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Autore: NPC_Stories    03/05/2020    9 recensioni
"Mamma è una persona normale, e la nostra è una famiglia normale. Papà è drow. Non manifesta l'affetto nello stesso modo."
[White lies, cap. 7]
.
Spin-off di White lies. Amber ha ricevuto un piccolo dono dal suo padre distante, ed è convinta che lui senta la sua mancanza così come la sente lei.
Ma che cosa c'è veramente dietro? Quanto è oscura, in realtà, la vita di un drow che lotta per mantenere il potere a Eryndlyn?
Genere: Angst, Dark, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Forgotten stories of the Forgotten Realms'
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1357 DR: Nostro padre ci ama


Città sotterranea di Eryndlyn, un pomeriggio come tanti

Una domanda che ha sempre torturato la mente di ogni giocatore al gioco del potere, è ‘fino a che punto la mia organizzazione segreta deve restare segreta?’
Sicuramente abbastanza segreta da poter agire indisturbata, ma se poi è troppo segreta non ha potere contrattuale, non ha una fama su cui fare leva. Dov’è il giusto equilibrio?
La risposta, conosciuta ai più furbi fra i giocatori, è che non c’è una regola: dipende dal ruolo che deve avere. Un’organizzazione che cerca clienti non può essere completamente segreta: mercenari, alchimisti, assassini, informatori… hanno bisogno che la gente sappia a chi rivolgersi, altrimenti non arriverebbero a sbarcare il lunario.
Ci sono casi in cui i vertici dell’organizzazione devono essere noti per poter prendere accordi, ma l’identità dei loro sottoposti deve rimanere segreta. Al contrario ci sono casi in cui la bassa manovalanza può agire alla luce del giorno, ma i nomi di chi tira le fila non possono essere sussurrati nemmeno nell’ombra.
I Vuoti, o Neantaken in lingua drow, avevano scelto una terza via: avevano un’organizzazione mercenaria di facciata, una gilda di maghi semi-segreta, volutamente il segreto peggio custodito di Eryndlyn; dietro di essa si nascondevano loro, i Vuoti, il vero potere.

Ogni tanto accadeva che una Casata nobile del quartiere occidentale, dove imperava il culto di Lolth, soffrisse di penuria di maghi fra le sue fila o avesse bisogno di un Maestro Arcano. In questo caso, quella Casata sapeva di potersi rivolgere alla Llar Llounen Telamurin - la “Scuola delle Tre Arti” - per affittare i servizi e la lealtà di un mago per l’intera durata della sua vita. Nominalmente il Llar Llounen era un collegio per maschi talentuosi, drow senza famiglia che aspiravano a essere assunti da una Casata prestigiosa. Una delle tre arti insegnate era la magia arcana, ma c’era un alone di mistero intorno alle altre due: il combattimento, o forse la politica? L’inganno, o l’obbedienza? Qualche Matrona particolarmente soddisfatta sussurrava che una delle tre arti fosse quella dell’amore carnale.
Nessun nobile si sarebbe mai sognato di studiare alla Scuola delle Tre Arti, perlomeno non apertamente: era considerata un collegio per servitori, orfani e stranieri, un covo di mercenari. Questo quindi era il segreto non segreto: la Llar Llounen Telamurin era un luogo dove i disperati potevano cercare di reinventarsi, dove maghi reietti di altre città drow venivano a rifugiarsi. Persone spesso abbastanza disperate da legarsi alla prima Casata che offrisse loro protezione e potere. Le sacerdotesse di Lolth lo sapevano, e accettavano di non fare domande: avrebbero assunto qualunque mago a patto che fosse fedele a Lolth come può esserlo un laico, cioè almeno di facciata. Una volta prelevato dalla Llar Llounen, un mago stringeva un patto di ferro e sangue con la sua nuova Matrona e il suo passato veniva cancellato. Almeno ufficialmente.
Quello che nessuno sapeva, il vero segreto, era che qualcun altro tirava i fili dietro quell’organizzazione. I Neantaken, i Vuoti, una setta segreta di maghi che miravano al controllo della città. Tutti i Maestri della Llar Llounen Telamurin erano Vuoti ma la loro influenza non si fermava lì. Alcuni dei loro membri erano perfino Maestri in altre scuole di magia della città, al di fuori dell’altipiano dove sorgeva il quartiere dominato dal culto di Lolth. Il Rettore e alcuni Insegnanti di Szeous-Faer, la scuola di magia dei vhaerauniti, erano segretamente dei Vuoti, e come loro anche tre dei Maestri dell’accademia di magia del quartiere di Ghaunadaur. In pratica erano a buon punto nel loro piano di conquista.

