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Autore: morgana85    06/05/2020    13 recensioni
Il deserto sa essere affascinante, con i suoi colori e i profumi intensi.
Ma può essere altrettanto spietato, rendendo polvere anche il più forte dei sentimenti.
Dal testo:
(...) «Non desiderarmi mai Haroon, anche se te lo chiedessi», gli posò una mano all’altezza del cuore, «e dimentica quello che sto per dirti, ma ricorda l’emozione che ti susciterà». Si sollevò sulle punte, arrivandogli così vicina da fargli credere per un momento che stesse per baciarlo. E lui voleva che lo facesse. La sentì prendere un profondo respiro, prima di parlare piano vicino al suo orecchio, «Io ti voglio come il vento che sferza le dune senza sosta e con la stessa forza di una goccia d’acqua che fa nascere un’oasi nel deserto». (...)
[Storia partecipante al Contest "Tarocchi Narranti" indetto da _Vintage_ sul forum di EFP]
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Riah – Il vento del deserto
 

Alzò gli occhi dagli stivali che stava cercando di lucidare, controllando la posizione del sole. La calura del giorno si stava lentamente spegnendo e il crepuscolo iniziava a tingere il cielo con colori vividi e quasi innaturali.
Buttò con poca accortezza lo stivale nel grosso cassone di legno, imprecando mentre si alzava. Non si era accorto del tempo che trascorreva, assorto nei suoi compiti e tra i pensieri che continuavano ad affollargli la mente. Rischiava di arrivare in ritardo.
Infilò in tutta fretta il corto mantello scuro, allacciando le nappe d’ordinanza alla rinfusa e precipitandosi fuori dalla sala d’arme a passo spedito.
«Ti conviene correre Haroon, certe cose non aspettano», lo derise un ragazzo alto e dalla carnagione olivastra seduto ad un tavolino con due compagni, un sorriso sornione ad incurvargli le labbra mentre calava la carta che gli faceva vincere la partita.
«Non so cosa farei senza di te Ghiyaad», rivolse un cenno ai commilitoni, cercando di raddrizzare l’elmo a turbante.
Attraversò i cortili interni del palazzo immersi nel silenzio, interrotto solamente dallo zampillio dell’acqua delle meravigliose fontane decorate. Ricambiò qualche saluto frettoloso ai cortigiani che incrociò lungo il tragitto, accelerando il passo fino quasi a correre. Quando sbucò nell’ampio piazzale che si apriva davanti alle porte della mura, si appoggiò ad una colonna per riprendere fiato. Guardò prima a destra, poi a sinistra, ma sembrava non esserci nessuno oltre a lui.
Dannazione, pensò frustrato stringendo i pugni e appoggiando la schiena alla pietra dietro di sé. In tutti quei mesi – anni, era più corretto dire anni – non era mai arrivato in ritardo una sola volta. Chiuse gli occhi, prendendo un profondo respiro e inebriandosi dei profumi del deserto in prossimità della sera. L’aria sapeva di sabbia, spezie e… si sollevò di scatto, guardandosi intorno con uno strano presentimento. Si sporse verso il grande portone, rimanendo in attesa. Perse quasi un battito quando una figura avvolta in meravigliosi abiti dai colori accesi prese forma nell’arco d’ingresso, avanzando come se fluttuasse. Il volto coperto da un impalpabile velo nero, fermato da un cerchio d’oro costellato da gocce pendenti di calcedonio blu e crisocolla, sembrava l’apparizione di un jinn.
Sorrise, non si era sbagliato. Quello era odore di vento. Intenso e freddo, che gli parlava di luoghi sconosciuti. E solo lei sembrava esserne circondata, solo lei lo portava intessuto tra i capelli. La seguì, continuando a rimanere nascosto tra le colonne. Attendeva quel momento con la stessa trepidazione di un bambino il giorno di Asther, come se fosse il suo regalo più bello. Lei lo attirava a sé con la stessa forza delle onde contro gli scogli, lo avvertiva nel formicolio che gli passava sotto le dita e nel battito del cuore che faceva eco al desiderio improvviso che lo incendiava. La voleva da tanto, troppo tempo. Da quando erano poco più che ragazzini che correvano nei giardini colmi di fiori e fontane dell’harem.
