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Autore: Usamljeni Vuk    04/05/2020    0 recensioni
[H.P.Lovecraft]
Racconto horrr lovecraftiano ambientato nella mia città.
E' un racconto che ho scritto per un concorso letterario dove si doveva creare una storia ambientata in Italia utilizzando gli Dei, i mostri e i miti della mitologia di Lovecraft.
Genere: Horror, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU | Avvertimenti: Violenza
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I SEGUGI DELLA PUTTANA

 

I.

 

La follia è un ipergeometrico asse organizzativo dove solo chi ambisce alla freddezza emotiva delle proprie emozioni primarie fatte di paura e terrifica paranoia riesce a non soccombere ad essa.

Così avevo letto tempo addietro, quando frequentavo ancora il liceo, su un libro del quale non ricordo né titolo ne autore. E ora, questa frase, ad un primo impatto così priva di significato logico e semantico, rispecchia esattamente la situazione e lo stato d’animo che sto vivendo in questo preciso momento.

Quello che vi sto per raccontare, cari lettori, è la storia del mio destino ormai segnato per sempre da questi immondi esseri che mi stanno dando la caccia; solo con l’unica colpa di aver ridestato il loro lungo ed eterno sonno.

Dormienti da lunghi eoni in remote curve del tempo dell’immenso spazio siderale; si sono risvegliati per dare la caccia a quegli esseri umani che hanno avuto la sfortuna di evocarli, per errore o per un perverso desiderio personale di egoistico potere, dai loro nascondigli situati ai confini più reconditi dell’universo a noi ancora sconosciuto.

Non so ancora quanto tempo avrò a disposizione prima che l’insana e alienante pazzia si impossessi della mia mente e mi faccia perdere completamente il lume della ragione.

Rinchiuso in questa stanza ovale che sembra essere un rifugio sicuro contro queste presenze blasfeme, scrivo queste righe che raccontano la mia sfortunata ed imminente fine; sperando che quelle persone che troveranno il mio cadavere (lettore, la mia morte ormai è vicina) presteranno attenzione a non fare anche loro la mia stessa infame fine e, magari un giorno, riusciranno a trovare un modo efficace e sicuro per ricacciare questi esseri nella profondità dell’abisso dai quali sono venuti.

Tutto è cominciato circa un secolo fa; nella residenza reale del secondo sovrano del nostro paese, il re Umberto I, noto anche come il “re buono”; nelle segrete di questo palazzo sono state evocate oscene e malefiche creature provenienti dalle profondità più oscure e acherontiche dell’inferno.

Ma non di un inferno giudaico - cristiano come lo conosciamo noi; piuttosto di un’ Ade siderale dove lo spazio e il tempo si piegano fino a fondersi tra loro per poi cessare di esistere, dove le leggi della fisica non appartengono alla stessa logica di quelle che dovrebbero seguire sul nostro pianeta, dove antiche ed empie divinità popolano imperturbate le profondità più remote ed inaccessibili di tutto lo spazio cosmico; per poi risvegliarsi di tanto in tanto dal loro sonno profondo per seminare morte e distruzione sui quei mondi con i quali decidono di venire in contatto.

Ma lasciate che vi racconti, nero su bianco, su questo malfunzionante tablet che sono riuscito a tenere stresso durante la mia rocambolesca fuga da questi ripugnanti e famelici esseri affamati di anime umane; lasciate che vi racconti tutti i segreti che sui libri di scienze occulte non sono mai stati scritti; lasciate che racconti gli ultimi momenti prima della perdita della mia lucidità mentale e della probabile ed inesorabile devastazione che il nostro mondo sta per andare incontro.

Che qualcuno li fermi prima che diventino una pericolosa minaccia per tutti noi!

Che qualcuno distrugga per sempre questa eretica reliquia che questi aberranti esseri bramano e cercano di proteggere a tutti i costi!

Che un’anima pia mi salvi da questa atroce sorte dalla quale non posso sottrarmi!

Avevo sempre creduto che solo noi stessi fossimo gli artefici e i padroni del nostro destino; ma, a quanto pare, mi sbagliavo clamorosamente...

 

II.

 

Monza, Marzo 2012

Tutto era incominciato quando avevo deciso di partecipare ad un bando di concorso indetto da un discretamente famoso architetto; la quale ricercava degli esperti di esplorazione urbana e di fotografia architettonica e, inoltre, con la passione della storia locale e con competenze in simbologia e scienza occulta.

Non erano necessari titoli di studio quale una laurea o un master; bastava dimostrare di essere un fotografo semiprofessionista e un Urbex esperto e iscritto a qualche associazione del settore; fornendo un portfolio fotografico che dimostrava queste competenze e, dopo aver partecipato ad un colloquio orale dove si doveva rispondere a certe domande inerenti al misticismo e alla storia locale monzese e brianzola, si poteva avere l’opportunità di venire selezionati o scartati.

