveva già abbastanza da solo.
«Marco, abbiamo detto niente di pericoloso» intervenne Giulia, che non sembrava fidarsi del giudizio dell’amico.
«Conosci la leggenda del bosco silente?» chiese, però, Marco ignorandola. Un brusio sorpreso si levò dagli altri.
«Marco» chiamò Giulia in tono di avvertimento.
«La conosci sì o no?» insisté il ragazzo ignorandola ancora.
«L’ho sentita nominare» ammise allora il ragazzino. «Ma non so di che cosa parli».
«Oh, in realtà è molto semplice» disse Marco. Ora tutti pendevano dalle sue labbra. «Hai presente il bosco vicino al paese?».
«Sì, certo» rispose tentando di darsi un contegno: lo consideravano già uno stupido. Chi non avrebbe notato quel bosco?
«Beh, è tipo magico».
«Magico?» ripeté perplesso. Marco lo stava prendendo in giro.
«Non si dice ‘tipo’» borbottò giulia.
«Magico» assentì Marco. «Gli alberi sono immobili, addormentati e nessuno osa entrare nel bosco. Anche i grandi hanno paura: raccolgono solo i frutti degli alberi sul limitare e lo stesso vale per la legna. Nessuno va oltre. Non hai notato che quando c’è vento, anche forte, le fronde non si muovono mai?».
Era sorpreso: lui amava i romanzi fantasy, ma sapeva fin troppo bene che erano solo invenzioni. Quante volte avrebbe voluto la bacchetta magica e i poteri di Harry Potter? «Non esiste la magia» borbottò.
«E allora entra nel bosco e raccogli una stella alpina» esclamò con sicumera Marco.
«Sei pazzo?» sbottò Giulia. «È vietato entrare nel bosco, lo sai come la pensa la preside!».
«E non si possono raccogliere le stelle alpine» aggiunse Allegra. «Sono fiori protetti».
«I-io» balbettò ancora il ragazzino. Lo sapeva che quella sfida avrebbe portato solo guai! E non aveva nemmeno accettato ancora! Gli stavano chiedendo non solo di violare le regole, ma addirittura la legge!
«Volete giocare tutto il giorno? Sedetevi, immediatamente!». Il professor Laurani lo salvò dal dare una risposta, ma non avrebbe potuto sfuggire in eterno ai suoi compagni.
Sospirò e si voltò verso la finestra: da lì si vedeva bene il lembo estremo del bosco che s’insinuava nel paese. Come avrebbe dovuto comportarsi? Tirò fuori il manuale di matematica, senza saper minimamente rispondersi. Avrebbe tanto voluto non essere più il ‘cittadino’, avrebbe voluto essere uno di loro. Quel paese era veramente bello e ormai era conscio che non sarebbero tornati indietro, alla vita di prima. E stare in un limbo non gli piaceva, lo faceva star male, lo rendeva infelice e triste. Chi mai avrebbe voluto vivere in un limbo? A questo punto desiderava essere accolto in quel nuovo mondo che tanto lo attirava: le chiacchierate nel cortile della scuola la mattina, le gare nei viottoli ciottolosi alla fine delle lezioni, le partite di calcio pomeridiane nello spiazzo vicino alla chiesa. Voleva far parte di quel mondo che fine a quel momento aveva osservato da spettatore esterno.
«Marchetti!». La voce del professore risuonò nella piccola aula e tutti si voltarono verso di lui. «Sei con noi?».
«Sì, scusi» mormorò imbarazzato.
«A me non sembra proprio» replicò il professore. «Vieni alla lavagna e risolvi gli esercizi assegnati per casa e porta il quaderno, così posso visionarlo».
Il ragazzino sospirò e si alzò: se non voleva finire nei guai prima del tempo, sarebbe stato meglio rimandare la decisione alla fine delle lezioni.
 
All’uscita i compagni, come al solito, erano troppo presi a rincorrersi e a chiacchierare per far caso a lui, ma per una volta non lo disturbò: se fosse riuscito a filare a casa, avrebbe avuto tempo fino al giorno dopo per riflettere sulla sfida che gli avevano lanciato e decidere se fosse il caso di accettare.
«Ehi, ehi, cittadino». Come non detto. Si fermò e si voltò ad affrontare Marco: non avrebbe fatto la figura del fifone. «Allora, che hai deciso?».
Insieme a Marco c’erano tutti gli altri compagni di classe, che attendevano curiosi una risposta.
«Accetto» rispose facendo ricorso a quel poco di coraggio che possedeva.
Gli occhi di Marco si illuminarono.
