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Autore: _Fenice    25/04/2020    1 recensioni
Lui è il più puro, il più nobile, mentre invece loro sono brutali, famelici, due uragani impossibili da domare e governare. È l’unico con cui io possa parlare liberamente. Non ci sono fraintendimenti, con lui. Mi ascolta senza interrompere, non cerca di dimostrare chi ha torto o ragione. È genuino, quello che abbiamo. Conosce i miei pensieri più intimi, più fragili; mi custodisce.
Sa cosa provo per lui, per gli altri, per tutti loro. E ha imparato ad accettarlo.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Black Star, Death the Kid, Maka Albarn, Soul Eater Evans
Note: OOC | Avvertimenti: Threesome, Triangolo
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Polifonia.



 
Un debole raggio di sole si poggia su di me, e riscaldandomi dolcemente il viso rischiara il buio delle mie palpebre. Apro gli occhi, ancora appannati; guardandomi attorno, ancora un po’ stordita, uso i palmi per far leva e sollevare il busto, mettendomi a sedere. Gli occhi corrono a cercare le mie mani, poggiate su fine sabbia; ne prendo un pugno. Una lieve brezza si insinua tra i capelli. Ne respiro l’odore: salsedine. Chiudo gli occhi, alzo il mento e mi abbandono per un attimo a godere di quell’aria che mi rinfresca e mi solletica il viso. Sento il quieto sottofondo delle onde del mare. Riapro gli occhi, alzo i pugni colmi di sabbia e mollo la presa, piano; la sabbia scivola, sollevata dal vento, e s’allontana in giochi e forme vorticose, mentre io osservo tutto con espressione non felice né triste, senza sorrisi o amarezze. Sono serena.
Mi volto, i capelli adesso mi si parano davanti, impedendomi di vedere. Tento di domarli portandoli dietro le orecchie, ma non si placano. Vogliono correre liberi nel vento, aggrovigliarsi tra loro in danze il cui ritmo a me non è dato sentire. Sentono ciò che sento io, un fremito, una smania d’essere liberi.
Adesso che la vista non è più appannata né ostacolata torno a guardare il mare. Le onde si infrangono piano sulla battigia, ritirandosi per poi abbandonarsi un’altra volta ad essa, come un amore che rifugge intimorito ma poi vince ogni paura e si lancia in una corsa sfrenata per raggiungere ciò che realmente brama, in un flusso continuo, che non si ferma mai.
Un movimento alla mia destra attira la mia attenzione. Mi giro, osservando ciò che mi ha distratta dai miei pensieri; l’alba nascente illumina piano il viso di Black*Star che dorme profondamente, il dorso di una mano sulla fronte, l’altra abbandonata lungo il fianco; un ginocchio alzato. La stessa posizione di quand’era bambino. Non cambierà mai.
Mi soffermo a guardarlo. Al vederlo con la bocca aperta e un’espressione così rilassata, di pura estasi, sorrido.
Ha trovato il Nirvana, mi ritrovo a pensare. Il mio sguardo scende al collo, a quell’incavo su cui amo rifugiarmi inspirando a fondo il suo odore; scendo ancora, adesso al petto scolpito e muscoloso, che mi fa sentire protetta. Mi accorgo solo ora che è nudo e, mentre me ne rendo conto, mi scopro nuda anch’io. Sorrido ancora, ricordando la notte appena trascorsa.
Non abbiamo preso neanche una tovaglia su cui sederci.
Con una mano gli sfioro il viso, poi il petto; il palmo si apre, rilassato, e si poggia a percepire il battito, ma quel contatto mi infiamma e, piano, mi scosto. Si susseguono scene confuse nella mia mente, una testa blu fra le mie gambe; poi, il mio Nirvana.
Black*Star è carnale, chimico; è prepotente, veemente; è impetuoso, è violento. Con lui mi sento inarrestabile.
Mentre mi domando come faccia a non russare o sbavare avendo la bocca così spalancata, uno sbuffo stizzito mi fa voltare verso il lato opposto.
Soul, stravaccato, dorme con le braccia incrociate dietro la nuca, supino; le gambe divaricate. È rimasto nudo anche lui. A differenza di Black*Star però, che dopo l’estasi si rilassa così tanto da addormentarsi velocemente, senza neanche darci tempo di dire nulla, lui si rifiuta di rivestirsi perché gli dà noia, preferendo godersi l’attimo, senza pensare ad altro. Finisce sempre con l’addormentarsi anche lui, ma non dorme così beato come la mia stella nera; ha sempre un’espressione imbronciata, seccata e stizzita, quasi scocciato dal dover dormire. In realtà, i suoi sogni non sono felici come quelli di Black*Star, che invece vede se stesso in cima al mondo e scoppia a ridere in piena notte gridando: “IO SONO UN DIO!”.
No, Soul rivive nei sogni tutto ciò che di brutto ha vissuto sino ad ora: le liti dei genitori, le vessazioni del fratello prepotente che lo infastidiva e sminuiva continuamente, il suo abbandonare casa; la paura che provò al pensare di perdermi e il suo porsi fra me e Chrona durante il primo scontro; il dolore della spada che gli squarciava petto e addome da parte a parte, lasciandogli un’enorme cicatrice.