Avevo deciso di partecipare perché il bando corrispondeva esattamente al mio profilo e ai miei interessi personali; nonché perché mi dava l’opportunità di guadagnare qualcosa di più rispetto al mio lavoro di fotografo freelance per le agenzie immobiliari, attraverso le mie passioni preferite e, anche perché grazie a questo compito potevo avere un trampolino di lancio per entrare nel mondo dell’esplorazione urbana professionale.

Tornando a noi; questo bando l’avevo trovato per caso, se non fosse stato per il mio migliore amico il quale me l’aveva segnalato non l’avrei mai trovato e, di conseguenza, non mi sarei mai potuto candidare.

Non mi aspettavo di essere preso in considerazione, visto che pensavo che in giro ci fosse gente più in gamba e specializzata di me; ma, fortunatamente, mi sbagliavo.

Infatti, qualche settimana dopo la mia iscrizione, ero stato contattato da un certo Jamal Mansur; un uomo che si era presentato come il segretario personale dell’architetto Alila Bolognini – Litta.

Questo personaggio dalla voce cavernosa e con un forte accento straniero africaneggiante, mi aveva comunicato che ero stato selezionato per un colloquio professionale presso l’ufficio monzese della signorina Litta. Dovevo recarmi presso il suo studio il giorno 22 Maggio e portare con me un curriculum vitae e una cartella contenente il mio portfolio fotografico cartaceo.

La conversazione che avevo avuto al telefono con il segretario personale dell’architetto era chiara; finalmente avevo ricevuto l’incarico tanto agognato come quello di esplorare e mappare le stanze dell’antica magione reale situata nella mia città.

Alle dieci del mattino della data che mi era stata comunicata dovevo recarmi presso l’ufficio dell’architetto Alila per avere un incontro conoscitivo e lavorativo con lei.

Dovevo essere puntuale e preparato, non potevo farmi scappare un’occasione così tanto agognata. Erano anni che aspettavo un lavoro come questo; ben retribuito e con la possibilità di inserirlo nel mio curriculum lavorativo.

Purtroppo nel nostro paese l’Urbex è ancora visto come un passatempo praticato da ragazzini annoiati e perdigiorno; e non come una vera e propria professione come può essere quella dell’ingegnere o del semplice operaio.

Noi Urbex dobbiamo avere una preparazione sia teorica che pratica nei campi più disparati della scienza tecnica e delle materie umanistiche; come quella dell’urbanistica, della speleologia, dell’architettura, della fotografia, della cartografia e spesso anche della storia.

Dietro all’esplorazione di un edificio abbandonato, di una fabbrica in disuso o di un sotterraneo dimenticato c’è uno studio storico, architettonico e cartografico proprio della determinata costruzione antropica che si vuole andare ad esplorare. La gente comune non lo capisce e non lo capirà mai; i comuni mortali pensano che sia solo un semplice hobby come può essere quello della pesca o come andare a giocare a calcetto con gli amici il sabato sera.

Ad ogni modo, finalmente ero felice di aver ricevuto la possibilità di poter partecipare ad un colloquio di lavoro con un famoso architetto come la signorina Bolognini - Litta.

Non stavo più nelle palle!

In camera mia stavo già preparando tutto il materiale necessario da portare all’incontro e avevo iniziato ad informarmi di più su questa reggia reale, sui suoi giardini, sul suo parco e sulla dinastia che l’aveva abitata prima di cadere nel lento ed inesorabile baratro dell’abbandono.

 

III.

 

Monza, 22 Maggio 2012

Ed ecco arrivato al gran giorno del colloquio fissato con l’architetto incaricato del restauro della Villa Reale della mia città.

Quel giorno mi ero svegliato presto, praticamente all’alba. Cosa inusuale per me visto che sono da sempre un animale notturno e ho la sindrome da sonno posticipato, la quale non mi permette di avere un adeguato sonno ristoratore.

Purtroppo ne soffro da un sacco di tempo e non ho mai voluto farmi vedere da uno specialista per risolvere questo problema.

In ogni caso era meglio così che fossi riuscito a svegliarmi di buon ora, prima del solito; non potevo farmi scappare questa opportunità così importante per me e per il mio futuro.

Avevo deciso di recarmi presso l’ufficio della Litta a piedi, di modo che potessi respirare a pieni polmoni l’aria fresca del mattino di una giornata primaverile come questa.

Mi rinvigoriva il corpo e mi regalava un senso di pacatezza e serenità che aiutava a concentrarmi su quello che stavo andando a fare, a schiarirmi le idee e a calmare la mia ansia che mi attanagliava come una morsa ogni qualvolta dovevo adempiere ad un compito diverso dalla mia sicura quotidianità.

Non abitavo tanto lontano rispetto al posto dove dovevo recarmi; per cui potevo prendermela con comodo a passeggiare per le strade della mia città; come non lo facevo da molto tempo a questa parte.

