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Autore: Nao Yoshikawa    24/04/2020    8 recensioni
Dopo la morte di Sherlock, John torna a Baker Street per recuperare le sue cose, ma lì si lascia andare allo sconforto e prende atto dei sentimenti che prova nei suoi confronti.
Due anni dopo, Sherlock ritorna e lui e John hanno modo di confrontarsi.
Se chiudeva gli occhi poteva sentirlo. Poteva vederlo, percepirlo, ma se li riapriva si rendeva conto che non era tutto che una dolorosa illusione. Le immagini della sua morte lo tormentavano, da sveglio e mentre dormiva. Mai avrebbe dimenticato del suo corpo cadere, sfracellarsi contro il suolo, tutto quel sangue.
Tremò a ripensarci. Non poteva andare avanti, la vita, il mondo, non era rispettoso, non era giusto, non era possibile. Sherlock non esisteva più, non lo avrebbe più sentito parlare, né avrebbe incrociato il suo sguardo, anche casualmente.

Terza classificata al contest “Let’s Love Them Together” indetto da fantaysytrash sul forum di EFP.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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 I will always save you
 

 
 
La morte era qualcosa di assai strano. John era stato un soldato, era un dottore e con certe situazioni avrebbe dovuto trovarsi a suo agio. Ma in verità alla morte non ci si abituava mai.
Come a tanto altro.
Ad esempio, non si sarebbe mai abituato all’idea che Sherlock non esistesse più. Morto, sparito, cenere contro l’asfalto. E lui cosa aveva fatto per salvarlo?
Niente, non era riuscito a fare niente. Lui, semplice, stupido, misero essere umano. Si ripeteva ciò in continuazione e solo dopo alcuni giorni era riuscito a tornare a quell’appartamento del 221B di Barker Street, per recuperare i suoi pochi averi.
Quella casa che era stata loro, che sapeva di loro, adesso vuota e ricolma di un silenzio assordante. John avrebbe tanto voluto sbrigarsi, recuperare il possibile e andarsene, eppure non ci riusciva. Faceva male, male in modo insopportabile, al punto che avrebbe preferito strapparsi il cuore. Sherlock non era più lì.
E gli mancava, gli mancava terribilmente, non lo avrebbe mai perdonato per essersene andato.
Sherlock Holmes era stato colui che aveva reso la sua vita incredibile, degna di essere vissuta. Si sentì un sentimentale e uno sciocco nel pensare che forse, in qualche modo, lo aveva salvato. Salvato da se stesso, salvato dalla solitudine, dall’idea di un’esistenza misera, grigia, vuota. Sherlock l’aveva salvato, ma lui non era stato capace di fare altrettanto. E per tal motivo si malediceva, malediceva ogni istante della sua esistenza. Senza dirlo ad alta voce, pregava che la morte si prendesse anche lui.
Ricordò, mentre guardava il vuoto, lì in quell’appartamento, che al funerale di Sherlock non era riuscito a piangere, tanto che ad un certo punto aveva temuto di essere diventato insensibile al dolore.
Forse era questa la sua paura più grande, perdere l’umanità.
Gli rimaneva solo quella.
Se chiudeva gli occhi poteva sentirlo. Poteva vederlo, percepirlo, ma se li riapriva si rendeva conto che non era altro che una dolorosa illusione. Le immagini della sua morte lo tormentavano, da sveglio e mentre dormiva. Mai avrebbe dimenticato del suo corpo cadere, sfracellarsi contro il suolo, tutto quel sangue.
Tremò a ripensarci. Non poteva andare avanti, la vita, il mondo, non era rispettoso, non era giusto, non era possibile. Sherlock non esisteva più, non lo avrebbe più sentito parlare, né avrebbe incrociato il suo sguardo, anche casualmente.
La consapevolezza fece male. Non era neanche sicuro di essere del tutto lucido, forse non lo era per niente. Crollò definitivamente quando pensò che questa volta nessuno l’avrebbe salvato, non più. Quando si rese conto che quel dolore sarebbe stato forse meno lacerante se Sherlock fosse stato solo il suo migliore amico.
Ma il problema era proprio quello: non era stato solo il suo migliore amico. E il destino, crudele e ironico, aveva dovuto portarglielo via per farglielo comprendere appieno.
Come due amanti destinati a non incontrarsi mai.
E allora buttò tutto fuori. Si liberò delle lacrime che sembravano aver voluto attendere quel momento per venir fuori. Si disperò, gridando e liberandosi, lasciando scivolare tutto il male, tutto il dolore, l’angoscia, la consapevolezza di essere stato solo uno stupido. Nessuno l’avrebbe udito, nessuno lo avrebbe consolato.
Dovevi andar via per poter io comprendere di amarti?
Perché tutto questo male? Perché a me, a te, a noi?
Prese a pugni una parete, lanciò ciò che gli capitava tra le mani, rompendolo in mille mezzi, oramai privo della ragione. E poi, quando le forze vennero a mancare, si lasciò cadere in ginocchio, sconfitto, morto anche lui, con ora più domande di prima. Sarebbe cambiato qualcosa nel caso in cui se ne fosse accorto prima?
Sarebbe stato in grado di cambiare le cose? O forse il destino era un libro già scritto che non poteva essere cambiato?
Voleva una risposta, ma non l’avrebbe mai avuta. Doveva imparare a vivere – ad esistere – con la consapevolezza che Sherlock non c’era più e che ciò che poteva essere mai sarebbe stato.
 
