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Autore: DaisyEriksen    27/04/2020    8 recensioni
Proprio come ora, mentre sto archiviando la copia del documento di un uomo appena arrivato e la coda dell’occhio mi si impiglia in una chioma del colore giusto. Lo cerco tra la gente, ma non riesco a metterlo a fuoco.
Ma tanto lo so che non è lui.
Non è mai lui.

Sana è una donna che ha tutto, ma non quello che vuole.
Akito è un uomo diviso a metà.
Una storia priva di predestinazione, con al centro una grande decisione, tutta ancora da prendere.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Akito Hayama/Heric, Aya Sugita/Alissa, Fuka Matsui/Funny, Naozumi Kamura/Charles Lones, Sana Kurata/Rossana Smith
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Sister Major (et moi)

 

La mia vita è facile.
Ho una madre e un padre, una casa, una sorella, una nipote, un lavoro.
Non è che sia perfetta, ma, guardandomi intorno, non mi posso lamentare.

La mia amica Aya, ad esempio, lei voleva fare la farmacista.
Ha studiato tanti anni e si è impegnata. Ah, gli intrugli che non mi ha propinato nel tempo… unguenti per capelli, magia nera. Eppure era sempre splendente quando si presentava alla mia porta con l’ennesima creazione definitiva, le brillavano gli occhi. Ai tempi della scuola passavamo serate intere impiastricciandoci la faccia con improbabili maschere fruttate, bevendo litri di the, guardando film dell’orrore di serie B e inzuppando biscotti bruciati.

Quelli li preparavo io, con inquietante costanza.

Alla fine il lavoro in farmacia Aya lo ha anche trovato, meglio di me niente, ma di fatto si ritrova a fare la commessa e a barcamenarsi tra anziani indispettiti o peggio allupati, e ipocondriaci in crisi di astinenza... non propriamente un sogno realizzato.
Almeno i miei biscotti sono migliorati, a un certo punto, ma nel frattempo lei si è trasferita e le nostre serate sono diventate rare; la chiamo quando posso e lei mi risponde sempre con trasporto, ma quando ha smesso di spedirmi la scorta di scrub al pepe rosa ho capito che qualcosa non andava.

Fuka me lo ripete da sempre:  tu vivi nel mondo delle favole . Lo pronuncia proprio così, senza punteggiatura, come un giudizio universale, un dato di fatto imprescindibile.
Fuka non è mai stata brava con i filtri, ma non ha mica torto, lo so benissimo, anzi probabilmente lo so meglio di lei.
In effetti, se vogliamo dirla tutta, ultimamente, io ne ho fatto il mio scopo. Ma di sicuro non glielo vado a raccontare.

Fuka è stata quella che ha affrontato questa realtà meglio di tutte noi.
Il ‘sacrificio necessario’, lei lo ha accolto a braccia aperte con quella rassegnazione stoica che sembra trascritta parola per parola da un poema epico, ma che a lei viene così, spontanea. Il resto se lo custodisce dentro, meticolosamente sigillato, a tenuta stagna, cosa che le conferisce anche una certa aria di mistero. Come ci riesce poi, chi può dirlo.
Quando le persone si complimentano con me per la i suoi modi impeccabili, io racconto loro che la ammiro per questo, ma dubito che ci credano.
E fanno bene.

In tutto questo, io tiro avanti.
Certo, passo dieci ore al giorno a fare un lavoro che non mi piace, ma, considerando che l’obiettivo primario della mia generazione, il Sacro Graal della stabilità - il Posto Fisso - mi è stato consegnato a domicilio con tutti i benefit correlati, il fatto che non corrisponda a ciò che desidero per me non conta. E forse è giusto così, forse è una questione di rispetto nei confronti degli altri, quelli come Aya, che, nonostante tutto, si ritrovano ogni anno a sperare che il lavoro che li ha delusi non gli venga portato via.
Bisogna essere realisti - giusto, grazie Fuka.