Percorsi le strade del mio paese di buon passo; attraversando le viette che tagliavano di netto i campi agricoli che dividevano il mio quartiere dal resto dell’agglomerato urbano.

La pista ciclabile che costeggiava il canale che tagliava in due l’urbe era pressoché deserta; solo qualche mattiniero sportivo che faceva jogging e qualche ragazzino con la faccia ancora assonata che si recava a scuola erano i miei unici compagni di viaggio, i miei accompagnatori sconosciuti.

Le strade non erano ancora molto trafficate; si vedeva solo qualche persona ferma sul ciglio della carreggiata ad aspettare l’autobus per recarsi al lavoro e qualche automobilista che sfrecciava ancora assonnato senza rispettare i limiti di velocità o la segnaletica stradale.

Appena arrivato in vicinanza del centro storico, ecco che le strade si facevano sempre più ghermite di gente.

Orde di ragazzini scendevano di corsa dai mezzi pubblici, urlanti come gabbiani sgozzati e rumorosi come un branco di bisonti impazziti.

Sulla strada che costeggiava la stazione, tribù di lavoratori scendevano dai treni per recarsi in ufficio. Sulla piazzetta davanti ad essa, il solito branco di tossicomani, barboni e zingari accampati come clan di nomadi berberi o sfollati curdi che infastidivano tutte le persone che avevano la sfortuna di passarli accanto.

Il sole aveva iniziata a scaldare le vie di questa malarica ed antica urbe; facendo alzare il solito lezzo di piscio misto a merda, misto a vomito, misto a smog e misto a fumaccio di infima qualità, di quella entrata nel nostro paese nel culo di altre persone.

Risalendo il tratto di strada che costeggiava la ferrovia, appena entrato nel centro storico di questa città, dove c’è la fontana dove si radunavano i soliti tossicomani disadattati; come Asterix, soprannominato così per via dei suoi lunghi capelli tenuti intrecciati come un antico gallo e per i suoi spessi baffi alla Von Bismarck, percorsi la via centrale che portava verso L’Arengario, l’antica costruzione che nel medioevo aveva la funzione di palazzo comunale. All’altezza della chiesa dove si trova il convento delle suore dell’Immacolata, presi la stradina alla mia destra; quella che portava verso il fiume. Raggiunto lo spalto che costeggiava il corso d’acqua fino ad arrivare all’alzaia dove scorre il Lambretto, ecco che faceva capolino dal suo rifugio fatto di coperte contaminate da pidocchi e scatoloni rubati dai rifiuti del mercato, il “Corea”; il famoso clochard del mio paese; così chiamato perché, secondo i suoi infondati racconti, aveva partecipato alla guerra di Corea. Ma, visto la sua giovane età, non poteva aver partecipato nemmeno alla guerra dei Balcani. I suoi racconti erano chiaramente delle fandonie inventate per autocommiserarsi. Il suo corpo macchiato dalla dura vita da strada, dalla droga e dalla malattia, emanava il solito odore di piscio misto ad alcolici scadenti di quarta categoria; percepibile anche da una notevole distanza.

Veramente bello il paese dove sono nato e dove, purtroppo, vivo ancora.

Una vera città di merda! Tossici, balordi, clochard, casi umani nevrotici, ridicoli hipster che si credono alla moda, immigrati senza una fissa dimora, il tutto condito da quel tanfo di aria inquinata che si sentiva soprattutto nelle ore più calde, immondizia abbandonata da tutte le parti, e il nostro magnifico fiume; considerato uno tra i corsi d’acqua più inquinati d’Europa.

Quando ero ragazzino, io e i miei amici dell’epoca, avevamo soprannominato il fiume della nostra città il “Gange della Brianza”; da quanto era inquinato e dal fetore di cloaca che emanava ed emana ancora.

Dopo aver preso la passerella che costeggia il ramo secondario del fiume, ecco che ero arrivato nel quartiere della “Monza Bene”; la Monza dei ricconi benestanti e dei rompicoglioni dediti ad un ipocrita bigottismo paesanotto di profonda provincia, anche se siamo praticamente attaccati ad una grande metropoli europea come Milano.

Dopo qualche minuto di cammino ecco che finalmente ero giunto alla palazzina dove si trovava lo studio dell’architetto.

L’edificio era una bassa costruzione di tre piani di stile longobardico incastonato tra due alti edifici di stile liberty novecentesco.

Il portone d’ingresso era spalancato; probabilmente c’era una portineria dalla quale si doveva passare per registrarsi prima di incontrare i condomini che vivevano lì o i vari avvocati, notai ed architetti i quali avevano i loro studi ed uffici.

Infatti, appena avevo varcato la soglia d’ingresso, venni accolto dal portinaio di quella palazzina storica il quale, dopo avermi chiesto chi fossi e chi cercassi, mi aveva scortato direttamente davanti l’ufficio dove dovevo fare il colloquio di lavoro.