 
Sherlock era tornato. Forse dall’Inferno, forse era solo un fantasma, di questo John era stato convinto, fin quando non lo aveva colpito. E Sherlock lo aveva anche lasciato fare, avrebbe lasciato che sfogasse la sua rabbia, il suo dolore e tutto, non avrebbe potuto biasimarlo. Aveva taciuto arrivato ad un certo punto, perché qualsiasi parola sarebbe stata inutile. Per lui e per se stesso. Se l’avesse detto ad alta voce, forse John non gli avrebbe creduto (ed anche qui, come potergli dare torto?). Ma quei due anni di silenzio erano stati dolorosi.
Fingere di essere morto e rimanere distante da lui, con il corpo ma mai con la mente. Erano pensieri stupidamente sentimentali, ma giorni, settimane, mesi e anni di silenzio gravavano sul cuore di Sherlock Holmes, che di per sé era un totale disastro con i sentimenti e le emozioni.
John lo aveva colpito e aveva fatto male. Ma per un secondo l’aveva visto vivo, solo un istante. Non era più lui, questo avrebbe potuto capirlo anche uno sciocco.
«…Posso dire una cosa?» azzardò, dopo qualche istante. John respirava veloce, nervoso, sembrava pronto a gettargli addosso tutto il proprio malcontento. E dopotutto se lo meritava.
«Oh, no. No! Se c’è qualcuno che dovrebbe dire qualcosa, quello sono io. Due anni, Sherlock, due anni. Ho creduto, anzi, tu mi hai fatto credere di essere morto e adesso torni così. Tu non hai… tu non hai idea, Sherlock, di che inferno sia stato per me. Come osi ripresentarti proprio adesso che la mia vita stava iniziando d andare meglio?»
Sherlock si lasciò andare ad un sospiro e ad un’espressione scocciata. Se avesse avuto un po’ più di coraggio gli avrebbe detto che nemmeno per lui era stato facile, che si era ritrovato a soffrire più di tutti, perché in fondo era lui quello che amava da tanto tempo di nascosto. Oramai se n’era fatto una ragione. O almeno così credeva.
«Sei esagerato come al solito, John. Non ti avrei lasciato così facilmente, dovresti saperlo», ebbe l’ardore di dire, pentendosene subito dopo. John infatti fece per colpirlo nuovamente, ma in verità si trattenne, stringendo un pugno. Lo aveva desiderato con tutto se stesso, aveva pregato Dio ogni giorno di ridarglielo. In verità aveva anche odiato Sherlock per essere morto, ma mai quanto aveva odiato se stesso. Anzi, arrivato ad un certo punto si era convinto che avrebbe smesso di respirare e si sarebbe spento.
Morto lo era già. Era da pochissimo che aveva iniziato a prendere in mano la sua vita. Aveva incontrato Mary, una donna in gamba che sembrava sinceramente interessata a lui.
E lui, d’altro canto passava il tempo con lei volentieri, ma il suo cuore era rimasto freddo.
Come le sere d’inverno in cui la sua unica compagnia era stata una bottiglia di vino. L’agonia che ancora si portava dietro.
John sospirò, sconfitto, stanco. Ironico il fatto che adesso che Sherlock fosse lì davanti a lui, avrebbe soltanto voluto ucciderlo con le sue stesse mani.
Solo un po’, per poi abbracciarlo e stringerlo eternamente.
«Andiamo. Devo medicarti», fu tutto ciò che riuscì a dire.
 