Che poi, non è che io proprio mi sveni per questo lavoro.
Forse non dovrei ammetterlo così, platealmente, ma negarlo sarebbe una bugia di dimens--
- Mi scusi?
Sì! Sono qui, ci sono. Realtà, via.
- Sì, buongiorno.
Sorrido prontamente alla donna al bancone, di fronte a me, e mi avvicino. Ho un bel sorriso, su questo c’è consenso unanime, mia sorella la batto di misura.
- La mia chiave magnetica non funziona.
Osservo la tessera che la donna mi sta porgendo.
- Mi dà il suo numero di stanza?
- Quella è una chiave per le piscine, Sana.
Mia sorella mi sta sfrecciando alle spalle con la sua camminata stressata. Non ha usato un tono duro, semplicemente il suo solito tono nervoso, che mi irrita. Mi irrita perché lo sapevo. O meglio, non lo sapevo, ma solo perché non so a memoria ogni cosa che succede nel nostro hotel, come lei, ma dal numero di stanza lo avrei scoperto subito.
Non rispondo, sorrido. Quella è la mia arma, è l’unica cosa che la mia brillante sorella non fa.
- Vediamo subito.
Rassicuro la donna con la voce più calorosa che riesco a improvvisare e poi passo la carta sul lettore.
- È impostata per le 10:00. Sicuramente è per questo… Adesso gliela attivo.
- Ci scusi signora Miyu, provvediamo subito. Adesso Sana la accompagna per verificare che funzioni tutto.
Oggi ce l’ho alle calcagna a quanto pare, si vede che è già di buon umore. Splendido.
Sorrido.
- Venga pure con me.
 

*

 

Ma tutto sommato mi ha fatto un favore.
Il siparietto mi ha dato una scusa per allontanarmi dalla reception caotica e, dopo aver accomodato la cliente, riesco a fare due passi tra le piscine, attraverso il parco. Amo questo posto. Nonostante tutto forse è l’unico aspetto che veramente apprezzo del mio lavoro. In una mattina come questa, poi,  in cui il cielo è terso, il sole picchietta le spalle, tiepido e il vento diffonde leggero il profumo dei fiori freschi, è uno spettacolo. Tra l’altro gli ospiti sono ancora quasi tutti impegnati a fare colazione o a prepararsi, quindi c’è tranquillità.
In questi momenti mi ricordo che cosa vorrei davvero.

Ma non si può.
Così mi incammino per tornare al mio posto. Ma siccome non sono mia sorella, una piccola deviazione me la concedo.
Al lato sud dell’hotel, il bistrot è già in movimento.
I clienti difficilmente vengono qui la mattina presto, preferiscono la colazione a buffet oppure si sistemano direttamente in piscina, ma qualcosa da fare c’è sempre: Doi apparecchia i tavoli in terrazza, Chio allestisce la vetrina con i dolci e la macedonia, una ragazza che non conosco spazza il pavimento. Mi avvicino, saluto, sono sempre tutti accomodanti con me perché resto sempre la figlia dei proprietari, ma non vorrei esserlo. Sorrido, e passo dietro il bancone per raggiungere la cucina: Hiro sta impastando, lo sento dal profumo, lo sento dal rumore.
Il rumore che fa l’impasto del pane quando è lavorato da qualcuno che lo sa fare davvero è uno scalpitio unico di carezze di incoraggiamento ruvide e di modellazioni energiche ma gentili.
Sorrido davvero.
- Che ci fai qui piccola Sana, sei già in fuga alle nove del mattino?
Hiro è speciale. Lui capisce. Forse perché combatte da sempre per poter fare ciò che ama o forse semplicemente perché ha il cuore più grande di tutti.
- Non è un po’ tardi per il pane?
Lui si gira a guardarmi annuendo, divertito.
- In realtà sei tu che sei in ritardo. Ti aspettavo almeno un’ora fa, credevo saresti arrivata di corsa. Ormai ci avevo perso le speranze…

Ok, so che sta scherzando, deve essere così per forza,  ma qualcosa mi sfugge.
Detesto non capire le battute e detesto ancora di più ammetterlo.