Raggiunto il piano dello studio al quale dovevo recarmi e trovata la porta che il portinaio mi aveva indicato, suonai il campanello; dopo nemmeno una frazione di secondo, si spalancò, rivelando un energumeno di colore che mi accolse con una singolare smorfia che doveva apparire come un sorriso, ma invece sembrava essere uno strano ghigno.

Si presentò e mi chiese se fossi lì per il colloquio.

Era la stessa voce che mi aveva chiamato al telefono per darmi la notizia della mia selezione al colloquio.

Mi fece accomodare su un grande divanetto di pelle color porpora con il contorno elaborato con motivi floreali in legno laccato di un nero lucido.

La sala d’aspetto ricordava vagamente la corsia di un ospedale; la stanza era formata da un lungo corridoio rettangolare, con una porta sul lato sinistro rispetto a dove mi trovavo io; la porta dalla quale ero entrato si trovava leggermente spostata a destra rispetto al divanetto e una portafinestra in fondo al corridoio alla mia destra e un’altra porta posta esattamente davanti a me. Le pareti erano tinteggiate di un bianco perlaceo, così come le porte e il contorno della grande finestra; il pavimento invece era formato da grandi lastre di un materiale plastico di colore verde pisello. La luce fredda dei neon posizionati sul soffitto, ne contavo tre disposti in fila lungo tutta la superficie, donava a tutto l’ambiente proprio la sensazione di essere in un piccolo sanatorio o, più specificatamente, in un reparto di neuropsichiatria di un ospedale.

Quell’ambiente emanava un’atmosfera angosciate, anche perché era, a parte il divano, era completamente spoglia e senza nessun ornamento sulle pareti che la rendessero confortevole o semplicemente piacevole agli ospiti che dovevano attendere il loro turno per poter parlare con il proprietario dello studio.

Cosa bizzarra per un artista o un architetto; di solito, queste persone si sbizzarriscono nell’arredare i propri studi e appartamenti con oggetti strambi e mobilio stravagante.

Invece questo dava una sensazione di asettica freddezza; come una sala operatoria o un laboratorio di ricerca batteriologica.

Non avevo dovuto aspettare molto in quel spoglia ed angosciante stanza; dopo pochi minuti, la porta situata davanti a me si aprì leggermente; la testa dell’assistente della Litta si sporse in avanti verso di me facendomi segno con la testa di seguirlo attraverso quella porta.

All’interno della stanza, arredata in modo completamente diverso rispetto alla saletta dalla quale ero stato in attesa, in un modo quasi Kitsch e bizzarro, ero stato accolto da una giovane donna dai capelli rossi, molto carina e vestita in modo alternativo e provocante allo stesso tempo.

La sua figura era molto snella; vestita con una camicetta rossa a maniche corte con i bottoni dorati che mettevano in evidenza le forme non troppo prosperose del seno, un paio di pantaloni attillati di pelle nera e ai piedi portava una paio di scarpe con il tacco di un colore rosso acceso.

Mi aveva fatto accomodare su una poltrona di pelle nera posta davanti alla sua scrivania.

La stanza era costituita da un divanetto identico a quello che era presente nel corridoio d’entrata, posizionato contro il muro a ridosso della soglia d’ingresso. Sopra di esso era appeso un enorme quadro che occupava gran parte della parete e rappresentava figure geometriche astratte. Sull’altra parete, posizionata alla sinistra del divanetto, era occupata da un ampio e antico camino, annerito all’interno dalla legna che probabilmente ardeva durante la stagione invernale. Sopra di esso si trovava una lunga ed imponente mensola che correva lungo tutto il perimetro della parete; su di essa erano posizionati montagne di libri molto usurati ed impolverati che sembravano antichi e di inestimabile valore.

Sulla parete opposta al divanetto, dietro la scrivania dell’architetto, c’era un’ampia finestra dalla quale si intravedeva un piccolo balconcino e, aldilà di esso, il fiume che scorreva e gli altri palazzi storici del centro. Ai lati di essa, come a formare una cornice, erano posizionate due ampie librerie di fattura contemporanea, colme di libri e faldoni contenenti documentazione varia.

Infine, sulla parete opposta rispetto al camino, alla mia destra, c’era un enorme armadio ad ante di stampo molto antiquato e rovinato dall’usura e dall’incuria del proprietario che non gli dava il giusto valore. Sopra di esso potevo vedere una lunga fila di animali impagliati; un paio di ermellini, una volpe, diversi uccelli notturni, qualche scoiattolo e dei teschi umani che sembravano essere veri.

Uno di essi aveva attirato la mia attenzione. Un teschio umano completamente integro con degli opali incastonati nelle orbite degli occhi.