S’lolath Del Neantaken, luogotenente del Supremo Arcanista dei Vuoti, appoggiò pesantemente la sua sacca sulla scrivania e poi con un saltello si sedette accanto ad essa, lasciando penzolare le gambe a una spanna dal pavimento. Lo sguardo era fisso sulla porta del suo studio, che si stava richiudendo dopo il suo passaggio. Quando la sottile lastra di piombo che fungeva da porta si fu riallineata con la cornice dell’uscio, S’lolath tese l’orecchio: una serie di scatti e schiocchi testimoniarono il rimettersi in asse di una serie di serrature e trappole. Un istante dopo una rete di rune invisibili si illuminò e poi si spense mentre anche le trappole magiche si riattivavano. La rete di glifi magici si diffuse come un’onda lungo le pareti creando simili giochi di luce in tutta la stanza, perché solo un folle avrebbe protetto solo la sua porta. Il drow rimase in silenziosa contemplazione per un altro secondo, poi sospirò e si concesse di rilassarsi per un istante.
Ma fu davvero solo un istante perché aveva grandi progetti per quel giorno. Era il suo Giorno delle Memorie. L’aveva accuratamente scelto a caso per fare in modo che nessuno dei suoi nemici si aspettasse che fosse proprio quel giorno.

S’lolath aveva dei segreti, come ogni drow di Eryndlyn, come ogni drow sotto e sopra la Superficie di Toril, come ogni drow di qualsiasi Piano e pianeta del multiverso. Ma a differenza della maggior parte dei suoi simili, S’lolath aveva segreti che avrebbero messo in pericolo altre persone. Persone a cui teneva, sebbene a modo suo, in modo drow.
Per questa ragione sigillava ogni suo ricordo pericoloso con un rituale speciale che prevedeva di intrecciare una ciocca dei suoi capelli per ciascun segreto. Due terzi della sua testa erano coperti da piccole e fittissime treccine che imprigionavano la sua liscia e folta chioma bianca.
Il problema si presentava quando, dopo uno o due anni, i suoi capelli crescevano abbastanza da far allentare le trecce e questo metteva in pericolo la solidità dei suoi incantesimi di oblio. Quando S’lolath si accorgeva di questo processo cominciava a mettere in atto una piccola scommessa ogni mattina per decidere se quel giorno avrebbe dovuto dedicarsi a rifare i rituali di memoria oppure no. Non poteva semplicemente decidere in anticipo una data. I suoi nemici avrebbero potuto scoprirlo, e naturalmente lui ne aveva molti, di nemici. Quello era il momento in cui era più vulnerabile, doveva essere certo che nessuno potesse prevederlo.
Ogni giorno affidava al caso la decisione fatidica, sempre con criteri diversi: un giorno lanciava in aria tre monete e decideva in base alle facce che restavano esposte all’aria, il giorno dopo entrava, camuffato, in una taverna a caso e s’imbucava in una partita ai dadi solo per avere in mano per un momento uno di quegli oggetti del caos e lasciargli decidere il suo destino. Il giorno dopo ancora scommetteva con se stesso: ‘se oggi il primo servitore che si inchina davanti a me riprende a camminare con il piede destro…’
Fino a quel momento il responso del caso era sempre stato negativo, ma S’lolath non si era arreso. Cercava di non usare mai due volte la stessa scommessa, anche se questo gli richiedeva parecchia inventiva.
Quel giorno aveva deciso di dedicarsi al delicatissimo compito perché il suo scorpione da compagnia, Yugho, aveva mangiato prima due scarafaggi neri e soltanto dopo uno marrone. Quindi S’lolath era passato alla Scuola delle Tre Arti, aveva preso in prestito cinque libri fingendo che fossero di grande importanza (per depistare l’interesse di chiunque fosse stato testimone del suo passaggio) ed era tornato nel suo studio.
Ora quei libri giacevano ancora intatti e intoccati nella sua borsa. S’lolath li estrasse uno alla volta e li sistemò con cura sulla scrivania, in modo che fossero aperti mostrando pagine che trattavano tre argomenti apparentemente diversi ma che avrebbero potuto essere collegati da alcuni arditi salti logici. Poi creò un’illusione di se stesso chino sulla scrivania a leggere quei libri, giusto nel caso in cui qualcuno fosse riuscito a superare le sue protezioni e spiarlo con la divinazione.