Lanciò una rapida occhiata alle due guardie che la seguivano a qualche metro di distanza, doveva essere veloce e farsi notare il meno possibile. Sapeva qual era il castigo per quelli che osavano avvicinarsi alla Danzatrice del Vento. Legata alle sacerdotesse del deserto, venerata come vergine dispensatrice di profezie e voce dei jinn, si recava a palazzo a danzare in onore del sovrano e benedire il suo harem per la nascita di un futuro erede, sperato ma mai arrivato. Apparteneva al Sultano e a lui soltanto.
 
Sobbalzò sorpreso nel trovarsela davanti, in piedi in mezzo al corridoio delle stalle reali. Giocherellava con un lungo nastro blu, che intrecciava e scioglieva tra le dita. «Sei per caso impazzita?», le andò incontro guardandosi intorno nervosamente, cercando di trascinarla in un angolo più nascosto, «non puoi stare qui».
Ma lei si oppose, limitandosi a fissarlo negli occhi. «Vieni, passeggiamo insieme», allungò una mano nella sua direzione, aspettando pazientemente che rispondesse al suo invito.
Aggrottò la fronte aprendo la bocca per protestare, ma quello che lesse nel suo sguardo – così profondo e infinito – gli fece morire ogni parola tra le labbra. Sospirò, intrecciando le dita alle sue e seguendola. Si lasciò condurre lungo passaggi che non conosceva, di solito utilizzati dalla servitù e dalle concubine dell’harem. Sbucarono in un piccolo giardino, occupato da un solo albero di tamarindo che creava quasi un tetto con i suoi rami nodosi. Quel poco di cielo che riuscivano a vedere era un unico tappeto blu screziato di viola, dove le prime stelle iniziavano a comparire.
«Mi auguro tu abbia un valido motivo per averci fatto rischiare la frusta», poggiò le mani sui fianchi cercando di assumere un’espressione adirata, anche se con lei non ci riusciva mai. Mai, nemmeno quando erano bambini e lui veniva rimproverato a causa sua. «Conto fino a tre, se non ti decidi a parlare giuro che me ne vado. Uno», la guardò raccogliere un giglio del deserto, portarselo al viso e annusarlo continuando ad ignorarlo, scivolando un passo più in là mentre lui cercava di avvicinarsi. Proprio lei che non perdeva occasione di sfiorarlo, di abbracciarlo e di mandare in confusione i suoi ormoni già precari di giovane uomo. «Due», stava davvero perdendo la pazienza. Avevano ormai passato da un pezzo l’età per cui un ragazzo e una ragazza potevano rimanere nello stesso ambiente senza essere accompagnati. «Tr…», si interruppe quando la vide andargli incontro, fermandosi ad un passo da lui.
Gli porse il fiore, incrociando finalmente il suo sguardo e abbandonando le braccia lungo i fianchi, «Samar dice che mi guardi come fa il Sultano con la Favorita».
«Samar crede anche che presto verrà scelta come Danzatrice del Vento», scosse il capo con un ghigno, cercando di dissimulare quello che in realtà lo aveva fatto tremare. Le infilò il giglio tra i lunghi capelli scuri, che lui aveva sempre trovato meravigliosi, «ha la lingua lunga come quella dei dromedari, non darle retta. E poi, tutti ti guardano così», ammise con una punta di amarezza. Aveva ormai imparato a riconoscere come gelosia, il sentimento che lo pervadeva quando scorgeva le occhiate troppo lunghe e i bisbigli accattivanti del suoi amici.
«E se invece volessi che fosse così?».
Corrugò la fronte, fissandola senza capire, «Hai di nuovo bevuto qualche strano intruglio di Lamya?», la costrinse a sollevare il viso posandole due dita sotto il mento, un gesto che aveva ripetuto almeno un milione di volte. Ma incontrare i suoi occhi – uno blu profondo, l’altro azzurro e cristallino – lo riempì di un’emozione imprevista. Negli ultimi tempi, starle vicino era diventato davvero difficile. Intuiva sotto gli abiti semplici le forme non più acerbe della sua migliore amica, che gli suscitavano una strana voglia di accarezzarla, di indovinare quale sapore avesse la sua pelle, di scoprire come fosse il suo respiro perso in sensazioni ben diverse da quelle che erano soliti condividere. Fece un passo indietro, schiarendosi la voce.
