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Autore: Martina_C_96    02/05/2020    0 recensioni
Dazira lavora a corte come ancella della principessa Pheanie, anche se non sembra molto portata per quella mansione; la ragazza sedicenne, infatti, preferisce di gran lunga cacciarsi nei guai con il suo amico di sempre, Ernik.
Una notte, però, la sua stessa curiosità punisce Dazira, portando alla luce un segreto che il castello di Forterra custodisce da secoli e che renderà la sua vita un vero incubo.
[Vi sconsiglio caldamente il plagio: quest'opera è registrata su Patamu al n° 118885.]
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ladon accese in tutta fretta la torcia all’entrata del corridoio che portava allo studio del principe.
Quelle laceranti urla di terrore facevano presagire che qualcosa di orribile doveva essere accaduto. Ma quello che più lo preoccupava era quel rumore che aveva udito oltre alle grida: una sorta di prorompente brontolio dai toni macabri che non riusciva ad associare a niente che potesse farlo sentire più tranquillo.
Iniziò a tremare. Forse non era stata una grande idea seguire i rumori, ma era l’unico a trovarsi in biblioteca in a quell’ora della notte, perciò nessun altro avrebbe potuto raggiungerlo in tempo per aiutarlo a capire la fonte di quei brontolii.
A un tratto, tutto cessò, prima le urla, poi il lamento, e scese un silenzio tombale.
Ladon sentì un brivido percorrergli la schiena e terminare sulla cervice e, senza rendersene conto, rallentò il passo. Doveva essere vicino, lo sentiva, ma, a ogni metro, gli sembrava che il suo cuore stesse per uscire dal suo petto.
Finché la torcia non illuminò uno stivale nero a terra, con la suola rivolta verso di lui, e subito dopo la gamba sfregiata, parte terminante di un corpo immerso in una pozza di sangue. Era la guardia di turno del corridoio.
Ladon non si rese nemmeno conto di aver iniziato a lacrimare per il terrore. Si guardò intorno sventolando la torcia, ma non vide nessuno. Era da solo con il corpo inerte della guardia mentre l’odore acre del sangue gli penetrava le narici.
Doveva andarsene, ma la paura l’aveva paralizzato e non gli permetteva di muovere le gambe.
Fu allora che udì altri suoni in lontananza, rumori di qualcuno che camminava sempre più vicino. Ladon capì che forse era giunta la sua ora ed iniziò ad agitare la torcia ancora di più, senza riuscire a muoversi. Il buio era quasi pesto, fatta salva per una flebile luce in lontananza: una torcia.
Quando capì che si trattava di una guardia, improvvisamente, Ladon sentì di aver recuperato le capacità motorie e corse nella sua direzione in un pianto disperato.
«Signore! Signore, che è successo?»
Tuttavia, sembrava che le parole non volessero uscire di bocca mentre, accasciatosi dinanzi alla guardia, si stringeva le ginocchia, così indicò lì, nel punto dove giaceva il corpo insanguinato.
L’uomo, dopo un primo momento di sconcerto, sguainò la spada e ordinò a Ladon di chiamare le altre sentinelle del piano.
Ma non avrebbero trovato nessuno. Chiunque fosse stato, non era più lì.
●●●
 
Non era stato rubato niente, questo era stato accertato. Ed era pure discutibile la supposizione che l’assassino si trovasse nel castello per uccidere il principe Arthis dal momento che, a notte fonda, si trovava nei suoi alloggi privati.
Forse l’obiettivo era proprio la guardia. O forse si trattava di un ladruncolo che non aveva fatto in tempo a prendere i pochi tesori nascosti nello studio del principe.
Tante ipotesi, una meno probabile dell’altra. Dato certo era che, nel giro di una mattinata, la notizia aveva fatto il giro di tutta la corte e il re aveva dato ordine di raddoppiare i turni di guardia alle porte delle sue stanze, di quelle dei figli e di lord Mohro, ospite a palazzo in quei giorni.
Ladon era stato interrogato per dare alle spie del principe quanti più dettagli possibili per l’indagine e aveva passato quasi tutta la giornata a esaminare il corpo insieme al curatore, alla ricerca di qualche indizio sull’arma utilizzata, ma gli evidenti segni che sformavano la pelle della vittima non davano un quadro chiaro di quello che poteva essere accaduto; questo rese la giornata di Ladon ancora più frustante.