Il drow si spostò nella sua camera privata dietro lo studio. Era il luogo più protetto e sicuro che conoscesse, il suo sancta sanctorum. Era lì che compiva il suo rituale più segreto.
Scivolò come un’ombra nelle sue stanze private, ma qualcuno se ne accorse nonostante la sua furtività: Yugho, il suo scorpione immondo, salutò il suo arrivo dal terrario in cui viveva. Lo schiocco delle sue chele aveva qualcosa di minaccioso, come al solito. S’lolath sospirò, chiedendosi ancora una volta come mai avesse scelto di dare asilo a una bestiaccia ingrata e incontrollabile, un animale da tenere rigorosamente chiuso in una teca. La risposta, vergata dalla sua stessa mano, era appesa con uno spago al terrario stesso; una pergamena che recitava poche semplici parole:

Yugho ti serve, non ucciderlo.
Fidati del tuo giudizio.


S’lolath non sapeva a cosa mai potesse servire un’arma che non si poteva controllare, ma si fidava del giudizio del se stesso del passato che aveva scritto quel messaggio. Comunque Yugho era proprio una creatura inutile: la sua mente era impenetrabile alla magia, non c’era incantesimo di ammaliamento che potesse avere ragione del suo brutto carattere e della sua indole assassina. Per di più, lo scorpione demoniaco era in grado di rendersi invisibile a comando e più di una volta aveva cercato di attaccare S’lolath mentre questi lo nutriva. Insomma, una bestiaccia.
Doveva aver avuto un lampo di straordinario umorismo quando lo aveva chiamato Yugho, cioè ‘carino’.
“Hai già mangiato, Yugho” gli ricordò in tono stanco. “Fattelo bastare per questo mese, non è facile trovare insetti celestiali. Quelle robe costano” spiegò, ben sapendo che l’animale non era intelligente e non poteva comprenderlo.
Chissà perché mi prendo la briga di mantenerti.

Il mago drow passò in rassegna tutte le protezioni magiche apposte sulla sua stanza prima di consentire a se stesso di rilassarsi un minimo. Era importante entrare in un certo stato mentale prima di sciogliere le treccioline e liberare i suoi ricordi: alcune di quelle memorie forse erano solo informazioni su delitti altrui e intrighi passati che era meglio non farsi leggere nella mente, ma altre avrebbero potuto prenderlo in contropiede e fargli dubitare di molte cose, forse persino della sua vita. Questo lo sapeva a livello istintivo. Forse alcuni di quei ricordi erano traumi che nemmeno un drow avrebbe saputo gestire. Quindi fu con tutta la calma e la serenità di cui un drow è capace che S’lolath prese fra le dita la prima ciocca, slegò il nodo del minuscolo laccetto magico e cominciò a sciogliere la treccia.

I ricordi cominciarono a invadergli la mente, rimettendosi al loro posto come ordinati soldatini e colmando lacune e momenti di vuoto che S’lolath non si era nemmeno accorto di avere.
Xsa! Sono davvero bravo. Si complimentò da solo, notando com’era riuscito a ricostruire con cura dei collegamenti logici fasulli nella sua mente per coprire i buchi lasciati dai ricordi mancanti. Il mago era sempre stato ben consapevole che, nei momenti in cui non ricordava il suo passato, la sua stessa curiosità sarebbe stata la sua peggior nemica.
S’lolath passò in rassegna le prime memorie che aveva sbloccato, questioni di intrighi e il vero mandante di un vecchio omicidio. Considerò brevemente se fosse il caso di ri-sigillare questi ricordi più tardi: a qualcuno interessava ancora? C’era la possibilità che persone interessate venissero a fare domande? Due mesi prima l’ultima discendente della vittima era morta in uno sfortunato incidente. Improbabile che quella conoscenza meritasse il disturbo di essere nascosta di nuovo.
Il drow si strinse nelle spalle e passò a un’altra treccina. Districarla lentamente fece emergere nella sua memoria le immagini di una religiosa che agitava una frusta contro di lui. S’lolath ci mise un po’ di tempo a rendersi conto che si trattava di un ricordo della sua infanzia.
Ah, la cara mamma, pensò con una smorfia sarcastica. Insieme a quei ricordi resuscitò un fiotto di odio verso il culto di Lolth, come un rigurgito stantio che risale alla gola. S’lolath poteva quasi sentirne il sapore, reso ancora più acido dal fatto che fino a quel momento fosse stato soppresso, ingiustamente dimenticato.
No, queste memorie sono troppo pericolose, dovrò sigillarle di nuovo. Io sono un Vuoto, sono al di sopra delle parti. Non posso permettermi di provare odio o rancore verso una delle religioni di Eryndlyn.
Sono tutte ugualmente ridicole.
Che fastidio provare emozioni! Non sopporto il modo in cui influenzano le mie scelte.