Lei non rispose, limitandosi a sollevare la manica dell’abito, rivelando un disegno che ricordava il profilo delle dune del deserto, arricchito da una scritta che sembrava quasi una greca.
Guardò prima il tatuaggio, poi lei e infine nuovamente il tatuaggio. «Cosa vuol dire questo? Non può essere…», le strinse il polso, attirandola verso di sé e cercando di trattenere lo spasimo di desiderio che lo attraversò quando le sfiorò la pelle. «Sei troppo giovane, gli Oracoli non possono averti destinata a lui».
«Non bestemmiare, il deserto stesso mi ha scelta».
«Mi stai dicendo addio?».
«Dico addio a me stessa», le sfuggì una risata amara, mentre portava alla bocca la mano che ancora le stringeva il polso, posandovi un lieve bacio, «la prossima volta che ci incontreremo, potresti desiderare di non avermi mai conosciuta».
«Questa è la cosa più stupida che tu abbia mai detto Naila», improvvisamente l’idea di non vederla più entrare di corsa nella sua stanza solo per raccontargli le ultime novità, o non poter più mangiare insieme dolci attorno al fuoco durante la Festa della Luna, gli sembrò intollerabile. «Tra noi non cambierà niente».
«Hai ragione», riprese lei, dopo qualche istante di silenzio, «perché già tutto è cambiato». Quando tornò a guardarlo negli occhi gli sembrò distante, con quella scintilla di mistero che aveva sempre fatto parte di lei, ora più intensa. «Non desiderarmi mai Haroon, anche se te lo chiedessi», gli posò una mano all’altezza del cuore, «e dimentica quello che sto per dirti, ma ricorda l’emozione che ti susciterà». Si sollevò sulle punte, arrivandogli così vicina da fargli credere per un momento che stesse per baciarlo. E lui voleva che lo facesse. La sentì prendere un profondo respiro, prima di parlare piano vicino al suo orecchio, «Io ti voglio come il vento che sferza le dune senza sosta e con la stessa forza di una goccia d’acqua che fa nascere un’oasi nel deserto».
 
«Naila», lo sussurrò appena, approfittando della copertura di un cespuglio di rose del deserto per non farsi notare dalle guardie, «Naila!».
La figura rallentò il passo fino a fermarsi, voltandosi nella sua direzione con un lieve movimento del capo, quasi sapesse perfettamente da quale parte provenisse. Tra loro aveva sempre funzionato così, erano uno la Stella Polare dell’altro, era naturale trovarsi come per il sole addormentarsi all’orizzonte.
Per un istante, il silenzio fu totale e il tempo sembrò sospeso e a loro disposizione. Haroon strinse gli occhi, riuscendo finalmente a scorgere oltre la cortina del velo quegli occhi che costellavano i suoi sogni più tormentati ogni notte. Si toccò la fronte, la bocca e il cuore – il mio pensiero, le mie dolci parole, la parte più segreta di me - disegnando poi nell’aria un semicerchio con due dita. Alla fine di tutto, ancora. Gli sembrò di scorgere un sorriso, mentre intuiva un lieve movimento delle braccia.
«Mia Signora, perché ci siamo fermati?», una delle guardie si fece avanti con un piccolo inchino, rimanendo comunque a debita distanza.
La donna lo fermò sollevando una mano e scuotendo il capo, «Possiamo proseguire». Lanciò un’ultima occhiata alla sua sinistra, riprendendo il cammino come se niente fosse accaduto.
Quando il piccolo corteo scomparve oltre le ombre dell’entrata del palazzo, Haroon si affrettò a raggiungere il punto in cui Naila si era fermata qualche istante prima. Raccolse il nastro di seta blu che aveva lasciato per lui, avvicinandolo al viso per poterne sentire il profumo. Uno spasimo agrodolce lo percorse, mentre immaginava di poterle legare i lunghi capelli con quel nastro solo per riuscire a percorrerle la schiena con le labbra e con la lingua. E non l’aveva mai nemmeno sfiorata. Strinse i pugni fino a far sbiancare le nocche. Avrebbe potuto averla, sempre. Ma non ne aveva avuto il coraggio.