«Non devi» intervenne Giulia. «La preside è molto severa su questo».
«La preside parla come tutti gli altri adulti» ribatté Marco. «Ma non ha nessun diritto d’intromettersi fuori dalla scuola». Gli altri furono d’accordo. «Cittadino, ci vediamo qui alle tre, ok?».
«Sì» assentì e solo allora gli altri corsero e via e lui rimase con la sua sorellina, che nel frattempo l’aveva raggiunto.
 
Solo dopo pranzo, chiese alla madre il permesso di uscire.
«Per andare dove, Samuele?» chiese lei sorpresa mentre sparecchiava.
«A giocare con i miei compagni di classe».
La madre assunse un’espressione dubbiosa. «Fa freddo, Samu, e avrai sicuramente compiti per domani, sbaglio?».
«No, ma si tratta solo di qualche ora». O almeno così sperava. «I compiti li faccio quando torno».
«Non devi trascurare la scuola, lo sai, vero?» lo ammonì lei, ma Samuele sapeva che stava per cedere.
«Oggi sono stato interrogato in matematica e ho preso otto».
«Davvero?».
«Sì. Allora posso uscire?».
Sua madre lo scrutò per un attimo, poi annuì. «Sì, ma mi raccomando, però, rientra prima che faccia buio».
«Va bene» acconsentì il ragazzino.
 
Quel pomeriggio alle tre in punto si trovò fuori dalla scuola come d’accordo e i suoi compagni arrivarono poco dopo.
«Non mi sembra un buon posto per incontrarci» si lamentò subito Giulia. «La preside abita qui vicino».
«Smettila con questa storia» la redarguì Marco. «Sei pronto, cittadino?».
La risposta sincera sarebbe stato no naturalmente, ma non era più il tempo di tirarsi indietro. «Sì» mormorò e la sua voce risuonò incerta in quel freddo pomeriggio autunnale.
«Dicono che le stelle alpine crescono un po’ da per tutto nel bosco, perciò non dovrai inoltrarti troppo» disse Marco. «Noi ti aspettiamo».
«Poi andiamo a prendere una cioccolata calda» gli sorrise Allegra, appoggiandosi al muretto che separava il bosco da quel lato del paese e quindi anche dalla scuola.
Samuele sorrise leggermente a quel pensiero, poi si voltò e fissò gli alberi: in effetti quel giorno vi era un lieve venticello, ma le fronde degli alberi erano immobili.
«Se vedi qualcosa di strano, corri subito via» disse Tommaso suscitando le lamentele degli altri.
Samuele si voltò e li fissò nuovamente, sempre più spaventato.
«Sono solo storie che raccontano gli adulti per spaventarci» sbuffò Allegra lanciando un’occhiataccia al compagno.
«Che storie?» chiese Samuele.
«Dicono che gli alberi si animano e attaccano chi osa entrare nel loro territorio» spiegò Marco stranamente serio.
«Attaccano? Come?».
«Non lo so» ammise Marco.
«Si dice, però, che molti non abbiano fatto ritorno» disse Valerio.
Samuele era sempre più terrorizzato: stavano scherzando.
«Sono tutte scemenze» sbottò Giulia. «Gli alberi non sono dotati di mobilità. Ce l’ha spiegato Laurani qualche giorno fa».
«Ma appunto sono magici» insisté Valerio.
«Lo state dicendo solo per spaventarmi» si lamentò allora Samuele.
«Queste storie vengono tramandate da lungo tempo nel nostro paese» disse Giulia, compuntamente. «Non so se ci sia un fondo di verità, ma penso di sì: nemmeno gli adulti entrano lì dentro. Non andare, Samuele, possiamo fare comunque amicizia».
Samuele percepì un fiotto di calore spandersi nel petto, quando lei pronunciò il suo nome. «Entro tanto sono solo storie, no?».
«Forse» concesse Marco a braccia conserte. «Allora vai, noi ti aspettiamo qui».
Samuele annuì, prese un bel respiro e s’inoltrò tra gli alberi. Un silenzio assordante lo colpì all’istante e spazzò via la spavalderia che aveva mostrato pochi secondi prima. Le foglie era innaturalmente ferme.
Gli sembrò di essere osservato, perciò iniziò a guardarsi intorno nervosamente, ma non c’era nessuno oltre lui e le piante. Quella sensazione, però, non sparì man mano che procedeva.