- Avresti potuto chiamarmi, sarei venuta subito.
Sto azzardando, lui mi guarda di sottecchi, ma non gli darò questa soddisfazione. Mi muovo con leggerezza per la cucina, fingendo indifferenza. Adoro giocare con Hiro. Mi guardo intorno con un mezzo sorriso, evitando il suo sguardo, e alla fine pesco un biscotto tiepido dal vassoio nell’angolo.
Non dovrei toccarli, lo so, ma sto cercando di provocarlo e poi i biscotti sono quelli alle mandorle, una delizia, come si può resistere?
Ma lui non raccoglie, mi raggiunge, senza una parola copre i biscotti con una campana di plastica, poi torna al suo impasto fatato.
- Se anche lo avessi fatto, tu non saresti venuta.
Lui puntualizza, mentre la farina, appena libera, gli fluttua intorno. Mi scappa da ridere ma mi trattengo.
- Che cosa? Certo che sarei venuta!
- No, invece.
Lui ridacchia e io mi sento una stupida.
- Hiro!
- Controlla allora.

Mi sfugge, che-co-sa-mi-sfu-gge!

Ma non ho scelta, e così prendo il telefono dalla tasca della giacca.
Che è vuota.
Oh.

Ma lui sta già ridendo, mentre, con un movimento della testa, mi indica il mio telefono poggiato con cura sul mobiletto in fianco alla porta, e io vorrei stropicciarlo tutto come se fosse un orsetto di peluche, perché lui è bello.

Non sono innamorata di Hiro.
A volte penso che vorrei esserlo, perché forse sarebbe facile.
Un uomo sicuro, ma gentile. Un uomo che si impegna in quello che fa, ma senza perdere il sorriso. Un uomo con un cuore così grande, in cui potersi sistemare comodamente, a lungo, senza timore.
Ma allo stesso tempo non lo vorrei davvero. Perché saperlo qui, ogni giorno, a fare ciò che anche io vorrei fare, mi trasmette un senso di pace, come se almeno qualcosa in tutto questo caos stesse girando per il verso giusto.
Hiro è la mia certezza preferita e amarlo sarebbe un rischio troppo grande.
L’amore è volubile, l’affetto no.

In ogni caso, il problema non si pone.
E non solo perché quando penso all’amore io vedo sempre, da sempre e per sempre  un unico maledettissimo viso, corollato da capelli di un biondo esagerato, ma soprattutto perché Hiro, il mio soffice amico baffuto, ha un incomprensibile debole per la mia perfettissima sorella.
O almeno questo è quello che dice. Con Hiro non si può mai sapere.
 

*

Rientrata in postazione, sono pronta a sentirmi comunicare il mio tempo con tanto di cronometro decimale alla mano, invece ricevo solo un’occhiataccia da dietro Frangia Castana e un sospiro frustrato. Intanto le e-mail sono quadruplicate, e, di fronte a cotanta  tristezza, il sospiro glielo copio.
Vorrei dire che è questione di genetica, ma non sarebbe vero.

A mezzogiorno i messaggi non letti si sono ridotti a quattro, ma le persone in fila non accennano a diminuire.
Marzo è uno dei mesi più importanti per il nostro lavoro. Appena le giornate accennano a farsi serene, la gente si riversa qui per godersi il primo sole nell’acqua termale calda. Non tutti sono ospiti dell’hotel, molti vengono semplicemente per una giornata di coccole, per questo la fila in entrata non si esaurisce mai.
- Ho chiamato Andrew, fai pausa.
Non mi ero neanche accorta che fosse tornata. In questo periodo mia sorella sta lavorando con i progettisti e l’impresa di costruzione per definire la ristrutturazione delle camere prevista per l'estate, quindi è spesso fuori.
- Non fa niente, c’è tanta gente.
Questa sono io, in uno slancio di empatia verso di lei e verso la nostra vita... non sono sempre così maldisposta.
- Vai Sana. Invece nel pomeriggio puoi fermarti?
Intanto la donna anziana che ha fatto il check-in dieci minuti fa mi sta guardando spaesata.
Sorriso d’ordinanza. Nessun problema, ne ho ancora una bella scorta.
- Signora, prego, l’entrata è alla sua destra.
Indico la porta, lei mi saluta, annuendo.
- Devo andare a prendere Akiko alle tre e mezzo, oggi escono prima.
- Come?
Merda!