«Capitano».
«Ghiyaad», si guardò alle spalle, facendo il saluto militare al compagno, «non mi dire, si sono già stancati tutti della tua sfacciata fortuna a carte?».
«Può darsi. Ma non è mai quanta ne ho con le donne», gli rispose con un ghigno sornione, ricambiando il saluto. Con la sua mole possente, la pelle olivastra e l’aria selvaggia, era completamente diverso da Haroon, dal fisico asciutto e agile come quello di un felino. Ghiyaad lo prendeva in giro da sempre, sostenendo che con gli insoliti capelli biondi e gli occhi di un blu molto simile al viola, sembrava più un barbaro del Nord che uno spietato Comandante del Deserto. Eppure erano uno la metà complementare dell’altro, sin da quando si erano incontrati il giorno del reclutamento. Erano fratelli, se non nel sangue, di sicuro nello spirito e con la mente. Riflessivo e attento uno, inarrestabile e astuto l’altro, formavano un’accoppiata senza precedenti. «Sbrighiamoci, il Generale non è un tipo paziente». Scoppiò a ridere davanti all’espressione corrucciata dell’amico, battendogli con forza una mano sulla spalla, «Non dirmi che te ne sei dimenticato», lo spinse verso l’ingresso, scuotendo la testa, «dovrei smetterla di guardarti le spalle. Dobbiamo scortare la Danzatrice del vento negli appartamenti reali e controllare che nessuno li disturbi», fece un gesto inequivocabile, a cui Haroon rispose con un ringhio.
«Nemmeno il Sultano può pretendere quello che è consacrato agli dèi».
«Mastica ogni parola, prima di sputarla con tanta facilità», Ghiyaad lo prese per un braccio, facendolo fermare, «le colonne hanno occhi e le piastrelle orecchie. Il Sultano può avere qualunque cosa, basta solo che la desideri. Perché ti importa così tanto?».
Haroon strinse la mascella, evitando accuratamente lo sguardo del compagno. Come poteva spiegare quello che lui stesso non riusciva a comprendere da una vita intera? «È complicato». Non aveva mai parlato con nessuno di quello che era stato prima di arruolarsi. Quando gli domandavano del suo passato, era sempre rimasto sul vago e ben presto la curiosità era andata scemando, ma i mormorii sul suo conto non si erano mai sopiti del tutto. Era così diverso dagli altri, troppo taciturno e dalla pelle talmente chiara da sembrare delicata come alabastro. Aveva faticato solo gli dèi sapevano quanto per guadagnarsi il rispetto dei suoi uomini, rispondendo ad ogni provocazione con la forza di una tempesta e l’astuzia di una volpe. Non avrebbe cambiato nessuna delle scelte che lo avevano condotto a quel punto, tranne una. La peggiore che avesse mai fatto.
«Credo di essere abbastanza intelligente per provare a comprenderlo».
«Magari più tardi», soffocò ogni protesta di Ghiyaad con un brusco cenno della mano, adeguando il passo al suo e proseguendo nel più totale silenzio.
Quando raggiunsero l’ala est del palazzo trovarono il Generale ad attenderli, affiancato da due guardie imperiali a sbarrare l’ingresso della stanza alle loro spalle. «Capitano, Tenente», incrociò le braccia dietro la schiena, salutandoli con un movimento del viso, «il Sultano non deve nemmeno accorgersi della vostra presenza», li squadrò da capo a piedi, fermandosi di fronte ad Haroon, che stava fissando quasi ipnotizzato gli incredibili intarsi della porta, avvertendo uno strano formicolio percorrergli le dita e il cuore battere improvvisamente più forte. Lei era lì, qualche metro e un intero mondo a dividerli. «Non avrete occhi né orecchie, scorterete la Danzatrice del Vento fino agli appartamenti reali e vi dileguerete». Il Generale lo guardò, costringendolo a mettersi sull’attenti, sfidandolo finché non rispose con un sommesso “sissignore”. «Molto bene».
Prima che la porta si aprisse, furono costretti a voltarsi di spalle. Nessuno poteva guardare la Danzatrice del Vento troppo da vicino, né tantomeno avere l’ardire di poterle parlare.
