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Autore: Elicia Elis    24/04/2020    2 recensioni
Apollo/Giacinto | Modern!AU.
Il fiato morì sulla lingua, rendendo cenere ogni parola. Il volto dell’uomo era uno splendore canonico, estraneo allo scorrere inesorabile del tempo. Una di quelle meraviglie che, come un’onda, passano e se ne vanno. Ritirata, per sempre, da ogni angolo della memoria. Giacinto ne testò la sabbia umida con le dita: certezza che i suoi occhi non avevano incontrato che l’incontestabile, assoluta verità. Avrebbe voluto tenerla fra le mani un attimo di più, quella bellezza, ma l’uomo dai tanti nomi tornò a trincerarsi sul taccuino.
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU, Missing Moments | Avvertimenti: Incompiuta
- Questa storia fa parte della serie 'Cantami, o Diva'
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Giacinto passò lo strofinaccio sul bancone, spolverandolo dalle briciole di tutta una notte. Ciuffi di capelli gli ricadevano sul dorso del naso, danzando ai suoi movimenti e solleticandone la punta camusa, tempestata di lentiggini giallastre.
Odore di assenzio e marciume. Persino il vago, asprigno puzzo del vomito: impregnava le mura come vecchi ricordi.
Porci.
La bettola, accesa nella notte simile a una speranza lasciata a morire in un angolo della mente, se ne stava sconsolata sul ciglio di una vecchia strada e pareva molleggiare al vento. Faceva pensare all’unico dente, giallo e storto, superstite nella bocca di un vecchio.
Gli faceva schifo, quel suo mondo astruso e impiastricciato. Puzzava d’alcol e aveva le guance scarabocchiate di un rosso livido, untuosamente lucido, e infilava rutti lerci nelle frasi sfilacciate come carne putrida, di quelle che un senso proprio non ce l’hanno. Si sentiva un fantoccio alla mercé di un universo che, improvvisamente, aveva perso tutto il suo smalto.
Quella sera era di umore nero. I gesti erano secchi, asciutti, c’era una violenza trattenuta nel respiro e le frasi, frustate nel tepore vertiginoso della bettola, non superavano le sette, otto parole. La nona, spinta controvoglia sulla lingua, si deformava a fior di labbra in un sibilo spazientito e scivolava come acido a corrodere l’aria.
La notte, nascosta sotto il velo di una sposa, ringhiava, e turbinava, e rizzava il pelo. Se l’estate chiede permesso, pensò Giacinto, l’inverno dev’essere proprio la sua controparte bisbetica.
– Stiamo chiudendo.
Mh.
Silenzio, nella locanda svuotata dei suoi parassiti. Giacinto, il volto accartocciato nel suo solito cipiglio, continuava a lanciare occhiatacce all’uomo abbandonato in un angolo, un relitto adagiato dalle onde sulla battigia.
Trovò un calore familiare, tra le pieghe stropicciate di quelle vesti. Sembrava il tipico dandy francese, impaludato nell’eccessiva castigatezza degli abiti – raffinati e dolci, una poesia di seta e velluto –, ritagliato da chissà quale stoffa del passato. Sì, l’aveva notato subito, quell’uomo. I passi, leggeri e cadenzati, trasudavano un’aura irritante: stonava che era una meraviglia, in un posto come quello. Eppure, aveva acchiappato e fatta sua l’abitudine di tornarci ogni sabato sera. Ogni tanto, si presentava, annunciato dal cigolio della porta d’ingresso, persino il venerdì. Catturava gli sguardi, magnetico com’era. Il volto, nascosto sotto le falde larghe di un cappello sempre diverso, moriva nelle tenebre, senza rivelarsi mai. Era il mistero adagiato sulla bocca di tutti, un segreto sghignazzato a voce alta o trattenuto sotto i denti. Giacinto, come un animale in caccia, fiutava l’odore dei guai. Se ne stava acquattato, quel sentore maledetto che l’aveva perseguitato per tutta una vita, nascosto nelle aspre spruzzate di sandalo e bergamotto. Un odore che non riusciva più ad allontanare dalle narici. Se lo portava nel letto, talvolta provava a soffocarlo nell’umido puzzo del cuscino. Non sempre ci riusciva.
E scriveva, lui, l’uomo col cappello. Piegato sul suo taccuino, scriveva. Ogni parola, una boccata d’aria fresca. Quello nessuno l’aveva mai notato - o, perlomeno, nessuno ne parlava. Nessuno che non fosse, naturalmente, l’irascibile ragazzo del bancone.
– Stiamo chiudendo. Con permesso, devo chiedervi di lasciare il locale.
Mh.
Scriveva. Linee umide, sottili, arricciate, quasi capricciose nel loro vizio d’esistere. L’inchiostro, più nero dell’anima, vergava quelle pagine ingiallite senza lasciar loro un attimo di tregua. Giacinto sentiva l’ansia montare nello stomaco. Il suo umore scivolò ancora più in basso. Fino a un attimo prima, non l’avrebbe creduto possibile.