Ogni volta che mia sorella nomina sua figlia, io sento sempre qualcos’altro… Ma è mai possibile essere ancora così ossessionati dopo quanto? Sei… sette anni?
Mi calmo, mi sto calmando.
Lentamente mi volto, ma lei ha gli occhi sul telefono, per fortuna.
E allora non sorrido, perché quando si tratta della mia nipotina non si scherza.
- Non c’è problema.
Annuisce senza smettere di scrivere.
Il multitasking incarnato.

E così eccomi beffata, di nuovo.
Andrew libera nella hall il suo fascino brasiliano, le nonne si imbizzarriscono e io sono costretta a prendermi una pausa nell’unico momento in cui non l’avrei voluta.
Proprio nell’unico momento in cui sto pensando a lui, di nuovo.
Naozumi direbbe che la braciola è al s--
Oddio!
Merda...
Merda, merda, merda fotonica!
Dov’è il telefono...

Stavolta è nella tasca, dove dovrebbe essere.
Il problema è quello che ci trovo dentro.
Vale a dire la prova inconfutabile, registrata per sempre nell’etere, che io-sono-pessima.

32 nuovi messaggi - 11:42
Kamu

Trentadue, cazzo!
Avrà anche ragione,  ma ci ha ricamato su una trapunta, accidenti!

Li scorro all’indietro, ce ne saranno una ventina solo di stamattina che ripetono:
Sana
Sana
Sana
Sana

Lo fa apposta, è per farmelo pesare.
E, per accertarsi che io lo comprenda, lo dichiara apertamente nel messaggio numero trentatrè, che mi arriva in questo momento.
Guarda che lo so che hai il telefono silenzioso per non turbare SM, ma non mi importa.

SM sarebbe mia sorella.
Naozumi ha coniato  per lei questo nomignolo anni fa e poi la cosa è degenerata.
Sister Major.
Non è davvero un’offesa, sarebbe un gioco di parole tra sorella maggiore e maggiore dell’esercito, ma se lo si spiega, non rende più.
È una cosa idiota, me ne rendo conto, ma la trovo rappresentativa del mio rapporto con Kamu, oltre che della mia frustrazione. E poi a me piace, mi fa ridere, dopo anni, mi fa ridere ogni volta, quindi va bene. Basta solo non usarlo davanti a lei.

Lo chiamo.
- Sono proprio una brava sorella!
- Sei proprio un’amica scarsa!
- Ahaha lo so, mi dispiace… io--
- Ma lascia stare che tanto non è vero niente, eri lì a eclissarti col tuo sexy-cuoco...
- Ma che dici! Abbiamo preparato la frolla!
- Se, se, sono sicuro che avete passato la notte a impastar-vi...
- Ommioddio!!
- Comunque non mi interessa! Devo dirti una cosa.
- Sentiamo.

- Ma... stai arrivando?
- No.
- Come no?? E io ho ripulito la Mina per niente??!

(La Mina sarebbe la sua vecchia Honda, con Naozumi serve l’interprete.)

- Non posso, Kamu, devo fermarmi oggi pomeriggio.
- Ma io devo dirti una cosa!
- E dimmela! Che differenza fa?
- Ma...! Tutta la differenza! Vengo lì.
- Ahh... non è una buona idea, facciamo stasera…
- Niente ‘frrrrolla’ stasera?
- Cosa? No… ma che stai dicendo!?
- Dai, vengo lì! E se tu sei troppo impegnata allora vuol dire che Andrew sarà libero.
- Maddai, ancora!… Ha una moglie, hai presente?
- Un classico… Allora?
- Non posso...
- Peggio per te!
- Non c’è dubbio.
- Sappi che *io* ho la soluzione a tutti i tuoi problemi.
-  Addirittura!
- Ma ora non mi va più di dirtela.