Al centro della stanza, dove mi trovavo seduto davanti alla donna, era posizionata un’ampia scrivania di legno massello color ebano dove, al di là di esso, era seduta su una poltroncina ad alto schienale, l’architetto Alila.

Le pareti dello studio erano tinteggiate di un colore grigio cielo smog di Londra che donava alla stanza un’atmosfera lugubre, decadente e claustrofobica.

L’architetto mi aveva fatto accomodare su una delle due poltrone posizionate davanti la sua scrivania da lavoro, dove si trovava lo schermo di un computer di ultimissima generazione.

Dopo i soliti convenevoli ebbe inizio il mio colloquio lavorativo.

A quanto pare le avevo fatto una buona impressione, visto che mi aveva comunicato che il mio profilo corrispondeva a quello da lei ricercato e la mia esperienza era comprovata e nettamente migliore degli altri candidati che aveva sentito fino ad ora.

Al termine di quella lunga conversazione, ero uscito dalla palazzina con un sorriso da ebete a trentadue denti stampato sul volto; felice che il colloquio sembrava essermi andato bene e speranzoso di venire selezionato per questo lavoro che desideravo da un sacco di tempo.

 

IV.

 

Monza, 29 Maggio 2012

Non stavo più nella pelle, a quanto pare avevo superato il colloquio.

In tarda mattinata ero stato contattato telefonicamente dall’assistente della Litta, l’energumeno nero che parlava poco e male.

Mi aveva comunicato che avevo passato il colloquio e di conseguenza avevo vinto l’incarico di esplorare e mappatura la Villa Reale della mia città.

Mi aveva comunicato la data alla quale dovevo presentarmi per il mio giorno di lavoro.

Ero veramente felice; un’immensa felicità come non la provavo da tanto tempo.

Finalmente ero stato preso per compiere un compito estremamente importante per me; quello che mi sarebbe piaciuto fare nella mia vita: l’esploratore urbano professionista.

Non avevo mai creduto che il mio passatempo potesse diventare un lavoro specializzato e ben retribuito.

Ce ne sono pochi di Urbex professionisti, soprattutto nel nostro paese, dove questa attività viene ancora vista come una pratica dilettantistica e spesso malvista dai benpensanti e dalle forze dell’ordine.

Chi lo fa come hobby di solito rischia di venire denunciato per violazione di proprietà privata se veniva beccato.

A me era capitato una volta ma, per fortuna, era finita solo con un semplice lavacapo da una pattuglia di carabinieri che mi aveva fermato.

Ricordo ancora quella volta che stavo per entrare in un cotonificio abbandonato in un paesino vicino alla mia città; era una calda notte di fine agosto, le strade erano completamente deserte ma, sfiga vuole che mentre ero intento a scavalcare le alte cinta di mura della fabbrica, passò sulla strada contigua al muro di cinta di quella proprietà una volante dei carabinieri. Ero stato beccato in pieno, come un bambino che ruba le caramelle al suo compagno di scuola più sfigato.

Per fortuna i due militari erano di buon umore quella notte; dopo avermi fatto il terzo grado su cosa stavo facendo e perché, mi avevano lasciato andare con l’avvertimento che se mi avessero ancora trovato a cercare di entrare in una costruzione in disuso, mi avrebbero denunciato per violazione di proprietà privata e atti di vandalismo.

Probabilmente mi avevano scambiato per un Writers o un tossicomane alla ricerca di un posto tranquillo e sicuro per farmi la mia dose giornaliera.

Ad ogni modo, finalmente avrei potuto rendere questa mia passione una professione a tutti gli effetti.

Dovevo mettermi subito a rivedere certe tecniche di esplorazione che usavo poco, a rileggere un po’ di libri che trattavano di occultismo ed esoterismo e a studiare la Villa Reale, le sue stanze, le biografie delle famiglie nobili che l’avevano abitata, le biografie personali del re e della regina e quella del Piermarini; l’architetto che l’aveva progettata e costruita.

Per tutto il mese restai immerso nello studio più profondo; volevo dare il meglio di me per il lavoro che mi era stato assegnato.

 

V.

 

Monza, 29 Giugno 2012

Finalmente era arrivata la data tanto attesa. Il mese che mancava all’inizio della mia giornata di lavoro era passato in fretta, immerso tra lo studio e la manutenzione delle attrezzature che mi sarebbero servite. E ora eccomi pronto ad iniziare quella grandiosa giornata che ero riuscito a guadagnarmi.

L’appuntamento con la Litta e il suo assistente era fissato per la tarda mattinata, ma io ero ancora riuscito a svegliarmi all’alba per terminare i preparativi, per controllare che nel mio zaino ci fosse stato tutto il necessario per compiere il lavoro che stavo per andare a compiere e per fare una ricca ed energizzante colazione.

Appena finito di fare colazione, mi ero vestito velocemente indossando una tuta leggera e comoda, avevo preso lo zaino con l’attrezzatura che mi serviva e mi ero precipitato velocemente fuori di casa.