I battenti si aprirono con uno scricchiolio, mentre il suono di campanelli riempì il corridoio altrimenti silenzioso. Haroon strinse le dita sull’elsa della scimitarra che portava appesa al fianco, il profumo del vento a stuzzicargli nuovamente le narici e ad attirarlo verso di lei. Costantemente e senza tregua. Fece uno sforzo immane per non girarsi e guardarla, almeno una volta. Fissò con insistenza davanti a sé, iniziando a contare le piastrelle colorate per trovare qualcosa con cui tenere impegnata la mente.
Quando il Generale diede l’ordine, lui e Ghiyaad si mossero all’unisono. Marciarono senza fermarsi e in silenzio, fino a raggiungere gli appartamenti del Sultano. Si disposero con efficienza ai lati dell’ingresso, osservando sfilare davanti a loro Naila e le ancelle che l’avevano accompagnata. Quando gli passò accanto, Haroon fu convinto di sentire il suo nome appena sussurrato, mentre un refolo di vento gli accarezzava la guancia e gli scompigliava i capelli.
 
Non aveva mai bevuto così tanto in vita sua. Sentiva la testa leggera e priva di ogni razionalità, mentre cercava di mantenere l’equilibrio necessario per muovere qualche passo senza cadere. «Che il deserto ti maledica Ghiyaad», borbottò prima di scoppiare a ridere.
«Mi basta avere un pallido barbaro per Capitano, come punizione», ribatté il gigante con una risata roca, inciampando in un’anfora colma di fiori che cadde rovinosamente, infrangendosi sul pavimento, «che i jinn abbiano pietà della mia anima».
«Haroon». Una voce si intromise nel loro patetico siparietto, il tono in perfetto equilibrio tra lo stupore e l’indignazione.
Haroon si guardò intorno frastornato, provando a mettere a fuoco l’ambiente che lo circondava. Il suo istinto allenato prese il sopravvento, facendogli cogliere un’ombra più scura tra quelle del cortile. «Fatti vedere», mormorò, incredibilmente calmo. Rilassò le spalle, riconoscendo la figura minuta che era entrata nel cono di luce delle torce. «Naila», cercò di ricomporsi, passandosi una mano tra i capelli e schiarendosi la voce, «credevo che alle sacerdotesse fosse proibito partecipare alla Festa della Luna».
«È così. Ma…», lo guardò in un modo che Haroon non riuscì a interpretare. «Non ha importanza. Credo che il tuo amico laggiù ti stia aspettando», indicò con un cenno Ghiyaad, che aveva avuto il buon senso di rimanere in disparte. «Che la dea ti accompagni», disegnò la benedizione con due dita, prima di voltargli le spalle senza degnarlo di un altro sguardo.
«Naila, aspetta», i piedi si mossero prima che riuscisse a fermarli, permettendogli di raggiungerla, «aspetta». Quando la prese per un braccio, lei si allontanò di scatto, quasi si fosse scottata. Sentì la gola seccarsi, mentre si concedeva di osservarla come non faceva da tempo. Non era cambiata molto, eppure gli sembrò completamente diversa. Nei suoi occhi non c’era più l’innocenza di una bambina e il suo corpo aveva assunto forme da giovane donna. Avvertì la forza che lo attirava a lei scorrere in ogni fibra del suo corpo, potente e selvaggia come la prima volta in cui l’aveva percepita. Gli venne voglia di averla, di baciarla, di perdersi e ritrovarsi sulla sua pelle e tra le sue braccia. Naila sembrò leggere ogni suo pensiero, perché un velo di tristezza le passò sul viso. «Mangiare i dolci al miele non è lo stesso, senza di te».
«Beh, immagino tu abbia trovato altri modi con cui», serrò la mascella, arretrando di un passo, «intrattenerti».
Prima che potesse allontanarsi di nuovo, le prese una mano tra le sue, «Torna da me». Lo sussurrò appena, mentre la tirava contro di sé. Una brezza leggera li avvolse, portandogli il suo profumo. Vento, ancora. Lo amava e lo odiava al tempo stesso, perché sapeva di lei e di quello che non avrebbero mai potuto essere.
«Sei ubriaco».
