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Autore: ChiiCat92    03/05/2020    0 recensioni
Il dolore percorse i nervi, dalla schiena alle braccia fino alla punta delle dita, come un colpo di frusta o lo scoppiare di un fulmine.
Provò a muoversi ma il corpo era appesantito da quel dolore. Gli straziava le carni, rollante come l’andare e il venire della marea.
« Sta’ giù. »
A sentire la voce sollevò la testa, di scatto, e la nausea gli strinse lo stomaco in una morsa.
Nel campo visivo pieno di nebbia ai bordi apparve un viso gentile, occhi blu, labbra di velluto, capelli come fiamma scura.
« Sei ferito, non devi muoverti. » [...]
Genere: Dark, Mistero, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Genesis Rhapsodos, Sephiroth
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun gioco
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03/05/2020

 

Winged


Il dolore percorse i nervi, dalla schiena alle braccia fino alla punta delle dita, come un colpo di frusta o lo scoppiare di un fulmine.

Provò a muoversi ma il corpo era appesantito da quel dolore. Gli straziava le carni, rollante come l’andare e il venire della marea. 

« Sta’ giù. » 

A sentire la voce sollevò la testa, di scatto, e la nausea gli strinse lo stomaco in una morsa. 

Nel campo visivo pieno di nebbia ai bordi apparve un viso gentile, occhi blu, labbra di velluto, capelli come fiamma scura. 

« Sei ferito, non devi muoverti. » 

Il suo sguardo schizzò sulla mano del ragazzo, un sibilo di avvertimento lasciò le sue labbra e lui, percepito il pericolo, si ritrasse prima di toccarlo.

« D’accordo. » gli disse, sollevando entrambe le mani perché lui le vedesse. « Non ti tocco. Però hai veramente bisogno di sdraiarti, puoi farlo? » 

Lui si guardò intorno, con più lentezza, in modo che la testa non gli mandasse stilettate di ghiaccio dietro gli occhi e la nausea allentasse la sua presa su di lui. 

Le lenzuola del letto su cui si trovava erano macchiate di sangue, stropicciate come dopo una battaglia, piume nere erano sparse ovunque. 

Avvertì tutti i peli del corpo rizzarsi per l’orrore. 

Provò a spalancare le ali ma il dolore lo strappò al mondo reale, gettandolo in un oblio di silenzio e buio. 


L’odore del cibo gli rivoltò lo stomaco a tal punto che credette di vomitare le viscere. 

Riuscì a rizzarsi su a sedere, trascinandosi sul bordo del letto, le mani avvinghiate alle coperte.

La nausea rese il risveglio un pantano di nauseabondi pensieri da cui riuscì a districarsi a stento. 

Il dolore era ancora martellante, ma in qualche modo più...sopportabile. 

Era ancora nella stessa stanza, tra le lenzuola sporche di sangue. Le imposte socchiuse lasciavano entrare vaghi fasci di luce calda, il pavimento era cosparso di piume nere. 

Ebbe il coraggio di voltare la testa per controllarsi. 

Al posto dell’ala destra aveva un moncherino spezzato, avvolto da bende rosso vinaccia dove il sangue andava coagulandosi. 

Tum tum tum tum, il cuore del dolore pulsava nell’appendice mozzata, dove nervi e legamenti gli erano stati portati via. 

Cautamente, i denti stretti per trattenere la rabbia, mosse l’ala sinistra. I muscoli tirarono, pieni di acido lattico, i tendini si tesero come fossero rattrappiti: dolorante ma sana. 

Quel maledetto Soldato… 

Si volse di scatto quando la porta della stanza si aprì.

Il ragazzo con gli occhi blu portava tra le mani un vassoio, l’odore di cibo che l’aveva svegliato proveniva dalle pietanze che aveva cucinato. 

Si ritrovò a storcere il naso per la nausea mentre lui si esibiva in un caldo sorriso.

« Sei già sveglio? Come ti senti? » poggiò il vassoio sul comodino e andò alla finestra per aprire le imposte.

Il sole, prima titubante, entrò nella stanza con prepotenza, soffermandosi con stupore sulle forme aliene della creatura tesa sul letto. 

Capelli d’argento sottili cadevano come una cascata sulla schiena della creatura, sembravano coprire con discretezza il moncherino dell’ala mozzata; la pelle era bianca come marmo levigato, tanto che il sole sembrava farla risplendere, come succede alle statue nelle Cattedrali; ma gli occhi, verdi chartreuse, catturavano le particelle stesse della materia, rendendo impossibile qualsiasi tentativo di smettere di guardarli. Buchi neri di orrenda, dolce intensità erano quegli occhi. 

« Hai fame? » il ragazzo indicò il vassoio alla creatura.

Cosa mangiano gli Angeli? 

Forse non aveva neanche bisogno di mangiare. 

Le pupille sottili, verticali, fremettero per un attimo, poi le palpebre dalle lunghe ciglia si chiusero e la creatura sospirò. 

« Chi sei tu? Dove mi trovo? » 

La sua voce scivolava verso profondità sconosciute e il ragazzo si sentì rimescolare dall’interno. 