Questa volta avevo preso la macchina per recarmi alla Villa; avevo intenzione di arrivare un po’ prima dell’orario a me comunicatomi, avevo intenzione di fare un po’ di fotografie alla facciata esterna della magione e per rivedere le planimetrie di tutti i piani interni; sotterranei compresi.

Il tragitto era stato tranquillo e il traffico scorrevole; in una decina di minuti ero giunto a destinazione.

Dal viale principale (viale Cesare Battisti); il boulevard che il Piermarini aveva progettato come “cannocchiale urbano” che collegava il palazzo reale con la capitale dell’epoca dell’Italia Asburgica, Vienna, potevo ammirare la reggia in tutta la sua maestosa grandezza e il suo decadente degrado.

Arrivato davanti al cancello d’ingresso del cortiletto della reggia, dove si trovava la fontana che faceva da rotonda, parcheggiai l’automobile di fianco alla casupola di servizio adibita a residenza del custode.

Scesi dall’auto e mi accesi subito una sigaretta.

L’aria calda dell’estate appena iniziata dava una sensazione di pace interiore.

Anche se preferivo il freddo, l’inizio della nuova stagione mi rallegrava abbastanza per aiutarmi a calmare l’ansia che si faceva sentire ogni qualvolta dovevo adempiere ad un compito che non rientrava nella mia abitudinaria quotidianità.

Finito di fumare iniziai a scattare qualche fotografia alla facciata esterna della reggia reale, al cortiletto davanti ad esso e al recinto che divideva la piazzetta dal roseto che si trovava alla destra rispetto a dove mi trovavo io.

In mezzo alla piazzetta situata davanti il corpo centrale della villa si poteva vedere anche l’antica fontana ormai riempita di terra e con l’erba che cresceva incolta nella vasca dove una volta si raccoglieva l’acqua.

Davanti ad essa, in direzione del corpo centrale del palazzo, si trovava un’altra cancellata che separava il cortile d’onore dall’effettivo cortiletto dove si trovava la grande scalinata esterna che portava all’ingresso della magione.

Sotto la scala, nascosto alla vista, c’era un ingresso secondario che portava al piano terra della reggia, dove una volta si trovavano le rimesse per i cavalli e gli alloggi dedicati alla servitù.

Sulla cima della scala, dove essa formava il pianerottolo che conduceva all’ingresso di quel palazzo, c’erano ad aspettarmi la Litta ed il suo assistente.

Mi ero avvicinato a loro e, dopo averli salutati, mi diedero le ultime istruzione per adempiere al compito che mi avevano assegnato.

Dovevo iniziare dal secondo piano, visto che nel primo, dove si trovavano gli appartamenti reali del re e della regina, la sala del trono, gli appartamenti degli ospiti e le varie sale di servizio, erano quelli aperti al pubblico e, di conseguenza, già esplorati e studiati.

La maestosa scala che portava ai piani superiori era scarsamente illuminata e dava un senso di decadente tristezza per via dell’abbandono che il tempo e l’incuria umana le avevano donato.

Avevo iniziato a percorrerla osservando le pareti e l’ampio soffitto che si stagliava ampio e alto sopra di me, che come una torre gotica si stagliava verso il cielo.

Le pareti erano scrostate e la polvere ricopriva gli ampi grandini marmorei.

Era una magnifica scala, ampia e di stampo neoclassico, che seguiva il muro perimetrale come un serpente che si attorciglia sul ramo di un albero.

Appena arrivato in cima, ecco che si apriva davanti a me l’oscuro passaggio che portava verso gli altri appartamenti di quel palazzo ormai abbandonato da molti anni.

Con passo cauto e lento mi stavo introducendo il quel lungo corridoio dove si aprivano stanze, sale, saloni dove si vedevano antichi e preziosi arredi rimasti accatastati come inutile ciarpame privo di valore.

Mi fermavo sulla soglia di ogni stanza per fotografare gli interni; non avevo mai visto nelle mie esplorazioni di edifici abbandonati un palazzo così maestoso e regale come questo.

Arrivato alla fine del lungo tunnel, mi soffermai qualche istante per scattare un po’ di fotografie.

L’atmosfera era greve e l’aria molto soffocante; gli anni avevano reso gli ambienti umidi e marci.

Entrai in tutte le stanze che trovavo, per fotografarle, catalogarle e mapparle.

La maggior parte di esse si somigliavano tra loro, tranne un paio che avevano richiamato la mia attenzione.

La prima che mi incuriosì era completamente spoglia ad eccezione di due mastodontici specchi che occupavano le pareti opposte a quella dove si trovavano le due finestre che davano all’esterno della magione e un altrettanto mastodontico specchio che occupava tutto il soffitto sovrastante.

