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Autore: benedetta_02    25/04/2020    0 recensioni
Agata Giordano è una giovanissima ragazza che ha avuto l'onore di partecipare alla resistenza italiana che ora però ha solo bisogno di tornare nella sua città, Torino, per ricongiungersi con la sua famiglia e le sue vecchie conoscenze. Ma quello che troverà sarà solo morte, fame, terrore e così decide di ripercorrere passo passo la sua esperienza da partigiana attraverso i ricordi. Amori impossibili, segreti inconfessabili e un ruolo della donna sempre più di maggiore spicco, una donna stanca del passato e che ha un solo sogno: andare via.
Genere: Guerra, Malinconico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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«Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un Italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione.»
(, Discorso ai giovani sulla Costituzione nata dalla Resistenza. Milano, 26 gennaio 1955)
Torino, 14 giugno 1943
Tutto era iniziato nel 1940, quando venne dichiarata l’entrata in guerra dell’Italia. Ricordo perfettamente quel giorno, la gente andava nella piazza principale di Torino ad acclamare al Duce, tra cui mio padre, il padre di Giovanni, Mario Giraudo e il figlio più grande della professoressa Elena Dalmasso, la mia professoressa di latino e greco al liceo. Anche lei era convinta che Mussolini stesse facendo il necessario. Tutto nel mio ambito familiare mi stava riconducendo a lui, all’uomo che mi aveva portato via l’adolescenza, visto che avevo appena 16 anni quando scoppiò la guerra. In quel momento io ero con Giovanni e la mia amica Ginevra Pellegrino, con noi c’era anche Giorgia Giraudo, la sorella più piccola di Giovanni, ma lei non parlava mai, pensava che i nostri argomenti fossero troppo da grandi, che lei non avrebbe potuto capirli abbastanza, perché ancora pensava ad altro. Giovanni era visibilmente preoccupato, perché lui in università aveva sentito cose preoccupanti da alcuni ragazzi che volevano insorgere. Io, fino a quel momento, non sapevo nemmeno cosa fosse un’insurrezione, ma feci finta di capire perché non volevo fare brutta figura con Giovanni e Ginevra, anche se Ginevra ne sapeva meno di me, visto che lei era arrivata fino alla quinta elementare. Ginevra era la figlia più piccola di una famiglia di braccianti napoletani scappati al nord in cerca di fortuna, ma che hanno trovato soltanto la guerra e che ora lavorano in una fabbrica. Ginevra dice sempre che non le interessa se deve lavorare nel panificio della signora Clara, perché lei una possibilità ce l’ha, mentre tutti quelli che sono rimasti a Napoli non hanno speranze. Lei è forte anche se non lo sa, perché sa di essere presa di mira in quanto napoletana e perché non sa parlare bene l’italiano corretto, ma non le interessa, perché oltre a sapere che Napoli non offre niente, lei sa che Napoli è piena di gente genuina, che sa cos’è il rispetto e l’amore. Una volta mi disse “Nella tua Torino ve lo dovrebbero insegnare l’amore “e aveva ragione.