Il drow sempre più corrucciato e infastidito continuò per un paio d’ore a recuperare i pezzi perduti della sua vita. Dopo il ricordo infantile su sua madre sbloccò alcuni altri traumi che non poteva permettersi il lusso di conservare vivi nella memoria, e che gli rivelarono che dopotutto era una persona un pochino diversa da chi pensava di essere. Ma non era nulla di davvero rilevante, finché…
Un sorriso dolce sul viso nero di una femmina.
S’lolath si interruppe nell’atto di svolgere una ciocca. Qualcosa in quel rapido flash gli aveva trasmesso una sensazione stranissima. Non era solo il ricordo di un’immagine, ma anche dell’emozione che aveva provato in quel momento.
Sicurezza.
L’elfo scuro non ricordava di aver mai provato niente di simile. Il calore, l’incredulità, la bellezza avvolgente di non sentirsi in pericolo, anche solo per un momento. Riprese a dipanare la treccia.
Il volto della drow diventò una figura intera, rivide le sue movenze sicure, il gesto automatico con cui si spostava i capelli dietro le orecchie mentre cucinava, il suo…
Il suo corpo nudo.
Il loro primo bacio. Il modo in cui lei aveva succhiato il suo labbro inferiore senza morderlo.
Le loro dita che si intrecciavano, lei che lo guardava negli occhi con nient’altro che abbandono.
Un momento dopo anche il suo nome riemerse dal mare dell’oblio: Krystel.

S’lolath rimase immobile a fissare il nulla per un lungo momento, travolto dall’intensità di quei ricordi e di tutto quello che portavano con sé.
L’attrazione verso una femmina, per una volta non sporcata dalla paura o dal desiderio di dominio.
La sensazione di avere un luogo a cui tornare, un rifugio in cui sarebbe stato accolto volentieri e senza domande. La sicurezza di avere qualcuno che lo avrebbe protetto, ma non per interesse, non per ragioni politiche. Qualcuno che lo avrebbe protetto come le leggende dicevano che facessero le madri delle razze inferiori che provavano amore.
Krystel però era tutt’altro che una madre per lui, se ne rese conto mentre accarezzava col pensiero i ricordi dei loro gloriosi amplessi.
Ricordò una drow ancora giovane, abbastanza inesperta, a cui lui aveva insegnato molte cose. Rammentò la sua intraprendenza nel voler sperimentare, con lui, su di lui, ma senza mai traccia di sadismo o di crudeltà. Una femmina venuta da un altro mondo, da un sogno, dall’impossibile.
Quando il fiume di reminescenze si esaurì, cercò al tatto la treccia più vicina con fretta febbrile. Sapeva che nel suo ordine mentale cercava di sistemare vicini i ricordi che riguardavano le stesse persone o situazioni. Voleva assolutamente ricordare altro di lei, aveva bisogno di dissetarsi ancora alla fonte di quelle memorie dorate.
Scartò con impazienza alcuni ricordi di sottoposti assassinati, emersi dallo sciogliere la treccia sbagliata. La volta successiva ebbe maggior fortuna.
Eccola. Di nuovo lei.
Krystel, la misteriosa drow che veniva dalla Superficie. Suo fratello Daren, il guerriero cupo e pericolosamente acuto, un degno figlio di Menzoberranzan. Il loro rapporto così strano, così unito, che all’inizio l’aveva spinto a ipotizzare che avessero relazioni incestuose perché altrimenti come si poteva spiegare il loro sodalizio? Una sorella e un fratello che si parlavano come pari?
Ricordò che il guerriero gli aveva più volte puntato contro la spada, minacciandolo di morte se avesse torto un capello alla sorella. S’lolath accantonò quei ricordi con uno sbuffo di derisione, e il suo sorriso divenne anche più ampio quando ricordò la faccia che aveva fatto quel drow quando la femmina aveva deciso di concedersi a lui.
Col tempo aveva capito che non avevano un rapporto incestuoso. Lei era troppo passionale, troppo onesta e trasparente per tenere nascosta una cosa del genere. Non era capace di dissimulare l’attrazione fisica e mentale che provava per S’lolath quando i loro sguardi si incrociavano. Quella sua sfacciata sincerità l’aveva colpito, in più di un modo. Ricordò come si era sentito… incredulo, lusingato che quei sentimenti fossero per lui, insultato che potesse esistere una drow noncurante come lei, ma alla fine tutto questo aveva smesso di essere una novità e quindi aveva smesso di avere importanza.
Krystel era semplicemente Krystel e lui aveva deciso di apprezzarla per la persona che era, di non paragonarla ad altre elfe scure. Non avrebbe avuto senso.