Sherlock fu felice di sapere che John in qualcosa non era cambiato. Tipico di lui prenderlo a pugni e poi curare le sue ferite.
Non avrebbe detto una parola. Non per delicatezza, la quale non era proprio il suo forte, ma perché temeva un po’ se stesso. Temeva di diventare sentimentale, di far trasparire un qualcosa che per anni aveva abilmente nascosto. I gesti di John si erano fatti gentili mentre adesso premeva contro il suo labbro sanguinante, nonostante lo sguardo duro che non incrociava i suoi, di occhi.
Erano stati separati per un tempo che sembrava infinito. Eppure adesso erano ancora lì. Sherlock si era detto che quando si sarebbero rincontrati, tutto sarebbe tornato come prima, ma in verità niente sarebbe stato uguale.
Certo che anche John… che ingenuo a credere che fosse morto così facilmente. Sherlock non si sarebbe mai sognato di lasciarlo andare in quel modo. John era la parte sicura della sua vita, ciò a cui aggrapparsi. Era completamente e fastidiosamente diverso da lui, e proprio per ciò lo completava. Tutto ciò era a dir poco scontato. O forse no. Forse certe cose bisognava dirle ad alta voce.
«Ahi», Sherlock si lasciò andare ad un lamento. «Questo fa male.»
«Sì, anche il lutto fa male», disse John velenoso, alzandosi per riposare la cassetta del pronto soccorso. Sherlock borbottò qualcosa che somigliava vagamente ad un “touché” e poi si guardò intorno. L’appartamento di John era triste e vuoto, sicuramente nulla a che vedere con Baker Street. Ai suoi occhi attenti non era potuto ovviamente sfuggire la fila di bottiglie vuote disordinatamente buttate in un angolo. Sapeva bene cosa significasse essere dipendente da qualcosa – e da qualcuno – e nonostante non fosse il momento più adatto, parlò comunque.
«Piuttosto ironico che un dottore sia vittima di alcolismo», affermò in tono più supponente di quanto avrebbe voluto. John, che gli dava le spalle, si irrigidì appena.
«Sapevo che avrei dovuto gettare quelle bottiglie», si lamentò, voltandosi a guardarlo. «E sicuramente una cosa del genere detta da te fa piuttosto ridere.»
«Non stiamo parlando di me.»
«Invece sì. Si parla sempre di te. È colpa tua se mi sono ridotto in questo stato. Ed è anche colpa mia», affermò, addolorato. «Ad ogni modo ne sto uscendo, Mary mi da una mano.»
Sherlock poté sentire di nuovo una morsa allo stomaco, sicuramente gelosia. Cosa pensava, che John si struggesse per sempre aspettando lui?
Sì, forse un po’ ci sperava, egoisticamente. E oltretutto si sentiva in colpa.
Dio, certo che sì. Poteva giurarci, non si sarebbe mi perdonato se a John fosse successo qualcosa per colpa sua.
«Ad ogni modo, cosa intendevi poco fa con “Non ti avrei lascito andare così?”» John spezzò il silenzio, facendogli sollevare lo sguardo. Era da quando gliel'aveva sentito dire che voleva chiederglielo. Sherlock arrossì e per ciò si maledisse. Non era esattamente così che pensava andassero le cose.
«Perché me lo chiedi? È ovvio, non è difficile arrivarci.»
Ma John era impaziente. Lo vedeva, un fascio di emozioni e nervi. Gli si avvicinò nuovamente.
«Non tutti siamo geni come te, Sherlock. Hai intenzione di farmi andare fuori di testa? Perché se è per questo puoi anche andartene. Quindi, o la smetti di fare il misterioso o lì c’è la porta.»
Sherlock osservò il suo gesto di sfiorarsi il braccio.
«Ti fa male?» domandò, ignorando tutto il resto. John fece una smorfia, provando una grande vergogna. Non erano i tagli a fare male, ma i ricordi. I dannati tagli che lui stesso si era inflitto e di cui con vergogna portava i segni. Tutto ciò per lui, solo per lui, era sempre stato tutto per Sherlock, sempre.
«Rispondi ad una domanda con un'altra domanda? Mi hai lasciato andare.»
A quelle parole Sherlock si alzò, con lo sguardo duro e in un impeto di coraggio gli strinse delicatamente un polso. Se lo meritava tutto quel senso di colpa, si meritava ogni insulto. John lo aveva salvato tante volte da se stesso, era stata la salda ragione a cui aggrapparsi, perché paradossalmente il più ragionevole tra i due era proprio lui e non Sherlock.
«Se ti avessi lasciato andare non sarei qui. Dovresti fidarti più di me, Watson», e dicendo ciò infilò le dita sotto il tessuto della sua camicia, per sentire con mano propria i segni che – anche se in modo indiretto – gli aveva lasciato. John arrossì, poiché in realtà non avrebbe mai voluto che lui lo vedesse. Non avrebbe dovuto vederlo, perché era morto. Eppure adesso era vivo.