« Mi chiamo Genesis. » si presentò, mormorando quel nome come se non fosse alla sua altezza. « Ti ho trovato svenuto in un vicolo e ti ho portato a casa mia. Eri ferito, ho fatto del mio meglio per curarti. » gli occhi dell’Angelo si poggiarono frementi sul moncherino straziato della sua ala, un movimento che a Genesis non sfuggì. « Chi...ti ha fatto questo? » 

L’Angelo emise come un ringhio, un verso frustrato e caldo come le fiamme dell’Inferno. 

Tentò di alzarsi, ma un capogiro lo fece quasi cadere. Genesis fu più che pronto a sorreggerlo.

Le mani dell’umano erano calde e sporche e l’Angelo sentì la rabbia bruciargli il cuore. 

Non era mai stato così debole. Suo malgrado aveva bisogno di Genesis per riprendersi. 

Si lasciò andare tra le sue braccia, la testa comodamente poggiata nell’incavo del suo collo. Avvertì il respiro dell’umano farsi più pesante, la carotide prese a pulsare, il suono meraviglioso della vita che scorre. 

« Sephiroth. » mormorò l’Angelo, più morbido e gentile di quanto non fosse stato fin adesso. Genesis tremò al solo sentire la sua voce. « Ti ringrazio per avermi salvato. »  

Prima che l’umano potesse dire qualcosa lui si ritrasse. Muoversi troppo gli faceva male, non era in condizioni di badare a se stesso. Finse un sorriso mentre sceglieva dal vassoio che gli aveva portato della frutta fresca da mangiare in piccoli bocconi.

« Nessun problema. » rispose Genesis. Il modo in cui si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, vulnerabile, strinse qualcosa dentro l’Angelo. « Credo che...chiunque l’avrebbe fatto, no? » 

No, nessuno l’avrebbe fatto, nessuno che sapesse l’avrebbe fatto.

Sephiroth piegò di lato la testa, studiandolo. 

Per lui era un angelo, aveva gli occhi pieni di meraviglia. 

« Per quanto tempo sono rimasto svenuto? » 

« Un paio di giorni. » rispose subito, ingenuamente convinto che quella conversazione avesse come centro lui, che Sephiroth fosse sorpreso e deliziato dalle sue parole. « La ferita si è rimarginata in fretta. Non avevo mai visto nessuno guarire così. » 

L’Angelo sorrise di nuovo. Per quanto le sue belle labbra si tendessero verso l’alto non c’era alcuna luce nei suoi occhi. 

« Siamo molto lontani dal posto dove mi hai trovato? » 

« Un paio di isolati. » 

Quindi quello sporco Soldato l’avrebbe trovato presto. Non gli rimaneva molto tempo. 

Sporse una mano verso di lui, dita affusolate e fredde che cercarono il calore dell’umano come se da questo dipendesse la sua sopravvivenza. 

Tutto di lui pulsava di vita, caotica, bellissima vita, e se voleva uccidere il Soldato e vendicarsi ne aveva bisogno.

Genesis schiuse le labbra per parlare un’ultima volta, ma l’Angelo fu rapido a rubargli la voce con un bacio.

Il veleno di cui era cosparso punse e anestetizzò la sua pelle. A malapena Genesis si accorse dei denti che affondavano nel suo collo, del sangue che sprizzava trascinandolo verso l’oscurità. 

A malapena si accorse di stare morendo.

L’istinto di sopravvivenza lo fece agitare debolmente, ma ormai era più morto che vivo, accasciato tra le braccia di Sephiroth. 

L’ultima cosa che vide furono quegli occhi, ammorbanti come una terribile piaga, pericolosi e taglienti, lame di verde ghiaccio. Non erano gli occhi di un Angelo. 

Genesis morì senza riuscire a esprimere il suo dissenso, le sue proteste di ingiustizia. Lo aveva salvato da morte certa, l’aveva curato, aveva creduto. Non era giusto morire così, ma non ebbe il tempo di pensarlo. 

Sephiroth bevve con avidità il suo sangue, ne sentì i caldi benefici. Non c’era niente di meglio di qualcosa di vivo per tornare a vivere.

Il dolore al moncherino si acquietò, trasformandosi in ira consapevole, l’ala sinistra si dischiuse in tutta la sua lunghezza, forte. 

Adagiò il corpo vuoto del ragazzo sul letto, lo sistemò con la dignità che un predatore senz’anima non avrebbe riservato alla sua preda. 

Gli prese il volto tra le mani, gentile.

« Grazie anche per il pasto. » disse, con quella voce calda e corroborante, uno stillicidio di bassi profondi. 

Gli baciò la fronte lasciando un’impronta di labbra insanguinate. La vita dell’umano scorreva forte dentro di lui, rianimava le vene, accendeva le fornaci della sua forza. 

Adesso era in grado di vendicarsi del Soldato che l’aveva mutilato. L’avrebbe fatto a pezzi e avrebbe festeggiato con le sue interiora. 

Il sorriso sulle sue labbra era adesso sereno e luminoso, quello di un meraviglioso Angelo Nero. 

 
   
 
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