«Non ti ho chiamato per accusarti, Ladon, vieni dentro», aveva esordito il principe quando il bibliotecario aveva risposto alla sua convocazione, varcando timidamente la soglia dello studio.
All’interno dell’ambiente in penombra, per via della poca luce che proveniva da due finestrelle alte e strette ai lati della piccola stanza, vi erano anche due sentinelle e un uomo seduto nell’angolo, in posizione apparentemente rilassata, ma Ladon aveva l’impressione che lo stesse scrutando da capo a piedi.
Il principe fece cenno a Ladon di avvicinarsi con un sorriso, a prova di ciò che aveva appena sostenuto. «Voglio solo sapere come stai... e se ci sono novità.»
Ladon, invitato dal principe, si sedette sulla poltroncina davanti al tavolo in legno scuro. «La ringrazio dell’interessamento, principe Arthis. In effetti, sono un po’ scosso, ma sono certo che domani starò meglio», cominciò il bibliotecario. «Quanto alla sua domanda, il curatore Silterio ed io stiamo esaminando ogni possibile traccia sul cadavere, ma non riusciamo a capire.» Ladon si schiarì la voce e deglutì cercando di riacquistare il tono limpido e calmo di sempre. «Il corpo sembra in parte ustionato, ma le gambe sono sfregiate in un modo strano… sembra che siano stati conficcati degli artigli nella carne. Il che mi ha fatto pensare ad un’arma utilizzata dalla Setta. Magari un tira pugni con delle grinfie saldate all’altezza delle nocche!»
«Ma?» continuò il principe, impaziente. «Ti conosco bene, Ladon: tu non credi minimamente che siano stati loro.»
«Non è che non lo credo, mio signore. È che non è questa la parte più strana.» Ladon inspirò profondamente. Sapeva che quanto avrebbe detto, avrebbe turbato anche il principe, e l’ultima cosa che voleva era dargli un altro grattacapo a cui pensare, ma non poteva certo tirarsi indietro al suo dovere: «Quando abbiamo scoperto il petto della guardia abbiamo trovato delle strane macchie nere che imputridivano altresì la casacca. Dapprima pensavamo fosse sangue rappreso, ma siamo certi che non lo sia».
Il principe Arthis lo guardava serio, con la sua solita calma, imperturbabile, espressione di quando stava pensando a qualcosa che lo preoccupava.
Era molto diverso da suo padre, Ladon se n’era accorto fin da quando Arthis era bambino e il bibliotecario gli impartiva lezioni di storia, letteratura, matematica. Se, al posto del principe, in quella stanza, ci fosse stato il re, probabilmente, il corpo della vittima sarebbe stato per essere bruciato sulla scia dell’impulsività.
Per questo doveva scoprire in fretta cosa aveva causato la morte della giovane sentinella: perché, prima o poi, re Gohr sarebbe venuto a sapere di quelle putride e maleodoranti macchie nere e, nella mera ipotesi di una qualche epidemia, dell’unica fonte di prove che avevano, non ne sarebbe rimasta traccia.
Ladon sapeva che non poteva essere una malattia. Era evidente che quel petto era stato colpito da qualcosa, qualcosa di ancora sconosciuto.
«Mio signore, non sono nessuno per dirlo, ma, in tutta franchezza, non credo che un ladruncolo abbia i mezzi per ammazzare una guardia in quel modo, e quella non era certo la parte del castello dove un ladro più preparato avrebbe potuto trovare grandi tesori.» Ladon sospirò grattandosi il capo e guardò con la coda dell’occhio l’uomo nell’angolo, vestito di scuro, che lo stava osservando attentamente. Il bibliotecario si voltò di nuovo verso il principe Arthis. «Non riesco ad escludere la Setta, mio signore, ma non conosco il movente per cui potrebbe aver agito e non ho la pretesa di mettere il naso in affari che non mi competono», disse.
Nella stanza tornò il silenzio. Il principe non aveva mutato la sua espressione mentre fissava il tavolo con le sopracciglia corrucciate e una ruga di preoccupazione gli solcava la fronte. In quel momento, sembrava più vecchio della sua età; aveva varcato da pochi anni la soglia dei venti, ma i pesi che portava sulle spalle lo invecchiavano di almeno sette o otto anni.