Era la mattina dell’8 giugno 1943, quando stavo per completare il mio terzo liceo classico ed iniziare l'esame finale. Per la prima volta ero veramente soddisfatta di me stessa perché io, a differenza di tante ragazze della mia età, potevo andare a scuola. Nemmeno mia madre è mai andata a scuola, perché suo padre non lo riteneva necessario, infatti mio nonno dice sempre che è essenziale che gli uomini studino e si affermino nel mondo del lavoro, mentre è necessario che noi donne impariamo il galateo, come occuparsi della casa e come cucinare. Che poi non ho mai inteso pienamente l’utilità di imparare a cucinare o imparare a pulire se in casa nostra c’è una donna che lo fa già per noi. Di fatto mia madre trascorre le giornate sulla sua sedia in vimini a guardare oltre le finestre. Sempre ben vestita, sempre truccata, sempre acconciata e sempre con le unghie placcate di rosso. Mia madre è una donna discreta, elegante e composta, lei non esce mai di casa se non in compagnia di mio padre, manda la signora Flavia, la nostra domestica, a fare le compere. Io da bambina invidiavo mia madre, però non sono mai riuscita a scorgere oltre quel suo sguardo duro, non ricordo un momento in cui si sia spesa per raccontarci una storia o un momento in cui si sia prestata nel farci una carezza, a quello ci pensava mio padre. Infatti, mio padre sebbene venisse descritto come un uomo severo e duro, ed effettivamente lo era, prestava sempre tenerezza nei nostri riguardi e diceva sempre che io e mia sorella Emilia eravamo la cosa più bella che gli fosse capitata nella vita. Mio padre era un professore universitario presso l’Università di Torino, come il padre di Giovanni. Loro due erano amici fin da ragazzini, hanno proseguito gli studi insieme e hanno deciso di intraprendere la stessa carriera, per poi sposarsi e decidere di andare a vivere nella stessa città e comprare una casa uno accanto all’altro, per questo motivo io e Giovanni siamo legati fin dalla tenera età. Ed è proprio Giovanni che sono andata a cercare non appena terminate le mie lezioni, perché Giovanni era l’unico che riuscissi a capire e lui era l’unico che riuscisse a capire me. Quando Giovanni mi guarda negli occhi, immediatamente tutto appare più limpido. Io nascondevo un suo segreto, un segreto che nessuno avrebbe potuto sapere, né tantomeno suo padre che sicuramente lo avrebbe picchiato fino ad ucciderlo. Questo poter mantenere un suo segreto, mi faceva sentire importante, perché voleva significare che io per lui conto. Giovanni era convinto, come tutti, che il fascismo fosse necessario in quel periodo, ma io credo che non lo pensasse perché credeva che fosse veramente così, io credo che Giovanni dicesse tutte quelle cose positive sul fascismo, solo perché gli è stato insegnato così, perché sebbene all’università si sia ritrovato ad ascoltare altre voci, era estremamente attaccato alle parole di suo padre, di mio padre, del suo professore, e di chiunque abbia avuto voce in capitolo in quel periodo.
Finalmente quando lo trovai seduto ad un tavolino di un bar vicino l’università, provai ad avvicinarmi a lui e alla sua cerchia di amici, con i quali io non avevo mai avuto nulla a che fare. All’improvviso ricordai le parole di mio padre “non avvicinarti mai ad un bar da sola, potrebbe essere sconveniente”, e anche Giovanni me lo diceva continuamente, anche lui credeva che non fosse il caso che mi avvicinassi senza di lui ad un bar, specialmente quando ci sono degli uomini, perché mio padre e Giovanni dicevano che gli uomini hanno degli istinti che non possono fermare, è normale. È normale, dicevano. Io non lo so cosa fosse normale sinceramente, ma io non ci vedevo nulla di male che una ragazza si avvicinasse a parlare con dei ragazzi al bar, con Giovanni non c’erano problemi, con gli altri si. Allora decisi che ci sarei andata lo stesso al bar a chiamare Giovanni, perchè io non sto facendo niente di male, pensai. Attraversai la strada che divideva il marciapiede dal bar e mi avvicinai a Giovanni, io non dissi niente, fin quando tutti rimasero in silenzio e Giovanni mi guardò esterrefatto, si alzò in piedi di scatto, mi prese con forza da un braccio e mi portò lontano da lì, strattonandomi.
“Ma si può sapere che problemi hai Agata?”
Inizialmente pensai che stesse scherzando, che non stesse dicendo veramente a me, e gli sorrisi e feci per abbracciarlo ma lui mi prese dalle braccia e mi tenne stretta.
“Agata, non lo ripeto più, dimmi che cosa ci fai qui e come ti è venuto in mente di fare una cosa simile.”
“Ma fare cosa scusa?”
“Non fare la stupida, sei molto meglio di così. Intanto, come ti sei permessa di venire qui senza il mio permesso? E poi tu lo sai che io ho una vita oltre a te, si?”, poi lasciò la presa e si strofinò la mano sugli occhi e con l’altra teneva gli occhiali appannati, mi guardò per un attimo, si rimise gli occhiali e riprese con una voce più tranquilla “Mi dispiace Agata, ma io non posso farci niente. Io lo dico per te, vuoi che ti prendano per una prostituta? O peggio, vuoi che pensino che io vada con le prostitute?”.
Prostitute. Ho sempre riflettuto su questa parola, ma non mi sono mai soffermata per capirne il pieno significato, però Emilia mi diceva sempre che era una brutta cosa, e che se a qualcuno piaceva stare con le prostitute non gli piaceva veramente, era solo per passare il tempo, perché nessuno se le sposava le prostitute.