«Può darsi», si spostò di qualche passo, trascinandola dietro una colonna, «ma non abbastanza per non capire che lo vorresti anche tu».
«Lasciami andare», Naila cercò di divincolarsi, ma un brivido le percorse la schiena quando, con uno strattone più deciso, la fece scontrare contro il suo petto. La familiare sensazione di vuoto alla bocca dello stomaco la costrinse a cercare stabilità poggiando la mano vicino al suo cuore, il battito forte e costante sotto i suoi polpastrelli. Socchiuse gli occhi, immaginando di potervi posare sopra le labbra, reclamandolo completamente per sé. «Lasciami andare, Haroon», fu poco più di un respiro, mentre poggiava la fronte sulla sua spalla, «me lo avevi promesso».
«Lo so», le sfiorò la tempia con le labbra, trattenendosi dall’accarezzare quei capelli che sapeva essere morbidi come seta, «ma ho mentito. Non ci riesco». Le prese il viso tra le mani, costringendola finalmente a guardarlo. Trattenne il fiato quando trovò i suoi occhi lucidi e indifesi, molto più simili a quelli della bambina che aveva sempre conosciuto che alla Danzatrice del Vento che era destinata ad essere. Si chinò fino ad arrivarle a un respiro dalle labbra, prima che lei lo fermasse.
«Non posso essere tua», gli baciò il palmo della mano, assecondando la sua carezza, «non sarò mai di nessuno». Gli sorrise tra le lacrime, posandogli le dita sulla fronte, poi sulle bocca e infine sul cuore. «Hai il mio pensiero, le mie dolci parole e la parte più segreta di me. Ricorda, amare non è guardarsi l’un l’altro, ma guardare insieme nella stessa direzione», si sciolse dal suo abbraccio, arretrando fino a nascondersi tra le ombre, «e tu sarai sempre il mio orizzonte».
 
«Cosa ti lega a quella donna?», Ghiyaad ringraziò con un cenno l’oste, che depositò due boccali colmi di idromele.
«Niente», Haroon alzò le spalle, prendendo il calice e sollevandolo per l’ennesimo brindisi. Si guardò intorno, il chiacchiericcio dell’osteria in cui si trovavano era un piacevole sottofondo. Guardò verso un tavolo poco lontano, dove una splendida fanciulla sedeva in braccio ad un giovane, palesemente ubriaco, che le toccava il seno e le baciava il collo, facendola ridere a inarcarsi come una gatta in cerca di attenzioni.
«Stammi bene a sentire», il gigante poggiò un gomito sul tavolo, sporgendosi verso di lui con un’espressione severa a incendiargli gli occhi, «hai due possibilità: o sputi il rospo di tua spontanea volontà, oppure ti farò ubriacare fino a sfinirti ed ottenere comunque quello che voglio».
«Non c’è molto da sapere. Niente che sia così importante da perderci tempo».
«Quindi non significa niente, il fatto che porti ancora quel nastro blu legato intorno al pugnale».
Haroon toccò d’istinto il piccolo pugnale che portava nascosto dentro il bracciale di cuoio dell’armatura, tradendosi suo malgrado. Non sapeva come Ghiyaad ne fosse venuto a conoscenza, dato che si era premurato di nasconderlo perfettamente, ma in fondo non lo stupiva. Lo conosceva meglio di chiunque altro, o forse era l’unico a cui aveva concesso il permesso di capirlo. Sfregò il cuoio consunto, come se cercasse di trarne qualche tipo di forza. «Io e Naila ci conosciamo da quando eravamo bambini», sfilò il pugnale, osservandolo alla luce delle torce. Il nastro blu faceva bella mostra di sé, arrotolato attorno all’elsa, «siamo cresciuti a palazzo, figli di due donne dell’harem date in sposa ai consiglieri del Sultano». Si rigirò l’arma tra le dita, prima di posarla sul tavolo quasi in segno di resa, «Naila è stata il mio mondo da… praticamente da sempre». Prese un lungo sorso di idromele, stringendo la mascella, «ma ora non ha più importanza».
«C’è qualcosa di potente tra voi», Ghiyaad alzò la mano, richiamando l’attenzione dell’oste, «lo si sente nell’aria quando siete vicini».