Il ricordo successivo era ancora su di lei e aveva il sapore del tempo da lungo trascorso, come le memorie precedenti. Questa volta c’era qualcun altro insieme a Krystel: un fagottino. Un fagottino con un nome.
Kore!
Il nome affiorò più velocemente di qualunque altro fino a quel momento.
Kore, la nostra bambina. Oh, vith, ho una figlia.
Una figlia per cui… provo dei sentimenti. Non ho neanche un
nome per questi sentimenti, ma…
Ma sapeva che non avrebbe dovuto provarli. Se aveva storto il naso davanti al ricordo dell’odio che provava per il culto di Lolth e per sua madre, ora era assolutamente terrorizzato davanti alla mollezza che si sentiva dentro quando pensava a sua figlia.
E la cosa peggiore era che questo sentimento alieno non era causato dal fatto che fosse sua, sicuramente gli era capitato di generare altri bambini di cui non sapeva nulla e di cui non gli importava. Era diverso per Kore, perché lei era anche figlia di Krystel, era figlia di quel mondo straordinario fatto di sorrisi accoglienti, legami familiari stabili e tisane calde che non erano mai avvelenate. Era stato curioso verso Kore, interessato a vedere come sarebbe diventata un giorno quella creaturina che era in parte sua e in parte di Krystel. Il fatto stesso che la drow avesse avuto la gentilezza - quella sua insensata, insopportabile gentilezza - di mostrargli la bambina e riconoscere la sua paternità era assolutamente straordinario.
S’lolath esitò, solo con i suoi pensieri e con quella paura che gli ghiacciava le vene, incapace di decidere cosa avrebbe dovuto farsene di questa conoscenza recuperata. Mettere tutto a tacere di nuovo, probabilmente. O forse…
Non posso decidere ancora. Ho altre trecce da sciogliere, altri ricordi da rivivere. Quando avrò un quadro completo, deciderò.

Nella mezz'ora seguente terminò il suo lavoro, senza più dare molta importanza ai ricordi della sua vita a Eryndlyn ma concentrandosi solo sulle scene di quando era evaso dalla città per recarsi nei cunicoli selvaggi del Buio Profondo, fino alla caverna invasa di funghi fosforescenti dove Krystel aveva stabilito la sua dimora temporanea. Lei non c’era sempre, scendeva nel sottosuolo solo nei mesi che in Superficie coincidevano con la stagione invernale, e nemmeno tutti gli anni. Ma quando c’era, lui cercava sempre di trovare delle scuse per andare a trovarla. Ricordò che dopo la nascita di Kore era scesa più spesso, anche su richiesta della ragazzina: sua figlia gli era molto affezionata, gli dèi sanno perché. S’lolath non credeva di meritarlo.
Forse Kore era incuriosita da lui. Le femmine lo erano spesso. Non pensava che sua figlia provasse un tipo di attrazione sbagliato verso di lui, ma era un semplice dato di fatto: le femmine erano incuriosite dal suo atteggiamento neutro, compassato, mai rabbioso. Nella società drow era una specie di rarità. Ma Kore non conosceva la società drow, quindi questa non era una spiegazione adeguata. Forse la ragazza voleva passare del tempo con lui semplicemente perché era sua figlia, un concetto alieno per S’lolath ma che col tempo aveva dovuto iniziare a considerare.
Dopo Kore era arrivata un’altra bambina. Se non avesse conosciuto il primogenito di Krystel, il mago sarebbe stato tentato di credere che lei sapesse fare solo figlie femmine. Qualunque altra drow l’avrebbe considerata una benedizione, ma a Krystel non sembrava importasse. Amava il suo figlio maschio tanto quanto amava Kore e la piccola Amber, S’lolath ci aveva messo molto tempo a capire che non era solo una messinscena a suo beneficio.