Sarebbe stato un re migliore di suo padre, Ladon ne era certo.
«Va bene, Ladon. Ti ringrazio», affermò il principe dopo un sospiro inquieto. «Continuerai ad indagare domani. Per oggi riposa, ne avrai bisogno.»
Ladon ringraziò congedandosi rispettosamente mentre dava un’ultima occhiata a quella che doveva essere una spia di Arthis che, come prima, era stravaccata sulla sedia, con il gomito appoggiato al tavolino mentre scrutava la stanza con finta indifferenza.
Strano che un soggetto del genere fosse una spia del re: non sembrava una di quelle facce delle quali ci si dimentica facilmente, come quella della maggior parte di loro. Aveva i tratti marcati e un’evidente cicatrice che gli attraversava un sopracciglio e terminava a lato dell’occhio, appena sotto lo zigomo.
Giunto nei suoi spartani alloggi, Ladon sbirciò, come al suo solito, nello stanzino dove dormiva, serenamente, Dazira. Era felice che fosse riuscita ad addormentarsi dopo una giornata che sembrava averla scossa parecchio.
Così appoggiò la testa sul cuscino, ma una strana inquietudine, per interminabili minuti, non gli permise di appisolarsi. Poi il sonno ebbe la meglio.
●●●
 
Il castello era in pieno fermento quando Ladon fu convocato di nuovo. Era successo ancora, nelle stesse modalità, nel cuore della notte.
Questa volta la vittima era uno dei giardinieri del re che era solito assopirsi sotto alle stelle. Era stato trovato da una ronda notturna che aveva immediatamente avvertito il principe.
«Mi dispiace averti fatto chiamare ancora prima dell’alba, ma ho bisogno che tu mi dia la conferma che questo», disse Arthis, indicando il corpo che era stato portato in quello stesso studio, «è lo stesso autore dell’omicidio di ieri!»
Ladon si fece largo fra la decina scarsa di persone fra guardie, il fratello del giardiniere, e lo stesso losco individuo della sera precedente. La stanza era così affollata da sembrare ancora più piccola di quella che era; re Gohr non avrebbe mai scelto uno studio così cupo e sterile.
Ladon guardò il principe Arthis che gli appariva, ora, più preoccupato che mai. Si avvicinò al corpo inerte e squarciato sul ventre da quelli che sembravano gli stessi solchi che avevano segnato le gambe della guardia. Sulla spalla era sporco di un vischioso liquido nero.
Non c’erano dubbi. C’erano solo due domande a cui rispondere: chi avrebbe potuto avere interesse nel colpire due persone così diverse fra loro… e, soprattutto, a quale fine?
●●●
 
Un omicidio al giorno, anche in pieno pomeriggio, per un’intera settimana.
Persino Gohr aveva rinunciato all’idea di una possibile epidemia. Arthis camminava avanti e indietro per il suo studio, senza trovare pace. Aveva fatto uscire le guardie che, su ordine del re, non si allontanavano mai dalla sua porta.
«Pensi che la Setta stia cercando di spaventarci o di dirci qualcosa?» domandò il principe in tono serio, senza guardare il suo interlocutore.
Therar scosse la testa senza scomporsi. «Se volesse dire qualcosa, penso che sarebbe più chiara nel suo messaggio», rispose, accasciandosi sulla sedia. Era esausto: aveva passato tutta la giornata a cercare informazioni, senza successo.
«E, allora, perché uccidere cortigiani a caso!» sbottò Arthis, fermandosi per un secondo prima di ricominciare a camminare. L’aria era satura di tensione.
«Forse, non è stata la Setta», affermò Therar senza far troppo caso al tono insolitamente alto del principe.
Arthis, finalmente, si girò verso di lui. «Tu pensi che non sia stata la Setta», ripeté a tono più basso, cercando di riacquistare la sua magistrale tranquillità. «Hai altre opzioni?»
«No.»