L’altra stanza, invece, era costituita da un lungo mobile bianco che occupava tutta la parete davanti a me. Quel mobile si rivelò contenere un doppio fondo che portava ad una scala a chiocciola che scendeva al piano sottostante ad esso.

Titubante, provai a percorrerla.

Un passo dopo l’altro, tastando i gradini con i piedi, cercai di studiare la stabilità di quella scala.

Sembrava essere sicura ed ero riuscito a percorrerla fino alla fine.

Il buio si faceva sempre più intenso dietro di me e l’aria sempre più pesante e fradicia di una umidità estremamente soffocante.

Alla fine della scala mi ero ritrovato in una specie di ballatoio chiuso su tutti i lati; tranne per una piccola porticina attraversabile solo a carponi situata davanti a me e un altro oscuro corridoio che si apriva con una piccola volta alla mia destra.

Avevo deciso di introdurmi in quel piccolo pertugio davanti perché mi dava l’impressione di essere l’ingresso di un altro passaggio segreto.

Indugiante, con le mani che mi tremavano per l’emozione, cercai di forzare la lamina di metallo ormai arrugginito dal tempo, che ostruiva quel piccolo passaggio.

Appena ero riuscito ad entrare, illuminai con la torcia l’interno, rimanendo sbalordito per quello che stavo vedendo.

Avevo trovato la leggendaria biblioteca segreta della reggia; quella dove secondo molti occultisti si trovavano conservati antichi ed innominabili tomi di magia nera.

In un angolo di quella stanza, dietro un polveroso tavolo, qualcosa aveva attirato la mia attenzione; sembrava esserci un lieve bagliore, nonostante non ci fosse un impianto elettrico.

Avvicinandomi a quella luce, in un’alcova ricavata nel muro portante, si apriva una scala a pioli che scendeva sotto di un altro livello.

Indugiando, stavo provando a scendere in quel passaggio, quando alle mie spalle avevo sentito uno strano movimento; come la presenza di qualcuno che mi stava seguendo.

Voltandomi di scatto, avevo notato due figure dietro di me. Poi, più niente; ricordo solo un flash di luce accecante e la tenebra che colava come una spessa coltre di pece sui miei occhi.

Mi ero svegliato seduto sua una polverosa sedia, con le mani legate dietro la schiena. Davanti a me si trovava una sottile figura che poi si rivelò essere la Litta.

Era completamente nuda, con i capelli sciolti che le arrivavano a coprire le spalle e in mano teneva stretto uno strano oggetto che sembrava pulsare di vita propria.

Quel curioso oggetto emanava un forte brillio che illuminava soffusamente la stanza dove ci trovavamo. Aveva una forma geometrica insolita; sembrava un trapezoide che pulsava ed emanava una fredda ed irregolare luce diafana.

La Litta si faceva sempre più vicina, e dopo avermi posizionato quell’oggetto proprio ad un palmo dal mio naso, aveva iniziato a recitare una specie di mantra in una lingua a me sconosciuta.

Stavo cercando di urlare, ma le parole uscivano dalle mie labbra come cera fluida che colava sulle braccia di un candelabro.

Non riuscivo a reagire, a muovermi, a parlare, a pensare; ero completamente inerme e indifeso.

L’architetto continuava a recitare quel mantra con un filo di voce completamente atona, mentre il suo assistente di colore, che nel frattempo si era piazzato al mio fianco, armeggiava con un grosso pugnale dalla lama sinuosa.

Senza neanche farci caso, mi ero accordo che mi aveva ferito leggermente; potevo sentire la lama del coltello praticarmi una leggera incisione sulla mia spalla sinistr, facendomi scorrere un piccolo rivolo di sangue venoso.

Non provavo nessun dolore, forse per via dell’adrenalina che il mio corpo impaurito aveva iniziato a secernere.

L’energumeno si era fatto ancora più vicino, questa volta mi stava puntando la lama alla gola.

Non so quanto tempo trascorse ma, ad un tratto, un lungo latrato che sembrava provenire dall’interno dei muri fermò la mano del mio aguzzino, il quale si girò per vedere da dove provenisse quel grugnito di bestia idrofoba.

Sentivo la Litta pronunciare queste parole: “Ce l’abbiamo fatta”.

Non riuscivo a comprendere; in che cosa ce l’avevano fatta?

Dall’angolo del muro situato al fianco di Mansur si era aperto come un varco di luce dal quale uscì come una nuvola di vapore seguito da una terrificante figura infernale che con un balzo si avventò sul corpo del nero.

Atterrato da quella terrifica belva, che sembrava avere l’aspetto di un aberrante mastino lebbroso, l’energumeno di colore venne come succhiato da quell’essere; dalle fauci di quel cane acherontico si protese come una lunga lingua camaleontica che perforò il corpo della sua vittima.