Per un attimo pensò che Sherlock fosse tornato dall’Inferno proprio per salvarlo, piuttosto ironico e anche tipico da lui, fare un entrata in grande stile dopo essersi fatto attendere. John sentì gli occhi pizzicare, perché dopo la rabbia era naturale che arrivasse il bisogno impellente di piangere.
«Ho vissuto per due anni sapendo di non essere riuscito a salvarti.»
Sherlock socchiuse gli occhi, sospirando appena.
John non lo sapeva, ma lo aveva già fatto. Tante volte, senza accorgersene. Era quasi istintivo, naturale, lo era per entrambi e lo dimostravano a modo loro.
Erano diversi e terribilmente uguali, in quel modo di completarsi, aiutarsi e anche amarsi.
«Mi… dispiace», quelle parole richiesero a Sherlock un grande sforzo, ma delle scuse erano il minimo. «Non avrei voluto portarti a questo. Ma adesso sono qui. Quindi ti prego… smettila di soffrire. Puoi avercela con me anche per i prossimi dieci anni… ma non soffrire più.»
Nel tono di Sherlock non c’era né arroganza né ironia, ma una dolcezza che John si ritrovò scoprire per la prima volta. Comprese tanto, in quel frangente. Comprese quanto in realtà non fosse mai andato avanti, quanto mai avesse smesso di amarlo, nonostante i suoi tentativi di non pensarci. Comprese che forse, fino ad allora, era morto anche lui. E che adesso stava come ritornando in vita, rinascendo una seconda volta.
«Oh beh, sembra facile», John gli puntò il dito contro, con voce tremula. «Ma queste cicatrici non le cancellerà nessuno. Hai idea di cosa abbi significato per me? Mi sono disperato, ti ho maledetto e mi sono maledetto e… sai cosa? Io la pianto di parlare, lo so che questo ti fa piacere, tu vuoi sempre tutte le attenzioni su di te. Almeno sembri sincero. Ripeto, sembri…!»
Si vergognava di se stesso per essersi lasciato andare all’autolesionismo. Sapeva bene che quei gesti non lo avrebbero riportato in vita. Ricordava perfettamente quanto si era sentito male la prima volta che aveva affondato la lama nella pelle, quando aveva sentito il sangue uscire. Aveva fatto male, eppure non ne aveva più potuto fare a meno. Perché il dolore lo aiutava, almeno per un po’, a non pensare, a soffrire – paradossalmente – di meno, soprattutto se unito all’alcol. C’era voluto così poco per perdersi, eppure eccola lì, la sua condanna e la sua salvezza.
Se fosse stato nel pieno delle sue facoltà mentali, Sherlock non si sarebbe mi permesso di prostrarsi in avanti, abbracciarlo e baciarlo. Con un gesto veloce, dolce, dettato direttamente dal suo istinto. Poiché la lucidità mentale lo aveva già abbandonato da un pezzo. John non si mosse, sorpreso, confuso, molto confuso.
Ma dopotutto amava Sherlock anche per quello. Perché era in grado di sorprenderlo, in positivo e in negativo, di farlo sentire vivo anche nella noia e di strapparlo al dolore… anche quando era lui stesso a causarlo.
Sherlock parve rinsavire solo qualche secondo dopo. Rosso in viso come un ragazzino, si schiarì la voce, cercando di darsi – oramai inutilmente – un contegno.
«Amh… mi rendo conto che questo è stato abbastanza inopportuno. Sono spiacente, è stata una reazione involontaria del mio corpo e… e…»
John si sfiorò le labbra. Quindi era quello il bacio che aveva sempre sognato di donargli, quello che avrebbe creduto di non potergli mai dare?
«John… ma hai sentito quello che ho detto?» mormorò Sherlock, vagamente intimorito. Si accorse solo dopo che John stava sorridendo appena. Quest’ultimo lo sapeva, adesso sarebbe stato un gran casino tutto, ma sentì che non aveva importanza, perché era vivo, lo era lui, lo era Sherlock, lo erano entrambi, per davvero. Capì che forse il dolore era stato necessario, a tutti e due, perché anche lui aveva sofferto. Che quelle cicatrici forse nessuno le avrebbe cancellate, ma forse il dolore sì.
«D’accordo Sherlock, senti. Potrei perdonarti, forse, ad una sola condizione. Continua a salvarmi», gli disse, serio. Del bacio non aveva fatto menzione e Sherlock capì che non ce ne sarebbe stato bisogno, perché lo aveva appena capito. Anche per un genio come lui c’era voluto un po’, ma l’aveva compreso, infine. Non avrebbe potuto essere diversamente tra loro, anime troppo simili e diverse tanto da completarsi, perdersi e ritrovarsi subito dopo. Sherlock annuì, chiudendo gli occhi. Forse ci sarebbe voluto del tempo per perdonarsi, per perdonare il dolore, anche fisico, che aveva causato John. Provò rabbia e si odiò, ma promise anche che non lo avrebbe più permesso.
«E tu continua a salvare me», sussurrò, sapendo che John lo aveva sentito. Quello non era stato tempo perso, tutto aveva portato a quel momento. In verità, il loro vero e proprio cominciava quella sera. 
 