Ogni scricchiolio lo faceva sobbalzare, sebbene fosse consapevole di essere lui a provocarlo calpestando legnetti e foglie secche. Eppure non era solo quello, no: ogni tanto percepiva dei fruscii, che lo paralizzavano: le foglie, però, continuava a essere immobili. Forse c’erano degli animali, magari feroci. Oh, sì, i lupi non vivevano forse in montagna? E se dietro tutte quelle strane storie non si nascondesse altro che un branco di lupi feroci? Sarebbe stato dilaniato e mangiato. Quella era decisamente la peggiore decisione che avesse mai preso in vita sua. Sua madre si sarebbe arrabbiata terribilmente!
Ormai si era inoltrato parecchio – non vedeva più i compagni già da un po’ -, ma dubitava di essere vicino al cuore del bosco.
Non aveva le idee chiare su dove effettivamente crescessero le stelle alpine, ma ne aveva visto una foto sul cellulare della madre prima di uscire.
Avanzò ancora e il già timido sole autunnale cominciò a non penetrare facilmente tra le fronde degli alberi.
All’improvviso il suo piede urtò quella doveva essere una radice scoperta e cadde. Mise le mani avanti per proteggersi, ma si graffiò lo stesso con la sterpaglia. Sospirò sempre più spaventato e tentò di rialzarsi, ma ricadde sulle ginocchia: qualcosa gli tratteneva il piede sinistro. Si voltò e si accorse che a trattenerlo fosse proprio la radice sulla quale era inciampato. O forse era stato attaccato. Proprio in quell’istante, sotto i suoi occhi, una seconda radice si attorcigliò intorno alla sua gamba destra. Gridò per la paura e per il dolore – alcune schegge si erano conficcate nella carne attraversando persino la stoffa spessa dei jeans –; dopo un primo momento di sconforto, provò nuovamente ad alzarsi, scalciando per liberarsi, ma la stretta era troppo forte. Allora allungò le mani all’indietro tentando di strappare la radice, ma fu una pessima idea: un ramo lo colpì sul petto, sbattendolo a terra con violenza. Il fiato gli si mozzò e per un attimo la vista si annebbiò.
Altro che storie per spaventare i bambini! L’albero lo stava attaccando e, per giunta, vi era una specie di gorgoglio di sottofondo fin troppo simile a una risata.  
«Chi c’è?» strillò. La sua voce piagnucolosa e stridula risuonò nel bosco.
Le risate si moltiplicarono e il ramo calò nuovamente: lo colpì sulla schiena e Samuele gridò. Il giubbotto non lo proteggeva un granché, benché fosse imbottito. Il ragazzino non aveva idea di come proteggersi dal ramo che lo sferzava senza pietà. Impotente scoppiò in lacrime.
A quel punto gli altri alberi cominciarono a lanciare qualcosa che Samuele, a fatica, identificò con le pigne che solitamente usava per decorare l’albero di Natale. Si coprì la testa con le braccia, sperando che smettessero. Qualcosa di pungente urtò la mano, allora Samuele comprese che gli stavano tirando anche i ricci delle castagne.  E dire che lui le adorava!
«Vi prego, lasciatemi in pace» li supplicò.
«Che faccia tosta!» tuonò una voce roca e profonda. «Sei tu che hai invaso il nostro territorio!».
«No, io…» mormorò Samuele, ma l’albero tornò alla carica. «Ti prego» supplicò ancora.
«Ti pregooo, ti pregooo… Voi umani siete veramente pessimi: prima attaccate, poi chiedete pietà».
«Io non ti ho attaccato».
«Bugiardo!» sibilò la voce. E Samuele fu certo che l’avrebbe colpito ancora e tremò in attesa.
«Basta». Una voce molto più profonda della precedente, che sembrava quasi provenire da sottoterra, ripristinò il silenzio.
Samuele ne approfittò e osò guardarsi intorno: ma non c’era nessun altro essere umano oltre lui.
«Perché?» sbottò la voce che prima aveva dileggiato il ragazzino. «È un umano. La nostra legge parla chiaro».
«È solo un cucciolo» replicò la seconda voce.
«Non è importante. È sempre un umano».
«È un cucciolo» ripeté autorevole l’altro albero. «Liberalo».
«Ma…».
«È un ordine».
Seguì un suono indistinto: Samuele non avrebbe saputo dire se fosse stato uno sbuffo o un semplice fruscio. A quel punto, però, la prima opzione era quella più probabile.
Lentamente le radici gli liberarono le gambe e lui automaticamente le tirò a sé e si mise seduto. I jeans erano strappati e la pelle sottostante era escoriata. Bruciava parecchio. Fortunatamente il giubbotto imbottito l’aveva protetto dai ricci delle castagne.
«Vieni».