Mi sentii immediatamente tradita da Giovanni, perché sebbene io non sapessi che cosa significasse questa parola, Emilia diceva che era una cosa terribile e io mi fidavo ciecamente di Emilia. Me ne andai senza permettergli di continuare ad insultarmi e lui non fece nulla per farmi restare.
Avevo bisogno di Ginevra, lo sapevo. Ginevra era sincera, lei non aveva mai studiato tutte quelle cose che avevo studiato io, ma lei sapeva più di me sul mondo reale. Entrai nel panificio della signora Clara, e lei era lì che metteva in ordine le ultime cose prima della pausa pranzo. Ginevra odiava quando io entravo nel negozio senza il suo permesso, non voleva che “la padrona”, come la chiamava lei, e tutte le sue colleghe potessero pensare che era ancora una ragazzina in cerca dell’amichetta e io allora la aspettavo fuori. Però facevo in modo che mi vedesse, per farle capire che io ero lì. Quando lei mi vide, venne da me direttamente, mi offrì un pezzo di pane e chiuse il negozio.
“Ginevra ti posso chiedere una cosa?”
“Dimmi Agatù”
“Cos’è una prostituta?”
Ginevra mi guardò un attimo negli occhi, poi scoppiò a ridere e ci poggiammo alla staccionata di ferro vicino la caserma.
“Agatù tu un mezzo futuro lo tieni, mi spieghi pecchè lo vuoi sapere?”
“Perché oggi ho litigato con Giovanni. Mi ha detto che sarei sembrata una prostituta se mi fossi avvicinata al bar da sola.”
“Ehh Agatù cosa vuoi che ti dico, un pochino tiene ragione, tu vai sola sola ad un bar mmiézzo a ommen, è normale Agatù.”
“Si va bene. Ammesso che io stia sbagliando nel pensare che non ci sia niente di male, perché prostituta?”
“Perché‘e zoccol questo fanno, stanno con tanti uomini, e si fanno pagare, tu si accusì?”
“No, non sono così”
“ E allora Agatù”
Nonostante la spiegazione un po’ precaria di Ginevra ma sicuramente migliore di quella di mia sorella, io ancora non riuscivo a vedere una connessione tra l’essere una prostituta e andare in un bar senza un uomo. Ora che sapevo il reale significato di questa parola, non avrei più potuto chiederlo a Suor Costanza perché sarebbe svenuta nel sentirmi chiedere una cosa del genere, ma sapevo anche che non era corretto il modo in cui mi aveva trattata Giovanni, e sapevo che avrei dovuto spiegarlo a mia sorella, per vitare che un giorno faccia una figuraccia tipo la mia. Io ammiravo questo modo di fare di Ginevra, un po’ ero gelosa di lei. Una volta, lei mi disse che in realtà il suo nome vero è Filomena, però visto che non le piaceva più, ha deciso che ormai è una torinese e quindi la devono chiamare tutti Ginevra, e anche la sua famiglia è d’accordo. Mi piacerebbe tanto avere una famiglia come la sua, dove non importa chi sei o cosa fai, ma l’affetto non mancherà mai.
“Ma lo sai che Gennaro, mi disse che stanno partendo delle squadre di non so cosa per liberarci”
“Squadre di cosa?”
“Ehh Agatù questo non o sacc, però so che vogliono accir’ a Mussolini, io ci credo.”
“Ma Gennaro che ne sa?”
“Penso che gliel’hanno detto al Partito, mo non te lo so dire sicuro però.”
Si fermò un attimo, si tocco la coda e volse lo sguardo verso la caserma, poi si avvicinò a me.
“Io se Gennaro parte, parto”
“Ma sei pazza Gì, ma che dici”
E pecchè Agatù? Dove sta il problema? Gennaro, i miei fratelli e la mia famiglia lo odiano a quello. Se Gennaro parte, io parto”
“Ginevra non dire sciocchezze. Nemmeno a me il fascismo piace, ma di certo non vado da nessuna parte, per uccidere nessuno”
“Ci vuoi venire al Partito?”
“Me ne devo andare Gi”
Ginevra mi prese da un braccio, mi tirò verso di lei, mi abbracciò forte e mi sorrise.