Uno dei ricordi recuperati mostrava il suo ultimo incontro con Kore, quando la sua figlia maggiore era scesa fin nell’oscura città di Eryndlyn per dirgli addio, per informarlo che stava partendo per un lungo viaggio e che forse non sarebbe tornata. Quel giorno S’lolath non era in possesso dei suoi ricordi, quindi per il mago era stato come incontrare una drow sconosciuta e atipicamente loquace. Non aveva capito perché la ragazza gli avesse rivelato i suoi piani con un tono da chiacchiera colloquiale, finché non aveva recuperato la memoria - una delle tante volte in cui aveva dovuto ripetere il rituale negli anni - e aveva finalmente realizzato che quella era sua figlia, che gli aveva detto addio e che lui non aveva potuto capire né rispondere. Quando lo aveva compreso si era sentito defraudato, derubato, e per la prima volta aveva provato una stretta di rimpianto. Per un istante aveva rimesso in discussione tutte le sue scelte di vita, la sua carriera nei Vuoti, la sua posizione a Eryndlyn che lo costringeva a vivere nella paranoia. Poi aveva allontanato quei dubbi con una metaforica scrollata di spalle: era un tipo troppo pragmatico, troppo ambizioso, per mettere da parte la sua vita solo in virtù della sua…
Famiglia.
Il pensiero lo colse di sorpresa. Quella era la sua famiglia, e la parola in qualche modo non aveva la stessa accezione costrittiva che aveva quando ripensava alla sua Casata di nascita.
S’lolath ricordò la sensazione di perdita quando aveva capito che Kore se n’era andata senza che lui potesse salutarla, quella creatura incredibile che era sua figlia, una figlia femmina che gli voleva bene. E Amber non era forse uguale? L’ultima volta che aveva visto Amber era una bambina di otto anni. Sì, quell’ultima volta era stato quando…
Quando aveva aiutato un giovane nobile a fuggire dalla sua Casata.
Anche quel ricordo andò al suo posto, facendogli rammentare come mai avesse deciso di interrompere i contatti con Krystel. Aveva aiutato il piccolo Tek’ryn Daevossz a lasciare la città. Anche Tek’ryn era suo figlio, nato dall’unione occasionale e anaffettiva con una Matrona fedele a Lolth. S’lolath si chiese casualmente quanti altri figli come quello avesse generato, nei secoli.
No, non come Tek’ryn. Lui era diverso. Lui sapeva. Non so come, ma lui sapeva.

Il bambino sapeva che il mondo intorno a lui era corrotto e malvagio e che avrebbe portato sicuramente alla sua rovina. Era una cosa di cui anche S’lolath era ben consapevole, ma il mago non aveva problemi con la crudeltà. Era un ottimo giocatore al gioco del potere e non intendeva rinunciarvi. Era cresciuto nella cultura drow e l’accettava, capiva di non essere più in grado di cambiare e reinventarsi altrove. Ma per Tek’ryn era diverso. Suo figlio aveva ereditato i suoi poteri psionici, quelli che lui si sforzava in tutti i modi di sopprimere. I suoi inutili poteri passivi che, lasciati liberi, lo avrebbero subissato di informazioni sulle emozioni e le intenzioni altrui.
Non c’era bisogno di niente del genere a Eryndlyn, era sufficiente sapere che ogni persona ti era nemica, provava odio o rabbia o invidia e avrebbe cercato di ucciderti per farti le scarpe. Non occorreva essere psionici per capire questo. I suoi poteri erano superflui e aveva trasmesso quel difetto ereditario a Tek’ryn. Tek’ryn che era un veggente, e reinterpretava questi stimoli attraverso la Vista. Non sentiva direttamente le emozioni altrui ma le vedeva, per lui la città era popolata di predatori dall’aspetto mostruoso.
S’lolath aveva fatto un rapido prospetto mentale e aveva capito che Tek’ryn non sarebbe mai arrivato all’età adulta. E forse fu colpa del fatto che in quei giorni stesse frequentando Krystel e avesse parte dei suoi ricordi intatti, ma quando il bambino gli chiese aiuto lui cedette al suo cuore ammorbidito e sentì un moto di affinità verso di lui. Tek’ryn era così simile a lui: intelligente, ribelle, capace di pensare fuori dagli schemi. Ma a differenza sua non riusciva a controllare il suo potere, e S’lolath capì che il bambino andava salvato o sarebbe morto. Davanti a quel suo figliolo impotente aveva ricordato che lui stesso, da ragazzino - solo per un brevissimo arco di anni nella sua prima infanzia - aveva fantasticato che qualcuno lo salvasse da sua madre. Quindi aveva fatto l’unica cosa che potesse fare: lo aveva portato da Krystel.
Krystel era una madre nell’anima e non aveva esitato nemmeno un momento davanti a quel pulcino che chiedeva aiuto. Non aveva fatto nessuna domanda perché lei non ne faceva mai. Gli aveva solo detto quello che aveva già detto anche a S’lolath, ma mai in modo esplicito, perché non ce n’era bisogno: benvenuto in famiglia.