Samuele si guardò intorno, conscio che chiunque fosse, si fosse rivolto a lui. Deglutì e gli occhi si fissarono sull’albero più vicino, che non sapeva riconoscere. La voce, però, proveniva da più lontano.
L’albero più vicino sbuffò nuovamente. «Non essere irrispettoso dopo essere stato graziato… Tutti così voi umani. Degli ingrati!».
«I-io…» balbettò Samuele che ormai non sapeva se tremasse più dal freddo o dalla paura.
«Vieni, cucciolo, non temere».
Samuele si sollevò a fatica, mordendosi un labbro per il dolore alle gambe, e osservò il bosco intorno a sé. La voce era ferma e gentile, ma era conscio che non avrebbe dovuto fidarsi così facilmente; però non aveva molta scelta: se avesse cercato di scappare, l’avrebbero sicuramente fermato.
«Da questa parte, cucciolo» ripeté la voce.
Il ragazzino compì qualche passo incerto e tentò di abituare gli occhi alla penombra sempre più accentuata: eppure non doveva essere trascorso molto tempo dal suo ingresso nel bosco.
«Sono qua». Un albero imponente e dall’aspetto antico mosse un grosso ramo. Samuele si avvicinò lentamente, sempre più bramoso di tornarsene a casa.
«Buon pomeriggio» mormorò appena fu vicino all’albero. «Signor albero» aggiunse per non indisporlo.
Quelle che sembrarono risate, si levarono per tutto il bosco. La risata più forte veniva senz’altro dietro di lui.
«Silenzio» le tacitò l’enorme albero. Subito il bosco tacque. «Sono Quercus, appartengo alla nobile famiglia delle fagaceae. Sono il re di questo bosco» si presentò allora l’albero.
Samuele rimase in silenzio non avendo la minima idea di come comportarsi di fronte a un sovrano: non ne aveva mai conosciuto uno!
«Che cosa fai qui, cucciolo d’uomo?».
Samuele prese un bel respiro e raccontò tutto. Gli adulti dicevano sempre che dire la verità fosse sempre la soluzione migliore, anche se, da come si comportavano, il ragazzino era sempre più convinto che loro mentissero più dei bambini e non venivano nemmeno rimproverati. Comunque, rivolgendosi a una quercia reale, che avrebbe potuto ridurlo in poltiglia in pochi secondi, non era proprio il caso di dire menzogne.
«Hai visto?» intervenne l’albero, che l’aveva attaccato.
«Fag, taci» lo redarguì Quercus. «Il cucciolo è onesto, vero?».
«Sì, signore» rispose prontamente Samuele.
«È venuto per rubare» urlò Fag. «Ha violato la nostra legge e il nostro territorio».
Samuele non sapeva come giustificarsi: era vero, tutto vero. «Mi dispiace» mormorò.
«Gli uomini sono avidi ed egoisti» sospirò Quercus. «Per questo non li è concesso l’ingresso al nostro bosco. Non facciamo, però, male ai cuccioli. Alcuni di noi a volte lo dimenticano». L’ultima frase sembrò un rimprovero per Fag.
Samuele si sentì in colpa. «Volevo solo che gli altri mi accettassero e non mi chiamassero più ‘cittadino’».
«I cittadini sono i peggiori» sentenziò Fag.
«Non ho scelto di esserlo» borbottò Samuele.
«E, immagino, che tu non abbia scelto nemmeno di essere umano».
«No» rispose Samuele sempre più stanco.
«Ecco, vedete, gli umani hanno sempre una scusa pronta!».
«Vi prego, lasciatemi andare» pregò Samuele. «Tra poco farà buio».
Fag rise con cattiveria e non fu l’unico. Samuele si spaventò, indietreggiò e cadde seduto suscitando altre risate.
«Ho detto di smetterla. Non mi disubbidite» minacciò Quercus.
Samuele percepì calde lacrime bagnargli le guance e nascose il viso dietro le mani guantate e sporche. Lo sapeva che sarebbe stata una pessima idea accettare quella sfida, ma, anziché rimanere a casa a studiare, si era ficcato in quel guaio; non solo, quando Giulia gli aveva detto che non era necessario, si era intestardito per dimostrare a Marco e agli altri ragazzi che era forte anche lui e non un fifone come credevano.
«Su, su, piccolo cucciolo». Le foglie di Quercus gli sfiorarono gentilmente la testa: lo stava accarezzandolo. «I cuccioli non sono ancora avidi ed egoisti».
«Lo diventeranno presto» disse Fag immediatamente. «Magari lui lo è già. Non ti fare ingannare, Quercus! Non è così piccolo».