I suonatori presero posizione, iniziando ad intonare sboccate canzoni da taverna a cui i clienti del locale risposero con entusiasmo. Si trattava per lo più di mercanti di passaggio e avventurieri in cerca di fortuna. Quel posto era la loro oasi di pace tra una traversata del deserto e l’altra. «La prima volta che l’ho vista, era addormentata tra i cuscini dell’harem. Era così piccola», Haroon sorrise amaramente, rivivendo quell’istante con la stessa intensità di tanti anni prima. Ricordava la sua vocina stridula e quegli occhi incredibili, che all’inizio lo avevano spaventato. «Mia nonna diceva che solo gli spiriti del deserto hanno gli occhi di colore diverso», si appoggiò allo schienale, allungando le gambe sotto al tavolo, «e Naila di arrabbiava dannatamente quando la chiamavo juniya». Come se un fiume in piena avesse travolto gli argini che aveva costruito attorno al suo passato, continuò a parlare senza riuscire a fermarsi. Raccontò per la prima volta a Ghiyaad della sua adolescenza, alternata dall’addestramento militare e l’incessante ricerca di tempo da passare con lei. Quando la madre di Naila li aveva visti insieme, gli aveva intimato di girarle alla larga. Sembravano luce ed ombra, vento e tempesta. Si attraevano con la stessa forza con cui il sole modella le dune, e prima o poi avrebbero oltrepassato il punto di non ritorno. «E aveva ragione. Sono legato a lei, come lei è legata a me», prese il pugnale, riponendolo con cura sotto il bracciale di cuoio, «ma quando me ne sono accorto, era già troppo tardi».
«Quella donna sarà la tua rovina, amico mio».
Haroon svuotò in un solo sorso il boccale, sostituendolo con uno pieno, «Appartiene al Sultano e agli dèi adesso. E la mia attrazione per lei è solo un cavallo da domare».
Un boato di fischi e battiti di mani li interruppe, mentre le odalische si riversavano nell’alone di luce delle torce in un tripudio di veli e colori accesi. Riempirono la grande sala con le loro risate gioiose, gli occhi lasciati scoperti dal velo che sembravano parlare una lingua antica e seducente. Si confusero tra la gente, trascinando nelle loro danze chiunque gli capitasse sotto mano.
«Che gli dèi siano benedetti per tutto questo», sogghignò Ghiyaad, facendo un cenno verso un’odalisca particolarmente provocante, «e ogni dono va onorato con fervore e passione, non credi?». L’amico non gli rispose nemmeno, limitandosi a prendere l’ennesimo sorso di idromele. «Frena l’entusiasmo Capitano!», sbatté il boccale sul tavolo, attirando la sua attenzione, «non dirmi che tutto questo ti lascia indifferente».
Haroon si limitò ad un’alzata di spalle, incrociando finalmente il suo sguardo, «Hai il mio permesso, se è quello che cerchi», un ghigno beffardo gli incurvò le labbra, mentre scoppiava a ridere.
«Andiamo Thaelab, per questa notte il mondo può aspettare», Ghiyaad si alzò, lanciando qualche moneta sul tavolo per l’oste, «approfittane e dimentica». Gli rivolse un rapido saluto militare, mentre si confondeva tra i colori e le ombre, sparendo ben presto alla sua vista.
Per un po’ Haroon non fece altro che rimanere a guardare, il pensiero distante anni luce da quel luogo. Si riscosse nel momento in cui una donna, splendida nel suo abito blu e argento, avanzò nella sua direzione. Fece un piccolo inchino, costringendolo ad alzarsi. Senza ascoltare le sue proteste iniziò a danzare per lui, il corpo che si muoveva sinuoso come una lingua di fuoco. Gli prese le mani, trascinandolo in mezzo agli altri avventori, continuando fin quando non raggiunsero una scala che conduceva al piano superiore.
Haroon si lasciò condurre senza troppe remore, sentendosi per un attimo un vigliacco. Sapeva cosa sarebbe successo, era stato con altre donne in passato e lui aveva dannatamente bisogno di affogare la sua disperazione in un corpo caldo e accogliente, che lo prosciugasse di ogni forza e lo lasciasse stordito di piacere. Chiuse ogni pensiero dietro la porta della stanza in cui si intrufolarono, mentre assaliva quasi con rabbia le labbra di quella donna senza volto e senza nome.