Nota del’autrice
Allora. Scrivere questa storia è stato abbastanza impegnativo. Uno dei punti del contest è che intanto doveva trattarsi, appunto, di una storia soprattutto introspettiva. L’altro punto, dovevo mettere in evidenza perché John e Sherlock formano una bella coppia/ship.  Sembra scontato, ma al momento di sviscerare le cose già diventa più complicato. So perfettamente che ciò che ho scelto di narrare è una parte della storia reinterpretato in duemila modi diversi, però io non ne avevo mai scritto e mi sembrava un buon punto per descrivere, appunto, il perché John e Sherlock insieme funzionano. Secondo me loro si completano, si bilanciano perfettamente e l’uno per l’altra farebbe letteralmente la qualunque per salvarlo/farlo stare bene. Quindi è una sorta di what if/missing moments. Qui John ha conosciuto con Mary ma non stanno ancora insieme (e a questo punto si può immaginare che non si metteranno proprio insieme), e poi non so perché ma ho voluto inserire la tematica dell’autolesionismo di John. Ammetto che ci vedrei anche Sherlock a fare una cosa del genere, ma in questo caso è stato John a dover affrontare un lutto e l’ha fatto a modo suo (in un modo SBAGLIATISSIMO, ma diciamo che è stato il suo modo di sopravvivere). Mi piace pensare che dopo questa storia, il loro rapporto si sia ricostruito molto lentamente e che John si sia ripreso non con poche difficoltà (autolesionismo e alcolismo non sono esattamente cose che si superano in due secondi), ma che Sherlock lo abbia aiutato. Okay, ho un po’ stravolto il canone, LO AMMETTO, però ho l’anima romantica (e cattiva). Spero che questa storia vi sia piaciuta, descrivere così a fondo il dolore dei personaggi è veramente tanto difficile, ma soddisfacente.
 
 
 
 
 
   
 
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