Istintivamente, le mie dita scorrono su di essa, dolcemente, e lui sospira. Mi commuovo al pensiero che farebbe – che ha fatto – di tutto, per sapermi al sicuro; gli carezzo una ciocca albina, spostandola dal viso. Mi torna in mente quando su di me, poche ora prima, il suo petto mi coprì la visuale sostituendosi alle stelle d’una notte così buia da vederle tutte quante. Ricordo la mia mano scorrere sulla cicatrice; ricordo come i suoi occhi cremisi, pregni di adrenalina, d’un tratto si adombrarono a quel mio gesto. Ricordo la mia mano spostarsi ai suoi capelli, tirandolo con forza su di me; ricordo d’averlo baciato selvaggiamente, di essere tornata indietro a seguire i confini della cicatrice fino in fondo, per poi scendere ancora più giù. Ricordo che quello sguardo buio sparì, sostituito da una nuova eccitazione, profonda, primordiale.
Soul annulla ogni mio limite; mi spinge sull’orlo del baratro. Mi porta alla follia, mi rende incontrollabile.
Sento dei passi dietro di me, in lontananza. Dovrei essere preoccupata: potrebbe essere un custode o un controllore che arriva per farci una ramanzina e minacciarci di denunce; invece il pericolo mi incendia, mi eccita, e un ghigno mi storce il volto. Lo sento, il mio volto, percepisco che cambia, si deforma. Il mio divoratore di anime e la mia stella nera mi rendono selvaggia, mi infiammano, mi aizzano. È così animalesco, con loro.
I passi si fanno sempre più vicini. Sono calmi, lenti, non v’è segno di fretta. Il mio ghigno ora si attenua, il mio viso torna ad essere calmo, sano. Non c’è più nulla della brutalità, della follia di prima. Adesso, c’è solo la Maka coi codini che svolazzano, infantili.
«La colazione», sussurra. Il viso di Kid è pacato, imperscrutabile, imperturbabile. È uno Shinigami, mi dico.
Un dio della morte, il mio, che è il mio equilibrio.
Kid mi frena quando divento irruenta; non si lascia travolgere quando, in presa alla furia, distruggo tutto ciò che ho davanti. Mi mantiene calma, quando perdo la pazienza; ricorda al mio animo di restare gentile, quando perdo il controllo e perdo anche un po’ me stessa. Mi guarisce da me stessa.
Lo guardo, gli sorrido. Prendo una ciambella dal sacchetto che tiene in mano. È vestito. Si riveste sempre, lui.
“Un dio deve mantenere un certo contegno”, disse ieri pomposo dopo aver finito, mentre Black*Star, dietro di lui, gli faceva il verso, raggiante, in piedi e ancora nudo, strappandomi una gran risata e causando una altrettanto grossa ramanzina a tutti sul nostro comportamento immaturo; la speranza di una nostra crescita restò però delusa, così come deluse anche lo Shinigami, quando ottenne solo un sonoro schiaffo alla nuca dalla stella, Soul che si sdraiava sbuffando e si voltava dalla parte opposta, ignorandolo. E un mio bacio rincuorante, le mie mani che gli accarezzavano il viso e un sorriso che diceva: “Sai come sono fatti, non arrabbiarti”.
Sono così diversi, tra loro.
Kid guarda gli altri, che dormono ancora, con una smorfia. Non approva il modo in cui la loro presenza mi cambi, mi faccia perdere quel candore che da sempre mi caratterizza. «Sei un angelo corrotto», mi ripete, come sempre; come quella volta in cui Black*Star e Soul si erano messi a giocare a basket durante un pomeriggio afoso e io restai su una panchina più distante, a guardarli mangiando un gelato. “Sei un angelo corrotto, tu. Non dovresti lasciare che ti cambino così tanto”.  Io allora gli sorrisi e, poggiando una testa sulla spalla, guardai i miei amanti spingersi e strattonarsi per un pallone. Quello mi ricordò come una sera litigarono per chi dovesse avermi; di come poi mi ebbero entrambi. Di come tornarono ad essere amici, quando capirono che non esisteva nessuna competizione. Che avevano vinto entrambi. “Non posso farne a meno. Non posso fare a meno di nessuno di voi, lo sai”, gli risposi. Kid annuì, leccando il mio gelato e chiudendo lì la faccenda.
Lui è il più puro, il più nobile, mentre invece loro sono brutali, famelici, due uragani impossibili da domare e governare. È l’unico con cui io possa parlare liberamente. Non ci sono fraintendimenti, con lui. Mi ascolta senza interrompere, non cerca di dimostrare chi ha torto o ragione. È genuino, quello che abbiamo. Conosce i miei pensieri più intimi, più fragili; mi custodisce.
Sa cosa provo per lui, per gli altri, per tutti loro. E ha imparato ad accettarlo.
Sono così diversi, è vero. Ma li amo, tutti e tre. Ho bisogno di loro.
 
Soul e Black*Star mi rendono indomabile.
Kid mi riporta indietro.
 
Siamo un quartetto; le nostre anime sono sulla stessa lunghezza d’onda. Quando ci uniamo, creiamo una musica tutta nuova, solo nostra. Siamo polifonia.






 
  
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