La pazienza che ci vuole.

- D’accordo… Prometto solennemente di pregarti… stasera.
- Ci devo pensare.
- Mi sembra giusto.
- Infatti.

- Vabbè ma quindi ieri sera?
- Stasera!
- Dai!
- Te l’ho detto, ho fatto la frolla! Magari te la faccio assaggiare...
- Eh?! Ma per carità… Vabbè ho capito. Me ne torno a casa, replicano ‘La villa dell’acqua’, alla faccia tua!
- Bravo. A stasera!

Naozumi è stato la mia prima vera cotta.
Se ci penso ora, sembra una follia, eppure è proprio così. Il primo giorno della prima media ho incontrato i suoi occhi turchesi e il mio cuore non è mai più stato lo stesso.
Col tempo siamo diventati amici, finché un giorno di febbraio, alla fine del terzo anno, lui ha deciso che io ero speciale, talmente speciale da confidarmi il suo segreto più grande. La cosa più intima e difficile che avrebbe potuto condividere con qualcuno.
Quel giorno io gli ho promesso di non raccontarlo mai.
Con tutte le mie forze di ragazzina ho preso la mia cotta, l’ho chiusa bene in un cassetto dell’armadio, e poi mi sono presa cura di lui, con le parole migliori che conoscevo e il cuore che mi stavo ancora costruendo, un giorno alla volta.
Avevamo tredici anni e credevamo che il mondo sarebbe rimasto sempre così.

Anni dopo ho trovato il coraggio di dirgli la verità.
Seduti al tavolino di un bar, gli ho confessato i miei sentimenti - ormai sepolti - in quel modo totale che si riesce a sfiorare solo con i migliori amici, le persone che sanno perché c’erano.
Quel giorno lui si è sentito importante e io mi sono sentita libera e soprattutto forte.

Arrivo alle 20e32, se mi bidoni ti do un pugno.
Ecco, ora io e lui siamo questo. E io ne vado orgogliosa.

Si potrebbe pensare che la mia sfortuna in amore abbia raggiunto il suo massimo già al primo tentativo, a undici anni. Invece no, il disastro è arrivato dopo.
Alto
Biondo
Atletico
Divertente
Impegnato
Avevo sedici anni quando è iniziata e ne avevo venti l’ultima volta che l’ho visto.
Davanti alla porta di casa mia, quella notte, lui era un altro: aveva concentrato tutto se stesso nei pugni stretti, i segni della rabbia e del dolore gli segavano il viso e la tensione delle sue spalle avrebbe potuto far crollare tutto l’isolato.
Non mi sono mai sentita tanto intrusa come in quel momento, mentre lo guardavo combattere la sua guerra, dalla finestra della mia stanza.
Ma non potevo evitarlo, perché era lui e perché sapevo che era l’ultima volta.

Eppure non è proprio corretto dire che da allora io non lo abbia più rivisto.
Perché io vivo nel mondo delle favole, è ciò che ho scelto, per mille motivi o forse solo per uno, e la mia mente ha l’abitudine di ringraziarmi mostrandomi quello che desidero, forse un po’ più spesso di quanto dovrebbe, sicuramente molto più spesso di quanto io possa gestire.

E così ogni borsone blu è il sacco slabbrato che lui abbandonava all’entrata.
Ogni ciclista è lui che prova un percorso.
Ogni capello biondo mi fa tremare.

Proprio come ora, mentre, tornata al lavoro, sto archiviando la copia del documento di un uomo appena arrivato e la coda dell’occhio mi si impiglia in una chioma del colore giusto. Lo cerco tra la gente, ma non riesco a metterlo a fuoco.
Ma tanto lo so che non è lui.
Non è mai lui.
Non è possibile.
È la mia testa.
Non può essere lui… vero?






 

** full disclosure: sono figlia unica.

  
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