Quella lunga lingua stava come bevendo l’anima di Mansur, fino a rendere il suo corpo un ammasso informe e gelatinoso; un brodo semi digerito e poi vomitato di una colorazione bluastra.

Non potevo credere ai miei occhi; stavo sicuramente avendo un terrificante incubo, non poteva essere reale quello che stavo osservando.

Quell’oggetto luccicante che la Litta teneva in mano aveva risvegliato quegli antichi esseri che avevano il compito di proteggere le grandi divinità che governavano i destini degli esseri umani; quei maledetti Dei che rimanevano nascosti da tempi immemori nei più profondi recessi dello spazio siderale. Avevo sentito parlare di questi mostri ancestrali solo in pochi libri scritti da folli ciarlatani del passato; credevo fossero solo leggende e miti tramandati da gente con un’immaginazione malata ma, a quanto pare mi sbagliavo clamorosamente.

Sentivo sussurrare la Litta: “Tindalos”.

Non poteva essere vero, doveva essere solo frutto della mia fervida immaginazione data dall’incombente pericolo che stavo vivendo.

Dal muro dietro la Litta, dove il soffitto formava l’angolo con la parete che lo sosteneva, un altro lampo di luce si era aperto, rivelando un varco oscuro nero come il petrolio, dal quale, sempre dopo la formazione di una fitta nuvola di vapore, fece capolino una terrificante testa che sembrava essere il muso di uno sciacallo malato di scabbia.

La Litta si era voltata di scatto, aveva preso l’oggetto che aveva posizionato sul tavolo davanti a me e fuggì precipitosamente da quella stanza.

L’infernale bestia si era lanciata al suo inseguimento; senza accorgersi minimamente della mia presenza.

Ora che le due figure se ne erano andate, finalmente avevo ripreso il controllo del mio corpo; mentre la Litta era intenta ad osservare il suo assistente venire attaccato da quell’essere, ero riuscito a prendere il coltellino multiuso che tenevo nella tasca posteriore della tuta, riuscendo così a liberarmi dalle corde che mi tenevano legate le mani. Appena mi ero liberato avevo iniziato a cercare una via d’uscita.

Durante la mia rocambolesca fuga continuavo a sentire dei latrati infernali provenire da ogni angolo buio di quegli ambienti maledetti.

Seguivo il lungo corridoio che avevo visto nella stanza vicino alla scala a chiocciola dove ero stato aggredito, il quale terminava in un vicolo cieco; fatta eccezione per buco nel pavimento dal quale scendeva una scala a pioli. Vicino ad essa potevo riconoscere il corpo ormai reso una poltiglia informe semiliquida della Litta; le cui mani raggrinzite tenevano strette tra le dita lo strano poliedro che aveva usato per invocare quegli immondi ed infernali esseri che ora mi stavano inseguendo.

Dopo averlo raccolto mi ero precipitato giù, lungo quella scala che scendeva verso l’oscuro e profondo baratro dei sotterranei inesplorati di questo immondo palazzo.

Non potevo ancora saperlo ma, a quanto pare, avevo raggiunto una stanza sicura; il mio temporaneo e salvifico bunker contro il potere di quelle creature.

La stanza era un buco di pochi metri quadrati completamente spoglia e di forma sferica; cosa inusuale per un’ambiente abitativo. Probabilmente in passato veniva utilizzata come ghiaccia o serbatoio per l’acqua potabile ma, a quanto avevo capito dopo pochi istanti, era stata progettata e costruita per proteggere qualcosa o qualcuno da quei bastardi segugi.

Per qualche strano motivo, infatti, quegli esseri erano titubanti ad entrare in quel vano; però, era anche vero che io non sarei mai potuto uscire da quella camera senza che quelle bestie mi avessero succhiato via l’anima con le loro orripilanti lingue acuminate; come avevano fatto con i miei aguzzini datori di lavoro.

Ora era tutto chiaro; mi avevano assunto solo per offrirmi come offerta sacrificale ai loro infimi Dei primordiali, senza sapere che nemmeno loro avevano il diritto di svegliarli dal loro eonico torpore.

Ed ora eccomi qua, a scrivere la mia disavventura, il mio avvertimento al fatidico destino che sto per andare incontro, il mio monito da lasciare a tutte quelle persone che riusciranno a leggerlo; sempre se ci sia qualcuno che riuscirà a sopravvivere alla caccia di quel branco di immondi funerei destrieri.

Ho fatto la fine del topo e, per il bene di tutti, non posso consegnare questo trapezoedro a queste blasfeme creature. Devo tenerlo stretto con me, prima che qualcun altro finisca brutalmente divorato dai segugi dell’inferno; dai segugi della puttana Alila, dai segugi di Tindalos.

E ora, questi mastini bastardi, continueranno a fare la guardia a questo fottuto trapezoedro maledetto da quelle infami divinità che governano il destino di tutti gli esseri umani presenti sulla faccia della terra.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

   
 
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