“Agatù, vienici con me, non lo ascoltare tuo padre, fai quello che vuoi. Ti prego, Agatù”
“No Gi, io non tradisco nessuno, io a differenza tua , ho tutto quello che voglio, perché mio padre si ammazza di lavoro per rendermi felice e io non gli provocherò un dolore simile”
“Pecchè i miei genitori non lavorano Agatù?”e se ne andò.
Già, i suoi genitori non lavorano? Per un attimo pensai a quanto doveva essere difficile la vita per Ginevra, mi resi conto di quanto io potessi essere stata egoista, di come non abbia fatto caso al suo dolore, che mentre io mi pensavo di prendermi cura della piccola emigrata ignorante, era lei che si prendeva cura di me, era lei che mi faceva da scudo contro le ingiustizie del mondo. Io le avevo sputato in faccia le mie lamentele da bambina viziata, senza curarmi di come lei potesse stare, di come lei avrebbe potuto attraversare questo periodo così difficile. Mi rendo conto di come Ginevra sia coraggiosa, però lei non si rende conto che io non sono coraggiosa quanto lei per poter accettare quello che mi ha chiesto. L’unica cosa che io e Ginevra abbiamo veramente in comune è l’odio per il fascismo e l’odio per chi dirige questa baracca, solo che io sono solo brava a teorizzare, lei invece è capace di entrare nella fabbrica del fratello e scioperare con loro, rischiando anche le percosse della polizia. Lei dice perché fondamentalmente non ha niente da perdere. Per una volta, anche io voglio avere nulla perdere.
Proprio nel momento in cui pensai che in una giornata avevo perso entrambi i miei due migliori amici, perché con una ero stata troppo dura e con l’altro troppo morbido, vedo Giovanni avvicinarsi verso di me, con la testa abbassata, le mani nelle tasche dei pantaloni e i capelli ricci che venivano mossi dal vento. Io ho sempre pensato che Giovanni fosse il ragazzo più bello del mondo, e quando suo padre mi diceva che fosse il caso di iniziare a pensare al nostro matrimonio, io guardavo lui e lui mi guardava ridendo, e allora io ridevo, ma io non ci trovavo nulla da ridere, perché io Giovanni Giraudo lo avrei sposato davvero. Si mise accanto a me, poggio la schiena contro la staccionata, prese dalla tasca della giacca una sigaretta, la mise in bocca e l’accese. Iniziò a gustarsi la sua solita sigaretta, mentre aveva messo un braccio intorno al mio collo, come soleva fare. Mentre inalava il fumo, io lo guardavo insospettita, dato che non riuscivo a capire questo suo cambio di atteggiamento. Giovanni è sempre stato imperscrutabile, doveva essere lui a raccontare i suoi problemi altrimenti non ci sarebbe mai arrivato nessuno. Io e Giovanni eravamo così, nel nostro silenzio riuscivamo a fare le conversazioni più belle, quelle in cui scoprivamo di più uno dell’altro.
“Mi dispiace Agata, non volevo che finisse in quel modo.”
“Giovanni, io mi auguro che tu ti renda conto di quello che mi hai fatto. Mi sono sentita ferita, stracciata, illusa, attaccata. Da te poi.”
Giovanni mi guardò con i suoi grandi occhi, buttò la sigaretta ormai finita tirando un sospiro, e semplicemente mi abbracciò, in un modo così forte che per un attimo mi mancò il respiro, mentre lui poggiava il mento sulla mia testa, e ripeteva in continuazione “scusa”.
In quel momento riconobbi il mio amico, il mio amico di sempre, quello che veniva al mare con me a Genova tutte le estati, quello con cui inventavamo storie bellissime, quello con cui dividevo ogni pomeriggio la mia merenda, anche se io stavo morendo di fame, quello che mi aiutava a capire il greco e ad amare la filosofia, quello che mi scriveva le lettere quando andava in Francia ad imparare il francese. Era lui il mio migliore amico. All’improvviso, pensai alle parole dure di Ginevra, “Perché i miei non lavorano?”, quelle parole che mi rimasero impresse nella mente, e per un momento pensai che forse i genitori e i fratelli di Ginevra, lavoravano più dei nostri. E allora lì compresi cosa era più giusto fare.
“Giovanni.”
“Dimmi Agata”
“Io voglio fare il Partito.”
   
 
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