Quella era stata l’ultima volta in cui aveva visto la sua amante e i suoi figli. Erano passati trentatré anni.
Il drow ricordò tutto questo e ricordò anche le ultime venti, trenta volte in cui aveva recuperato le sue memorie e ne era stato scioccato come lo era in quel momento.
Si sentiva come se si fosse riunito a una parte di sé che non ricordava di possedere o di essere, e solo ora fosse di nuovo completo.
Chi era questa persona su cui non aveva nessun controllo? Era davvero lui? Chi era questo drow capace di sentimenti per cui non aveva nemmeno un nome? Quando aveva abbassato così tanto la guardia?, come aveva potuto abbassare la guardia?, tradire se stesso come un debole co’nbluth, un non-drow?
La realizzazione di essere una persona diversa da chi credeva di essere lo stava inchiodando a terra e minacciava di fargli sorgere un attacco di panico. Se S’lolath non poteva fidarsi di se stesso, di chi mai poteva fidarsi?
Gettò un fugace sguardo in giro per la stanza, come se avesse bisogno di ricostruire l’ambiente intorno per capire dove fosse, accertarsi di essere ancora nella sua stanza a Eryndlyn e quindi riconfermare di essere ancora S’lolath il mago. I suoi occhi accarezzarono lo scenario familiare e confortante della sua libreria, la sua scrivania di legno di fungo, il suo letto comodo dallo schienale alto che usava per fare la reverie, mai sdraiato perché riusciva sempre a riempire il materasso di libri mezzi letti. Le mappe appese alle pareti, che tracciavano la via per gallerie nascoste dove reperire componenti magiche. Il terrario con il suo scorpione demoniaco.
Il terrario.
S’lolath vi soffermò lo sguardo a lungo, come se gli sfuggisse qualcosa. Poi capì. La realizzazione lo colpì con la forza di uno schiaffo.
Il terrario!
Si alzò di scatto e corse a leggere la pergamena appesa al vetro, anche se la sua perfetta vista elfica gli avrebbe permesso di leggerlo anche da lontano. Voleva toccare la pergamena, assicurarsi che non recasse qualche indizio nascosto.

Nessun indizio nascosto, tranne i diversi strati di significato del messaggio stesso, che solo ora riusciva a interpretare nella sua interezza: Yugho ti serve, non ucciderlo. Fidati del tuo giudizio.

Il mago fu attraversato da un tremito, una sensazione strana e inaspettata. Capì che era il desiderio di ridere.
Non era pazzo! Poteva ancora fidarsi di se stesso!
Oh, era così chiaro adesso il motivo per cui aveva voluto tenere quell’odioso aracnide, quell’assassino incontrollabile. Era chiaro tanto quanto il motivo per cui avesse donato ad Amber un anello magico comunicante con il suo, che gli permetteva di trasmetterle piccoli oggetti con la magia. Era un piccolo Portale delle dimensioni di un piatto, abbastanza grande per far passare gioiellini e piccoli libri e… magari uno scorpione non più grande di un pugno.
Sarebbe bastato infilare l’anello magico nella gabbia di Yugho e quel suo enorme punto debole, quel segreto terribile che paralizzava la sua vita, si sarebbe spento come la fragile fiamma di una candela. Lo scorpione avrebbe ucciso qualunque forma di vita gli capitasse a tiro. Poi S’lolath avrebbe sigillato in una treccia i ricordi che riguardavano la sua famiglia e avrebbe tagliato la ciocca alla radice, rimuovendoli per sempre dalla sua vita. Via, come se quelle scomode presenze non fossero mai esistite.
Sarebbe bastato un gesto e addio Amber, addio Tek’ryn, addio Krystel, addio segreti che pendevano sul suo capo come una spada di Damocle. Sarebbe tornato a essere quello che era sempre stato, prima di…
Prima del sorriso di una drow che lo guardava senza malizia.
Prima degli abbracci delle sue bambine che accoglievano ogni sua visita con quella gioia incomprensibile.
Prima degli occhi limpidi di Amber, azzurri come i suoi, che lo pregavano di non lasciarla al loro ultimo incontro.
Prima di Kore che rischiava la vita attraversando da sola il Buio Profondo solo per venire a dirgli addio.