«Fag, non mettere in dubbio il mio giudizio» tuonò Quercus. «Fino a prova contraria sono io il più anziano qui».
«Come vuoi, ma erano anni che nessuno osava entrare» si lamentò Fag.
«Non faremo del male a un cucciolo o non saremo migliori degli umani» sentenziò Quercus, poi si rivolse a Samuele. «Gli uomini distruggono tutto quello che toccano perché non si accontentano mai di quello che la Natura offre loro».
«Si riferisce all’inquinamento?» domandò Samuele.
«Anche, cucciolo, ma purtroppo l’inquinamento non è che uno dei volti della distruttività umana. Non esistono animali più avidi degli umani».
Samuele annuì, vergognandosi profondamente. «Io volevo solo farmi degli amici».
«Ogni nostra azione ha delle conseguenze» sospirò Quercus. «Avresti potuto farti molto male».
«Lo so».
«Non tornare più qui. Non è un posto per cuccioli umani né per gli umani in generale. Noi viviamo in pace da molti anni, non portarci tu la guerra».
«Non mi piace la guerra, non lo farei! Volevo soltanto dimostrare ai miei compagni di essere coraggioso».
«Lo capisco, cucciolo, ma se adesso gli umani venissero a cercarti, io non potrei fermare i miei compagni: non possiamo permetterli di approfittarsi ancora di noi. È così che scoppiano le guerre».
Samuele sgranò gli occhi: non aveva pensato a quelle conseguenze, ma solo che la mamma si sarebbe molto arrabbiata. «Non ci ho pensato».
«La prossima volta rifletti di più» consigliò Quercus senza troppa severità.
«Lo prometto» disse Samuele sinceramente. «Io voglio essere amico vostro». Varie proteste si sollevarono dagli altri alberi e il ragazzino li fissò inorridito.  «Sono sincero».
Quercus impose nuovamente il silenzio. «Ti credo, cucciolo. E sei nostro amico, vai e non portarci problemi».
«Va bene» assentì Samuele alzandosi all’istante. «Posso abbracciarti?».
Quercus sembrò ridere. «Sì, cucciolo, vieni pure».
Samuele circondò il grosso fusto con le braccia senza riuscire, però, a ricoprirne nemmeno una minima parte, probabilmente nemmeno il più robusto degli adulti ce l’avrebbe fatta. Quercus lo accarezzò ancora.  «Ora vai, cucciolo».
«Ti voglio bene, Quercus».
«Anch’io cucciolo. Sono contento di averti conosciuto. Rimani buono e puro come sei ora».
Samuele sciolse la stretta a malincuore e si allontanò di qualche passo nel bosco ormai quasi buio.
«Voi altri guidatelo e non fate scherzi» ordinò Quercus ai suoi compagni.
Samuele non ebbe problemi a uscire, sebbene Fag gli sussurrasse delle minacce ben attento a non farsi sentire da Quercus.
Alle soglie del bosco lo attendevano Marco, Giulia, Allegra, Tommaso e Valerio. Le ragazze lo abbracciarono di slancio.
«Stavo per andare a chiamare un adulto» sospirò Giulia con le lacrime agli occhi.
«Non l’hai fatto, vero?» chiese allarmato Samuele.
«No, Marco ha detto di aspettare» rispose Giulia liberandolo dall’abbraccio.
«Non ho trovato la stella alpina» disse Samuele fissando Marco negli occhi.
«Non fa niente. Benvenuto nel gruppo, Samuele» replicò Marco porgendogli la mano.
«Grazie» disse Samuele stringendogliela.
«Se vuoi, puoi prendere il mio posto» aggiunse Marco.
«Il tuo posto?» replicò sorpreso Samuele.
«Come capo» specificò Marco. «Non sono mai stato così coraggioso».
Samuele sorrise leggermente: non era stato così tanto coraggioso nel bosco, specialmente durante l’attacco di Fag. «Non voglio essere il capo, ma solo tuo amico».
Marco sorrise e lo abbracciò, sebbene più brevemente delle ragazze.
«Venite da me a prendere la cioccolata calda?» propose Samuele. Sua madre sarebbe stata contenta di conoscere i suoi amici e non si sarebbe arrabbiata troppo per il ritardo e i jeans strappati.
Gli altri accettarono entusiasti e Samuele, felice, si avviò con loro. Si voltò una sola volta per guardare il bosco: le chiome degli alberi, perfettamente immobili, erano tinte dell’oro del tramonto.
 
 
 
 
 
 
   
 
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