Il principe sbuffò prepotentemente e si lasciò scivolare sulla poltrona rivestita di velluto verde. Per alcuni istanti, tacquero. La stanza, come al solito, era pulita e ordinata, fatta eccezione per la quantità straordinaria di documenti diretti ad Arthis che si erano accumulati sulla scrivania in attesa di essere firmati. Il principe, com’era prevedibile, in quei giorni aveva ben altro a cui pensare. Era lui a scegliere personalmente le spie del re e a gestire l’intera rete delle attività dei segugi della corte, oltre ad essere a capo dell’esercito. Essendo un uomo molto pratico, erano in molti ad affidarsi a lui e la burocrazia spesso veniva delegata a poche persone fidate, salvo per quei documenti per i quali serviva l’omologazione reale.
«Non conosco il mio nemico»,  affermò il principe in tono piatto. «Questo è ciò che mi infastidisce di più. C’è terrore nella corte e non sappiamo chi lo semina e perché!»
In quel momento qualcuno bussò alla porta con una certa insistenza. Solitamente, non era questa la prassi, ma Arthis si era sempre curato poco dei protocolli reali – con una certa disapprovazione da parte del re – e non fece caso alla maleducazione quando l’uomo e le due guardie entrarono trafelati.
Lo scudiero, spiegarono le sentinelle, aveva visto tutto e, da come era scosso, la situazione non prometteva niente di buono.
●●●
 
Ladon aveva davanti a sé il disegno del mostro. C’era chi aveva sostenuto che Ernik, lo scudiero del principe, fosse stato colto da un’allucinazione, un abbaglio, o si fosse inventato tutto. Alcuni credevano addirittura che fosse stato lui. D’altronde, Ernik era solito aggirarsi per l’intera corte, persino dalle parti della biblioteca, insieme alla piccola randagia di Ladon, Dazira.
Ladon l’aveva cresciuta come una figlia da quando sua madre, consapevole di dover morire a breve, l’aveva affidata a lui. Il bibliotecario inizialmente era restio, ma era così tanto affezionato a quella donna da non poter fare a meno di prometterle che si sarebbe occupato di quella pulciosa palla al piede. Così si era ritrovato con una mocciosa indesiderata che negli anni aveva fatto breccia nel suo cuore, tanto da non fargli mai rimpiangere la sua scelta.
Ernik non aveva ucciso nessuno, erano solo voci di corte. Certo, era comprensibile che, diffuso il terrore, ci fosse qualcuno che cercasse il capro espiatorio. La questione non riguardava la colpa di Ernik, ma il fatto che potesse aver mentito.
Il principe Arthis, in un primo momento, aveva perso le staffe e si era infuriato con il suo scudiero, certo che fosse tutta una burla, come c’era da aspettarsi da Ernik. Nemmeno Ernik, però, era così idiota da raccontare una frottola del genere in quella situazione. O era improvvisamente impazzito, o ciò che aveva visto era realmente qualcosa di mostruoso e, a giudicare dai segni sui corpi delle vittime, forse Ernik aveva ragione.
Il disegno era un po’ infantile e non chiaro, ma, fin dal primo momento, Ladon aveva avuto la sensazione che non si trattasse di qualcosa di nuovo, aveva avuto l’impressione di aver già visto il soggetto disegnato da qualche parte…
Ernik aveva raffigurato un volto dai tratti umani, ma con dei denti appuntiti e la lingua biforcuta; dalla schiena spuntavano due ali grandi e appuntite. Aveva spiegato dettagliatamente come le ali apparissero tutte tagliuzzate e come l’intera creatura, a suo dire, fosse coperta di un viscido strato di melma nera che somigliava alla pece.
La chioma castano chiaro di Dazira sbucò da dietro il portone in legno massiccio della biblioteca mentre Ladon sentiva il ticchettio degli stivali insudiciati della ragazzina che si avvicinavano. L’uomo la squadrò: era logora di fango e fuliggine dalla testa ai piedi, come al solito. L’unica nota stonata era un’espressione stanca e triste sul viso che non le si addiceva. Forse, aveva litigato con Ernik.
«Non dovresti pulire, rammendare o aiutare la balia della principessa a quest’ora?» l’accusò bonariamente.
«Puoi stare tranquillo, mi hanno dato un’ora libera!»
«Dubito che, se Belisa ti vedesse in questo stato, approverebbe.» Ladon abbassò lo sguardo di nuovo sul disegno scuotendo la testa. Prima o poi, quella ragazzina si sarebbe messa nei guai e sarebbe toccato a lui cercarle un altro lavoro.