S’lolath si appoggiò pesantemente alla teca di Yugho, incrociando le braccia e affondandoci dentro la testa. Era una manifestazione di emozioni che di solito non si concedeva, nemmeno nella solitudine della sua stanza, ma in quel momento non era certo di sapere più chi fosse o cosa fosse giusto fare. Lo scorpione spinse il pungiglione avvelenato contro il vetro, cercando di pungerlo. Era una bestia troppo stupida per capire che c’era un vetro di mezzo.
Mia figlia dovrebbe morire a causa di un animale così idiota? Si rimproverò, con un moto di fastidio.
Amber era una ragazza intelligente, ma era ingenua e fiduciosa. Sicuramente aveva lasciato il suo anello-portale in bella vista, non chiuso in una scatola, perché non si aspettava un tradimento da suo padre. Quindi , sarebbe potuta morire a causa di una creatura idiota come Yugho. Lo scorpione era un predatore letale, S’lolath l’aveva scelto per questo, quindi perché si era sentito così insultato all’idea che Yugho uccidesse sua figlia con facilità? Se non era un moto di orgoglio per l’intelligenza della sua prole, allora cos’era?
Dopo averci pensato a lungo, il mago dovette riconoscere che l’unica spiegazione logica era anche la più odiosa: non tollerava il pensiero che sua figlia morisse. Perché era sua. Perché era sua in modo totale e bilaterale, perché lei riconosceva di essere sua figlia, come Kore prima di lei. E S’lolath, in un qualche modo imperfetto e incompleto, la amava per questo.
Era sciocco e molto poco drow anteporre questo sentimento aleatorio alla logica della sopravvivenza. La cosa più sensata sarebbe stata liberarsi di Amber, Krystel e Tek’ryn proprio perché provava sentimenti inadeguati verso di loro. Attaccamento, affetto, e quel che è peggio, empatia. Aveva provato empatia per Tek’ryn pur senza stabilire con lui un legame affettivo duraturo e questo era ancora più insensato di quello che provava per la sua amante e le sue figlie perché almeno loro gli avevano dato in cambio qualcosa. Con Tek’ryn, S’lolath aveva agito per mera empatia senza averne alcun tornaconto rilevante.
Che diavolo mi è successo? Chi sono io?

Rimase tutta la sera e parte della notte a fissare la teca di Yugho e il biglietto che un se stesso del passato aveva scritto: fidati del tuo giudizio.
Alla fine prese la sua decisione: dimenticare temporaneamente la sua famiglia sarebbe stato abbastanza. Aveva funzionato finora, non c’era motivo per cui non potesse continuare a funzionare.
Era un rischio? Certo, ma tutta la sua vita era un rischio. Ancora una volta, Amber avrebbe ricevuto un regalino attraverso i loro anelli comunicanti, non una condanna a morte.
Mentre S’lolath infilava un bracciale d’argento nell’anello-portale, vedendolo sparire per magia, considerò seriamente di cancellare del tutto i ricordi della sua famiglia e dei suoi sentimenti molli. Sarebbe bastato sigillare le memorie e poi reciderle. Un taglio netto e poi avrebbe distrutto gli anelli comunicanti, avrebbe infilzato Yugho su uno spiedo e lo avrebbe venduto a un cuoco yuan-ti. Via! Mai più dilemmi etici. Mai più debolezze.
Eppure, prima di iniziare il lungo processo che avrebbe nuovamente rinchiuso i suoi ricordi in un angolo inaccessibile, decise di non fare niente del genere.
Alla fine aveva capito perché stava ospitando quell’inutile aracnide da decenni, la chiave di tutto era il messaggio: Yugho ti serve, ripeté nella sua mente, fidati del tuo giudizio. Si rigirò quelle parole mille volte, come per studiarne ogni angolazione. Non è solo un messaggio per me quando sono senza ricordi. È soprattutto un messaggio per me quando recupero i ricordi. Yugho mi serve per poter scegliere. Mi serve per ricordarmi ogni volta chi sono. In fondo io sono tutto questo. Sono il pragmatico luogotenente dei Vuoti e sono anche il padre che ama la sua famiglia. Ho bisogno di confermare questa scelta ogni volta che mi si presenta. Mi serve… per rimanere in equilibrio, per costringermi a confrontarmi con… fece una smorfia, incapace di trattenersi del tutto. Con i miei sentimenti.
S’lolath ricominciò a intrecciare i suoi capelli, nascondendo le sue memorie con cura maniacale. Non si pose il problema che un giorno sua figlia potesse essere in pericolo perché lui aveva scelto di lasciare tutto come stava, di lasciarsi aperta ogni opzione di scelta. In passato aveva sempre scelto di risparmiarla, e ora non aveva dubbi che avrebbe continuato a farlo.
   
 
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