– Vedete, il fatto è che non ho voglia di andarmene.
Oh, non hai voglia.
– Prego?
L’uomo sollevò appena il mento. Un ciuffo biondo scivolò da dietro le orecchie, solleticando la mascella in una danza pigra e solitaria. Giacinto si chiese di cosa fosse fatta l’ombra sotto quel cappello. Era troppo scura, troppo profonda, inghiottiva i tratti del volto lasciando orme sfocate. Si sentì asfissiare.
– Avete davvero un bel modo di guardare la gente, ve l’hanno mai detto?
Giacinto inghiottì. C’era una vena pruriginosa, nella voce, che lo fece arrossire debolmente. Sembrava velluto. Dovette insistere.
– Signore, evitiamo inutili fastidi. Sarebbe scomodo per entrambi.
Tornò a curvarsi sui suoi fogli.
Mh.
– …
– Deliziosi, davvero, quegli occhi. Siete tutto vostra madre, non è vero?
Una stretta al cuore.
– Potreste prestarmi un vostro sguardo, uno di questi giorni. Ne sarei davvero lieto: sapete, io trasformo il silenzio in arte.
Giacinto lo scrutava da sotto le ciglia, interdetto. C’era una confusione di sentimenti, un imbroglio inestricabile che si dibatteva proprio sotto le costole. Non mi ci raccapezzo.
Quell’uomo era decisamente irritante. Uno spocchioso aristocratico che si divertiva a sguazzare nei bassifondi. Giacinto strinse i pugni e ricacciò l’inquietudine in fondo alla gola: non era lui l’estraneo, lì. Quella era casa sua, con tutto il fango e la merda che conteneva.
– Potremmo bere un caffè, se vi compiace. Amaro, con limone.
– Già. Volendo, potremmo.
Ma non si mosse.
Sentì l’uomo sciogliersi in una risata sotto le falde larghe del cappello. Una cascata argentina, la voce più flautata che avesse mai avuto il piacere di udire. Senza tempo: remota ed eterna, lontana anni luce dal presente.
Poi, l’uomo gli sfiorò la mano con la punta delle dita. Calde. Morbide da sembrar guantate. Profumo di sandalo e bergamotto sotto le narici; la luce soffusa della bettola, l’aria avvinazzata. E quel tocco, padre di una sensazione tutta nuova che gli scivolò lungo il corpo, dritta nei pantaloni.
– Non c’è bisogno che abbiate paura di me, Giacinto. Sapete, non capita spesso che la mia arte si svegli e mi sussurri all’orecchio i suoi teneri consigli.
Tracciò con l’indice un lungo sentiero di brividi. Si fermò all’altezza del gomito. Giacinto osservava, costretto in un incanto fatato.
– Eppure non è riuscita a trattenersi, quando ha posato gli occhi su di voi. L’ha fatto molto prima di me. Quanto desidero essermene accorto per primo! È vergognoso, per un artista come me, non aver mai udito i vostri passi su questa terra. Voi siete… un sussurro così piccolo, così dolce, quasi timido, Giacinto. Lasciate che sia io l’eco che vi renda voce.
Quel tiepido tocco, come una pennellata, disegnò gli zigomi, il naso sottile, il profilo elegante delle labbra. Aveva tutta l’aria di essere una cerimonia liturgica. Giacinto si lasciò cullare dal tepore divino di quel corpo estraneo.
– Chi siete, voi?
Non lo vide, ma seppe che stava sorridendo. Negli occhi, se non con labbra.
– Ne ho una bella manciata, di nomi.
Sollevò il mento in un gesto impercettibile. Un raggio di luna tagliò l’aria, riflettendo negli occhi dell’uomo guizzi perlati. Giacinto osservò lo spettro dei suoi lineamenti affiorare lentamente nell’ombra, come una nave fantasma che emerga dalla foschia.
Il fiato morì sulla lingua, rendendo cenere ogni parola. Il volto dell’uomo era uno splendore canonico, estraneo allo scorrere inesorabile del tempo. Una di quelle meraviglie che, come un’onda, passano e se ne vanno. Ritirata, per sempre, da ogni angolo della memoria. Giacinto ne testò la sabbia umida con le dita: certezza che i suoi occhi non avevano incontrato che l’incontestabile, assoluta verità. Avrebbe voluto tenerla fra le mani un attimo di più, quella bellezza, ma l’uomo dai tanti nomi tornò a trincerarsi sul taccuino.
Ne strappò un foglio, e si voltò, dandogli le spalle. Armeggiò un istante, la carta che si piegava al volere delle dita, agili. Si alzò senza un rumore.
– Tornerò, domani. Quando non ci sarà più nessuno. Mi concedereste il lieto dono dei vostri occhi? Fosse anche per un istante. Ma che siano miei.
 
Giacinto indugiò, lanciando occhiate guardinghe tutt’intorno, prima di annusare la carta. Sandalo, bergamotto, e tanti guai. Lo aprì al chiar di luna e, nella calligrafia arricciata di quelle parole, ritrovò la sua voce: argento e velluto.
 
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