«Eccola qui, la mocciosa!» Ladon non aveva nemmeno fatto in tempo a pensarlo, che balia Belisa avanzava con aria minacciosa verso di loro. Il bibliotecario scrutò, con la coda dell’occhio, la ragazzina che stava ricambiando lo sguardo mogia, probabilmente per la consapevolezza della bella paternale che le sarebbe toccata quella stessa sera, per la bugia che gli aveva appena raccontato.
«Ho bisogno di lei, Ladon!» dichiarò sibilante una signora sulla cinquantina, piuttosto bassa, che compensava i centimetri che le mancavano con il girovita.
L’uomo scrollò le spalle, guardando a malapena la balia baffuta e dalla chioma brizzolata. «Te la puoi prendere.»
Fu quando la ragazzina si girò, che Ladon lo notò. Fuoriusciva a malapena dal bordo dei suoi stivali: era un’elsa argentata, un’inconfondibile elsa argentata, la cui vista lo raggelò. Per alcuni istanti, dopo che le due se ne furono andate, una a passo deciso, l’altra a suon di tirate d’orecchi, Ladon rimase immobile, immerso nell’austero silenzio della biblioteca di corte, circondato dalle bianche e alte colonne marmoree con rifiniture in stile dorico e dagli infiniti scaffali in legno di quercia, zeppi di libri, tutti catalogati e divisi con grande cura.
Scosse il capo, incredulo, mentre il sopracciglio s’aggrottava e la sua espressione si faceva seria.
Poi, di scatto, s’alzò e si diresse di corsa verso uno scaffale della biblioteca. Era solo nell’ambiente e i suoi passi risuonavano per l’intera sala ricoperta quasi interamente con un marmo bianco e lucido. Gli archi delle volte erano ampi e rotondi e l’eco dei suoi movimenti sembrava riempirli mentre sfogliava frettolosamente le vecchie pagine impolverate del libro che fino a poco prima stava cercando.
Infine, un ultimo, secco rumore quando sbatté libro con foga sopra la scrivania. Aveva trovato la pagina giusta.
Avvicinò il disegno di Ernik a quello che doveva essere un disegno proveniente da qualche secolo prima. Non erano uguali, ma entrambi evidenziavano le stesse caratteristiche del soggetto rappresentato.
Ladon non poteva crederci. S’accasciò sulla sedia con un sospiro, senza più guardare il disegno.
Restava solamente la controprova, ma il bibliotecario aveva paura di riceverla. Avrebbe significato che era tutto vero, e che la situazione sarebbe stata peggiore di quanto avesse mai immaginato.
Ma doveva farlo. Doveva verificare.
●●●
 
Il cigolio acuto della porta rimbombò nell’ambiente, facendolo rabbrividire. Le pareti del corridoio erano coperte di muschio e ovunque regnavano polvere e ragnatele.
Ladon pensò che forse sarebbe stato più opportuno avvisare il principe, ma, senza avere la prova definitiva, non era il caso di allarmare nessuno inutilmente;  senza contare che, se la realtà era come Ladon sospettava fosse, la gravità della situazione l’avrebbe travolto in pieno.
Dalla stanza oltre la porta proveniva un intenso fetore di muffa e di ambiente chiuso. Difatti, non vi erano finestre o feritoie per il riciclo dell’aria. Il vano era intercluso fra più ambienti e il passaggio che ne permetteva l’accesso era assai difficile da trovare per tutti coloro che non conoscevano la sua esistenza.
Erano decenni che non entrava più in quella stanza e, probabilmente, nessuno dopo di lui ci aveva più messo piede… fino a pochissimo tempo prima.
A dire il vero, erano rimaste in vita un numero irrisorio di persone che conoscevano il segreto nascosto dietro a quel quadro.
Lo capì non appena varcò la soglia: lì, sotto all’enorme scrivania che troneggiava al centro di quello che, un tempo, doveva essere un ufficio, la botola era stata aperta.
Il vecchio baule era un relitto dischiuso sul pavimento, testimone di un grave errore che aveva portato alla morte di ben nove persone.
Per quasi duecento anni era rimasto rinchiuso in quel segreto e remoto angolo del palazzo; ora il demone era stato liberato, e aveva più fame che mai.
   
 
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