Quando, dopo l’amplesso, si accasciò su quel corpo che lo aveva accolto con la stessa ingordigia con cui lui lo aveva cercato, si concesse di incontrare gli occhi della fanciulla sotto di lui. Fu come immergersi in un mare di acqua ghiacciata, che lo riportò bruscamente alla realtà.
Erano belli, incredibilmente belli.
Ma avevano il colore degli smeraldi delle miniere dell’est, verdi come le foglie dei tamarindi.
Non erano blu e non erano uno diverso dall’altro.
 
Il corridoio, immerso nella luce della tarda mattina, era deserto. Per un pezzo camminò in punta di piedi, trovando il ticchettio dei suoi stivali profondamente irritante in tutto quel silenzio. Contò le porte per essere certo di non sbagliarsi, poi svoltò a destra, immergendosi nel cuore della casa delle sacerdotesse. Lì l’aria era diversa, quasi più densa, profumata dagli incensi che ardevano nei bracieri. Mosse una mano davanti al viso, cercando di diradare l’impalpabile nebbiolina che lo avvolgeva come un sudario.
Capì di essere arrivato quando scorse una grande porta intarsiata, due teste di giaguaro al posto delle maniglie e una scritta in una lingua antica che correva lungo tutta la cornice.
«Porti un dono molto grande».
Si bloccò con il pugno a mezz’aria, «Il Sultano omaggia la nuova Danzatrice del Vento», si guardò intorno, cercando di individuare con chi avesse a che fare e mostrando il piccolo scrigno che portava con sé, «chiede che lo indossi durante la cerimonia di consacrazione».
«È qualcosa di ben più prezioso, e profondo, di un semplice gioiello». Si voltò di scatto, trovandosi al cospetto di una splendida donna. Aveva i capelli del colore del grano maturo – molto simili ai suoi – e gli occhi di uno straordinario castano screziato. Non avrebbe saputo dire quanti anni avesse, ma in quello sguardo era sicuro di poter leggere intere epoche del mondo. Gli si avvicinò, girandogli intorno come un felino con la sua preda, «e lei sembra essere lo scrigno creato appositamente per accoglierlo».
«Non capisco, mia Signora».
«Conserva le tue bugie per qualcun altro», gli sollevò il viso, posandogli una mano sulla guancia e costringendolo a guardarla. «Avete mentito a voi stessi per troppo tempo, ed ora è troppo tardi. Ma ricorda», la sua voce era poco più di un sussurro, ma gli sembrò di non aver mai sentito niente di così bello, «amare non è guardarsi l’un l’altro, ma guardare insieme nella stessa direzione». Gli sfiorò la fronte, le labbra e si soffermò sul cuore, «E voi fissate lo stesso orizzonte sin dalla nascita».


Nome (EFP e Forum): morgana85 (EFP) e =Morgana di Avalon= (forum)
Titolo: Riah – Il vento del deserto
Pacchetto scelto:
Gli amanti
Prompt: Attrazione
Frase: Amare non è guardarsi l’un l’altro, ma guardare insieme nella stessa direzione (Antoine de Saint-Exupery)
Genere: Introspettivo, romantico, malinconico
Rating: Verde
Fandom o Originale: Originale
Note (facoltative): all’interno della storia sono presenti alcune parole tradotte in arabo, (lo so, Google translate non è il massimo, ma non avevo altri mezzi) che mi servivano per dare un accento più “esotico” e contestualizzare un po’ la storia.
Nello specifico:
  • Riah: vento
  • Juniya: fata
  • Thaelab: volpe
Dunque, anche questa storia partecipa al contest "Tarocchi Narranti" indetto da _Vintage_ sul forum di EFP, che ringrazio in quanto credo abbia avuto un'idea meravigliosa.
Questo è quello che ne è venuto fuori.
Lo so, non c'è l'happy ending... ma non appena ho letto il pacchetto, sapevo che sarebbe finita così. Qualcosa fuori dai miei soliti schemi. Il deserto è stata la seconda cosa di cui ero sicura. Tutto il resto è venuto da sè.
Sarei più che contenta di sapere cosa ne pensate!
Buona lettura
Morgana

 
  
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